26 aprile 2015

L’amore bugiardo. Gone Girl (David Fincher, 2014)

Il ritrovamento del “manoscritto” come nell’ Ivanhoe di Walter Scott è il classico espediente per  rendere credibile la propria opera (in questo caso il diario di Amy) e pertanto  far scivolare “naturalmente” la storia fino al proprio epilogo; racconto come percorso-gioco, affabulazione, dalla superficie trasparente e quindi racconto realistico, obiettivo. Nel caso in questione si tratta di catturare l’interesse dello spettatore nel seguire la struttura narrativa ideata da Amy Elliott-Dunn. Ossia racconto fine a se stesso, diario come resoconto ideale di sintesi narrativa, espressione sintomatica di verosimiglianza . Il ritrovamento del “diario”, inoltre, permette di indicare la strada da seguire per scoprire il colpevole o per lo meno per indirizzare i sospetti su suo marito Nick Dunne. Si apre pertanto un percorso narrativo coinvolgente con indizi, indovinelli  (i bigliettini  nascosti da Amy prima di scomparire con rompicapi da decifrare), indagini. L’abbrivo sembra coinvolgere lo sguardo nel più classico dei topoi narrativi: film incentrato sulla denotazione come unica possibilità per coinvolgere lo spettatore, classico film del genere thriller. Eppure quello che sembra un banale imprevisto (Amy viene derubata nel Motel) risulta a posteriori un interessante espediente narrativo per uscire dallo stallo che sembrava contenere il film nel flusso di tanto cinema di genere infarcito di luoghi comuni. Il thriller scorre lentamente dalla denotazione alla connotazione, coagulando ipotesi, sensazioni, emozioni che tracimano dall’alveo del risaputo. Il ripensamento di Amy sembra disorientare il costrutto mentale, il gioco mostrato nella prima parte del lungometraggio. I bigliettini con indovinelli si sono arenati, in realtà non conducono da nessuna parte, la perfetta messa in scena di Amy riguardo alla sua scomparsa comincia a vacillare, la stessa detective Rhonda Boney evidenzia le incongruità degli alibi mostrati da Amy. La verità, finalmente proposta da Nick (ha un’amante, non ama Amy ed Amy stessa è un’assassina), pur rimanendo relegata nel privato (Nick, sua sorella Margo, l’avvocato Tanner Bolt, Rhonda), non serve a niente. La fiction deve prendere il sopravvento affinché il pubblico possa rimanere coinvolto, intrappolato in una personale diegesi cosparsa di aspettative e convinzioni indeclinabili: Amy è dalla parte dei buoni e ogni cosa deve gravitare intorno a lei; suo marito, nelle vesti di traditore pentito, può rientrare nel piano in quanto per troppo tempo sospettato ingiustamente di avere ucciso Amy. Il perdono come massima altezza della parabola narrativa già compresa nel mondo diegetico dello spettatore (simboleggiato non a caso dall’inarrestabile condizionamento dei media), nonché la redenzione come grande aspettativa per far esplodere le proprie emozioni latenti (seppur ricercate e non spontanee), possono pertanto trascinare la storia verso il proprio esito positivo (anche e soprattutto commerciale). Ritengo che la peculiarità del lavoro svolto da Fincher sia soprattutto mirata a smontare un percorso lineare apparentemente già espresso nell’incipit: quando Nick gioca nel bar a Business  insieme a sua sorella,  ho pensato di collegare questo indizio ai vari indizi (bigliettini lasciati da Amy) seguiti da Rhonda e da Nick, senza pensare al fatto che Business  non è un meccanismo matematico ma dipende dal caso: numeri estratti  che conducono la pedina fortuitamente in caselle con esiti positivi o negativi. Nel film i dadi vengono gettati spesso: dal diario artefatto rimasto semi-bruciato nel forno (leggibile eppure fin troppo realistico persino nei lembi delle pagine bruciacchiate), al furto subito da Amy (evento non previsto dal topos perché Amy, capace di sovrastare persone intelligenti non può sottomettersi a due balordi), al suo improvviso ripensamento causato dall’intervista tv di Duck che la induce a seguire nuove linee narrative. Da qui in poi il plot lascia cadere nel vuoto tutti gli indizi (tanto non servono a niente poiché il pubblico ha scelto sin dall’incipit) e il percorso logico con i suoi segni è stato fagocitato dalla facoltà della tv di condizionare il mondo. Non ha nessuna importanza seguire la strada dei bigliettini lasciati da Amy perché lei stessa entra in scena, ritorna con la potenza del Falso per indicare la via ad una umanità che proclama unica verità quella indicata da Amy. Tutto fallisce: i segni, i suoi stessi bigliettini, il diario. La narrazione è un falso e la ricerca della verità non rientra nei piani di chi ha già scelto. Il cinema non può che registrare gli eventi, cercando di ricostruire ogni momento degli accadimenti.  La narrazione pertanto si rifugia nell’extradiegetico, nelle scritte che appaiono sullo schermo non tanto per organizzare cronologicamente una storia (il film è già strutturato in modo da essere seguito anche senza le didascalie che scandiscono il tempo), quanto per ancorare la forza dell’arte al suo stesso script che emerge allo scoperto come unico momento di  verità. Il percorso seguito infatti dall’incipit (5 luglio: quel mattino; un giorno dopo; due giorni dopo; tre giorni dopo; ecc.) registra il tempo che scorre (quello diegetico) mentre le didascalie si mostrano sia come ulteriori chiarimenti di ellissi evidenti (ma in senso narrativo non ce ne sarebbe stato bisogno) quanto come affermazione dello script stesso sulla storia quasi ad attestare che il cinema non può raccontare storie vere (sebbene Gone girl riprenda una storia realmente accaduta) ma solo mostrare la propria interiore autenticità come ricerca incessante e mai sazia di conoscenza.