3 maggio 2015

Pranzo alle otto (George Cukor, 1933). Gli attori 1/3

I film della sophisticated comedy, costruiti per mostrare una trasparenza narrativa che nasconda il discorso, allo scopo di coinvolgere lo spettatore nella storia raccontata, sembrano riprodurre la realtà o per lo meno evidenziare una verosimiglianza inappuntabile. Ad esempio il leitmotiv di Pranzo alle otto è un invito a cena che impegna per tutto il giorno la sig.ra Millie Jordan nel pianificare il pranzo preoccupandosi degli inviti e nel rimpiazzare improvvise disdette da parte di alcuni importanti ospiti. Questo permette di introdurre molti personaggi che entrano ed escono di scena raccontando le loro storie: Oliver Jordan, a capo di una compagnia navale sull’orlo del fallimento; Carlotta Vance, un’ex-attrice che vive del ricordo della sua gloria passata; Paola Jordan infatuata di un uomo molto più vecchio, Larry Renault, e disposta a rinunciare al suo imminente matrimonio con il suo coetaneo fidanzato; lo stesso Larry, che vive ancora nell’illusione di essere un grande attore mentre sta naufragando, abbandonato dai produttori, dal suo agente e persino allontanato dal direttore dell’albergo perché insolvente; Kitty Packard, una bellissima donna mantenuta da un uomo che non ama, amante del Dr. Wayne Talbot, bravo dottore ma famoso “donnaiolo” amato nonostante ciò dalla sua disillusa moglie; Dan Packard, marito di Kitty, talmente preso dalla sua arroganza di grande uomo d’affari, da non accorgersi che sua moglie lo tradisce proprio con Wayne, del quale ha la massima fiducia in quanto medico dell’ipocondriaca Kitty. Le storie si intrecciano, i personaggi si raccontano, dialogano tra di loro, i loro sguardi si incrociano, si allineano o servono a raccordare una sequenza all’altra allo scopo di restituire una linearità narrativa che permetta allo spettatore di immergersi nella “realtà”.  Questa realtà mostrata, esibita, organizzata in Pranzo alle otto (come nei film della sophisticated comedy) nasconde però qualcosa che emerge lentamente alla superficie durante lo svolgersi degli eventi: un senso di disagio che coglie lo sguardo, un qualcosa che sembra interferire con la narrazione. Come sottolineato nell’omonimo saggio di Edoardo Bruno (1) nel genere “[…] regna la finzione, come se la finzione fosse un dato reale, il luogo capace di rendere di per sé credibili i comportamenti e accettabili le trasgressioni: il sorriso cela l’inganno, l’ottimismo nasconde i dubbi, le incertezze, i non sensi coprono la ferocità delle situazioni”(2). Sotto la superficie di storie apparentemente abitudinarie (affari, amanti, amicizie, ricordi, ecc.) si rivela il leitmotiv del film, ossia il senso di morte che non emerge solo nel suicidio dell’attore fallito, Larry, ma affiora attimo dopo attimo lungo tutto il récit dei vari personaggi. Questo disagio provato non si forma nella narrazione, peraltro perfetta nel proprio svolgimento grazie all’abile regia che riesce a far interagire i vari personaggi fra di loro, concentrandosi sugli esistenti e nel lasciare lo sfondo di oggetti e comparse fuori fuoco, piuttosto prende forza nella recitazione degli attori. In particolare il modo di recitare di John Barrymore, nell’esprimere il percorso psicologico del suo personaggio (da quello che sembra un affermato attore che vive in albergo e amato da una giovane donna, Paola, alla decisione apparentemente improvvisa di porre fine alla propria vita), è teatrale nel marcare la finzione, nell’intaccare la presunta trasparenza della commedia, sottolineando al contrario un’opacità che attraversa l’intero film. Questa  teatralità, “[…]divenuta forma della commedia, fa sentire ancora di più nell’accentuazione della finzione, l’attesa di qualcosa che circola impercettibilmente, il senso della morte, del suicidio, della malattia” (3). L’attore pende il sopravvento sul personaggio. Questo vale anche per gli altri grandi interpreti: da Carlotta Vance che pare uscita da un film muto, alla bellissima e affascinante Jean Harlow, qui perfetta caricatura della bella amante bionda e stupida, a Lionel Barrymore che accentua gli sbandamenti e le cadute causate da gravi problemi cardiaci. La recitazione pertanto esce allo scoperto come un deittico capace di corrompere la presunta verosimiglianza, mostrando pertanto “[…] non la «definizione sociale», ma la consistenza poetica” (4) del film.

1. Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, il Saggiatore, Milano 1994
2. Edoardo Bruno, op. cit, p. 19
3. Ivi, p. 49
4. Ivi, p. 13

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