(1) Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell’Imperatore
31 marzo 2008
Colpo d'occhio (Sergio Rubini, 2007)
27 marzo 2008
Persepolis (Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, 2007)
23 marzo 2008
Non è un paese per vecchi (Ethan e Joel Coen, 2007)
21 marzo 2008
Sci Fi anni venti in 7 film: 3. Sur un air de Charleston (Jean Renoir, 1927)
P.S. Il primo piano di Catherine Hessling è tratto dal film "La fille de l'eau" (1925) di Jean Renoir.
17 marzo 2008
La fille coupée en deux (Claude Chabrol, 2007)
Attenzione in questo post faccio spoiler! Dopo cinquanta anni esatti dal suo primo film, Le Beau Serge, fa un certo effetto leggere ed esprimere un’opinione su un film di Chabrol. Claude Chabrol è stato il primo critico dei “Cahiers” a girare il suo lungometraggio, anche se gli accordi con Resnais, Truffaut, Rivette, Bitsch, prevedevano la creazione di una cooperativa. E questo è stato possibile perché la moglie ereditò dalla nonna 32 milioni di franchi che Chabrol investì immediatamente in una società di produzione fondando
13 marzo 2008
Sci Fi anni venti in 7 film: 2. Metropolis (Fritz Lang, 1926)
Le notizie del post sono state riprese da più fonti tra cui tengo a citare il libro di Luigi Cozzi “Gli anni d’oro del cinema di Fantascienza”, e soprattutto, per quanto riguarda la Helm il volume “Le dive del silenzio” di Vittorio Martinelli.
9 marzo 2008
Sci Fi anni venti in 7 film: 1. Paris qui dort (René Clair, 1923)
Un’immagine della Senna vista dall’alto come incipit, quindi la didascalia come voce off, semplice eppure di una espressività senza pari, introduce la narrazione attraverso le immagini, solo attraverso le immagini. Una veduta dall’alto di Parigi la sera prima di addormentarsi. Et le matin suivant… inquadratura in campo medio del giovane che dorme su un letto appoggiato ad una parete. Quindi il suo risveglio in campo lungo che mostra una stanza misera, con un piccolo tavolo e uno sgabello sulla sinistra e nessun altro mobile. Ci viene presentato il personaggio: …le gardien de nuit de la Tour Eiffel… Un custode che inizia la sua normalissima giornata, si accende una sigaretta, getta il fiammifero e nel sintagma una carrellata verticale che, inquadrando il "Champ de Mars", scende fino a mostrarci il guardiano affacciato alla balaustra. Perché “dans la ville rien ne bouge”? E perché nessun parigino o turista sale sulla torre? A René Clair sono bastati due minuti per introdurre il mistero, per porsi delle domande, per incuriosirci. Qualcosa di grave deve essere accaduto. Il tempo che scorre mostrato attraverso le lancette di un orologio, che corrono velocemente, crea preoccupazione nel guardiano ma anche nello spettatore: preoccupazione, ansia, curiosità di sapere. L’immagine prende subito il sopravvento per condurre lo sguardo attraverso un interessante viaggio, attraverso una Parigi all’inizio degli anni venti, mostrandoci i problemi quotidiani, anche divertendoci. Uno sguardo sulla vita che somiglia incredibilmente a quella di oggi (aspiranti suicidi, ladri simpatici, borghesi pieni di soldi, persone che frugano nella spazzatura, scienziati pazzi, la noia, la lotta per il danaro e per il sesso, e due donne bellissime). C’è pure una notevole scena animata che sintetizza la causa e gli effetti, mostrandoci una Tour Eiffel stilizzata a sinistra, un aereo in volo a destra e, nel centro, la casa da dove è partito il raggio responsabile del sonno planetario. La parte alta della torre e l’aereo, trovandosi al disopra dello “spruzzo anestetizzante”, hanno protetto le persone dall’improvviso letargo. Il laboratorio del Prof Ixe (palesemente una quinta disegnata) sembra un’immagine futurista: una leva collegata a una sorta di scatolone con tre lampadine sopra decide se addormentare o risvegliare il mondo. “C’est d’ici qu’est parti le rayon lourd …” riporta la didascalia che sintetizza il racconto della nipote di Ixe. Un grande film che gioca sul flusso vitale della città, sul contrasto tra le strade deserte dell’incipit, dove i personaggi addormentati sono rari, e le immagini dell’epilogo in cui l’immobilità viene “ricostruita” attraverso vari frame-stop. La città svuotata dal proprio contenuto, deserta (immagine di tanti film di fantascienza degli anni a venire) non è naturale, non è più recepibile come profilmico adatto a rappresentare la realtà, la stessa che invece viene regolarmente messa in evidenza attraverso il traffico dei boulevard di una città appena risvegliatasi dal lungo sonno. Il film rappresenta il fantastico proprio attraverso il vuoto, l’assenza (assenza delle figure umane) o la rarefazione. Questa rarefazione che lascia immobili anche gli edifici, strutture inutili e abbandonate a se stesse, colte nell’attimo prima di un evento inatteso. Una guerra appena terminata o un futuro ancora più incerto? Paris qui dort è il film d’esordio del regista che poi girerà capolavori come "Sotto i tetti di Parigi" (1930), "Il milione" (1931), "A me la libertà" (1931), "Per le vie di Parigi" (1932), "Ho sposato una strega" (1942), "Accadde domani"(1943), "Dieci piccoli indiani" (1945), "Il silenzio è d’oro" (1946). Mi fermo qui altrimenti citerei l’intera filmografia. In realtà il film venne proiettato in sala circa un anno dal termine delle riprese dopo che era già uscito il suo Entr’acte (1924). Paris qui dort è una pietra miliare della fantascienza anni venti.
7 marzo 2008
Lo spazio tattile di Mark Rothko
(1) Per Vygotskij il linguaggio interiore è più o meno un linguaggio privo di parole che permette di esprimere con una sola parola contemporaneamente pensieri, sensazioni, emozioni.
5 marzo 2008
Da ieri sono un giudice della Cinebloggers!
Ieri sera ho avuto la sorpresa e il piacere di scoprire di essere stato nominato giudice della Cinebloggers Connection.
Potete immaginarmi la soddisfazione e l'onore di far parte di un gruppo rinomato di cinefili.
L'emozione provata è troppo intensa e per questo non ho parole per descrivere il mio stato d'animo.
Tutto questo grazie a Chimy e Para che hanno preso la meravigliosa iniziativa di proporre la mia candidatura proprio in questo post (devo ammettere che l'immagine di Pierrot è stupenda e non ne possedevo una così, adesso se Para e Chimy permettono me ne approprio anch'io ^_^).
I miei ringraziamenti vanno anche a Honeyboy, cineblogger da me stimato e ormai un fratello (dopo il post fusion su Cloverfield) il quale ha subito appoggiato la mia candidatura, così come ringrazio anche MrDavis, e Cinedelia, (anche loro hanno approvato la scelta di Cineroom).
Ringrazio inoltre Kekkoz che mi ha prontamente accolto nella Cinebbloggers Connection, nonché tutti gli altri che hanno incrementato le adesioni alla mia candidatura (mi si scusi se non li nomino tutti).
Adesso per me viene il difficile, perché dare un voto ad un film è un impegno enorme in quanto non so valutare attentamente le differenze tra film, specialmente tra quelli nuovi (soprattutto se capolavori) e quelli vecchi (film che ho visto molte volte e sui quali esiste una nutrita letteratura).
Ma la sfida è proprio questa: riuscire a trovare un equilibrio.
Non sarà facile, ma ci proverò.
Ancora grazie ai ragazzi di Cineroom e a tutti voi che avete approvato. ^_^
2 marzo 2008
Sweeney Todd: il diabolico barbiere di Fleet Street (Tim Burton, 2007)
Formazione del mostro. Dostoevskij nel suo “Memorie dal sottosuolo” afferma che il totale è molto di più della somma delle sue parti, quattro è molto di più di due più due. Le parti del film: colore, recitazione, profilmico, musica, découpage, prese di per sé, isolate, non aggiungono niente all’arte di Burton, anzi si limitano a ripetere e mostrare ciò che è già stato detto e visto in tanti suoi film precedenti. Il barbiere Sweeney come il sig. Pirelli, che si confrontano in una gara di rasatura, o le tante gole tagliate da Sweeney o la carne macinata ottenuta da pezzi di cadaveri umani, sono immagini già viste, elaborate, recepite. Eppure tutte queste cose insieme, non so come (e questa è la magia del cinema) generano la Chimera, portando la deissi allo stesso livello del soggetto del film. L’irrealtà fattasi mostro, appena percepibile nell’incipit (una normale storia di soprusi) prende sempre più il sopravvento trasportando i personaggi verso quel mirabile epilogo che è insieme tragedia e pittura, danza e horror, quadro invaso dalla carne e spiritualità degli eventi, commedia degli equivoci e tradimenti e amore non corrisposto, lucidità della follia e pazzia della logica. In altri termini l’epilogo è la summa di tutte le compenetrazioni, l’esplosione dei componenti del montaggio; è come se Burton si fosse divertito a smontare il film davanti a nostri occhi facendo esplodere dall’interno il découpage e la pellicola. Mostrandoci il procedimento di costruzione del film, come epilogo tragico del mondo, ha dato vita alla creatura come novello Frankenstein che ha forgiato il suo mostro costruito con pezzi trafugati nei cimiteri. Per fare questo il nostro Tifone non ha sottratto per sommare (tipico dei grandi registi), ma ha diminuito, forse comprendendo che fare il passo più lungo della gamba a volte non conviene. Ha abbassato l’intensità del colore riducendolo ad una sorta di bianco e nero colorato (azzurri, grigi, neri) non solo per rendere il clima gotico di una Londra dipinta come luogo di residenza del male, ma per non utilizzare l’intera tavolozza, perché la Chimera possiede solo parti, non tutti i corpi. Si è riservato di usare l’intera tavolozza solo nell’incipit “idilliaco” (molto breve) del barbiere ingenuo e nel sogno della signorina Lovett, riservando all’arcobaleno la parte idilliaca e sognatrice ma anche la parte capace di annientare la conoscenza. Infatti i colori del sogno sono più falsi di quel mélange gotico monocolore del film e inoltre il sogno ci restituisce uno Sweeney marionetta che non è componente attiva (nel classico sogno idilliaco il barbiere avrebbe dovuto corrispondere l’amore della signorina Lovett), ma è stato preso in prestito da un incubo a colori. Per questo il sogno della signorina Lovett è un sogno diminuito (non completo), altrimenti non sarebbe stato possibile utilizzarlo come pezzo cadaverico della Chimera. Insomma, qualunque aspetto del film è diminuzione, riduzione, evaporazione acquea, come se la finta pioggia che cade su Londra dell’incipit (suppongo volutamente falsa) stia evaporando davanti allo sguardo per lasciare il rosso come unico colore disposto a invadere il quadro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per i bambini (che non sono l’infanzia ma una loro flebile parte), l’infanzia è stata appena mostrata: tutta intera non sarebbe servita. E anche per altri aspetti del film che non starò a sottolineare.
Sinestesia dei suoni. Ossia associazione di due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse. Colore e suono non sono separati, o meglio, come pezzi trovati nel ciarpame sono separati, ma insieme interagiscono e la musica, il musical, restituisce colori, come il colore restituisce musica. Il musical non è musical perché non è composto da danza, canto, musica e recitazione, ma da surrogati di danza, di canto, di musica e di recitazione, altrimenti saremmo stati di fronte a un pessimo musical. Se dovessi giudicare il film come un musical non ne sarei entusiasta. Invece il film non è un musical perché è successo un fatto imprevedibile: musica canto e recitazione si sono compenetrati formando una sorta di monocolore mono-musicale, una sinestesia; le canzoni impossibili da ricordare, monocordi, simili a nenie distruttive, a ninnananne infernali, trasportano colori e immagini, ossia sottolineano, esaltandola, l’ambientazione e la recitazione. Una musica viva e grandiosa avrebbe potuto alienare la Chimera isolandola come componente interessante ma debole del film. In questo modo il suono s’è fatto carne, contribuendo alla formazione parossistica del rosso. Stesso discorso per la recitazione e la scenografia. Per sfruttare una sinestesia il film è un rosso ululato.
Incubo del colore. Questo ci porta all’epilogo. Chimera e sinestesia, ossia pezzi di cadaveri e inversione sensoriale sono proiettate verso il regno del rosso, la caduta nell’inferno del mondo dove l’errore, l’ingiustizia, l’infanzia perduta, il male, il falso e il brutto diventano marcatori estetici che devono essere presi in considerazione come e quanto i loro opposti. D’altronde nella Chimera il Bello soffre della sua stessa presenza poiché da due parti giustapposte e belle non necessariamente si forma un tutto bello. Il colore che sgorga dalle gole, che intinge il vetro del lucernario (e quindi dell’obiettivo), che permane nello sguardo e scivola oltre la botola, che gocciola come acqua sui volti e sui corpi persi e pronti per il pasticcio della signorina Lovett, in fondo è come una liberazione, è qualcosa di tristemente umano, è la crudeltà del sangue fuori posto (al suo posto: vita; fuori dal suo posto: morte), che sgorgando e liberandosi, annulla il movimento dei corpi. In fondo il taglio delle gole è una cesura obbligata per unire fotogrammi e formare la Chimera, per illuderci dell’esistenza di altri mondi (meravigliosi, affascinanti, romantici, pieni d’amore) ma che alla fine sono sempre mostruosità in nuce. Il taglio è un evento indispensabile nel cinema, utilizzato per creare sintagmi, per confrontare immagini e far scattare nella mente lo sviluppo narrativo. Indispensabile ma tragico. Il taglio porta con sé il rischio di rinunciare alla conoscenza. Quando Sweeney taglia l’ultima gola innocente rinuncia al riconoscimento (la vittima poco prima gli ha detto: Ma ci conosciamo?), rinuncia al percorso ovvio e logico di una ricerca sensata, rinuncia alla speranza, alla voglia di cercare, anche se a volte può sembrare inutile. Cambiando sequenza e gettando l’immagine tagliata nella botola, il barbiere ha compiuto l’ultimo atto insensato. Da ora in poi non sarà più possibile sfornare pasticci ma solo dipingere quadri astratti.
(1) Wikipedia: La chimera nella mitologia greca, “figlia di Echidna e Tifone, venne allevata dal re di Caria Amisodare, e visse a Patara. Il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderla perché essa si dava a scorrerie nel suo territorio. Con l'aiuto di Pegaso, Bellerofonte vi riuscì. Si racconta che egli avesse la punta della sua lancia di un pezzo di piombo. Al calore delle fiamme lanciate dalla Chimera, il piombo si sciolse e uccise la bestia”.
(2) Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, A ciascuno la sua chimera