14 aprile 2014

Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013): 2/2 Evaporazione del sublime

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla (1).

Interessante lo sviluppo del sentimento del sublime durante il film. Il paesaggio viene mostrato solo al di là del vetro del treno e per pochissimo tempo, pertanto la contemplazione passiva che si lascia assorbire dalla bellezza non riesce neppure a decollare. Il sorgere della consapevolezza che permette di attraversare il concetto di bellezza per approdare alla massima espressione del sublime non è molto evidente nel paesaggio ghiacciato dove non appare luce o raggio di sole, un bell’effetto di luce sui massi che ci trasporti,  come afferma Schopenhauer , nello stato della conoscenza pura , rimuovendo ogni volere. Questa “elevazione” si pone al contrario all’interno del treno come luogo in cui la scoperta del fuori da parte degli uomini di coda dona al paesaggio un elemento (anche se flebile) in grado di generare il sentimento del sublime. C’è una presa di coscienza (almeno un principio) dell’ineludibilità della condizione umana, un’effimera manifestazione di volontà di sopravvivenza oscillante tra la contemplazione del mondo ghiacciato (nascita del sublime) e la paura di esserne inghiottiti (uscita dal sublime). Questo sviluppo purtroppo avviene con fatica fino a germogliare nel vagone-acquario. Camminando in mezzo ai pesci che nuotano sopra di noi, assistiamo a un ulteriore annichilimento della volontà nell’ammirare la bellezza dell’ambiente abbinata alla raggiunta consapevolezza di un altro modo di procurarsi il cibo, un qualcosa di sconosciuto che adesso s’impone in tutta la sua magnificenza. Lo sguardo quindi si pone subito, come direbbe Schopenhauer, come indebolimento della volontà allo scopo di lasciare lievitare l’atto conoscitivo. Il percorso di conoscenza potrebbe andare di pari passo con l’affermazione del sentimento del sublime che si arricchisce di un elemento in più: durante la sparatoria tra vagone e vagone (sfruttando il girotondo del treno sui binari gelati) da un foro del vetro perforato entra un fiocco di neve. Il ralenti identifica il fiocco come pericolo (il gelo che potrebbe invadere i locali), ma anche come bellezza pura che chiede di essere osservata nel cristallo perfetto e minaccioso. Da qui in avanti mi sarei aspettato una serie di indizi fino all’epilogo sconvolgente che rimpicciolisce l’uomo nel mondo, atomo cosciente e consapevole di svanire nel nulla. Invece la battaglia prende il  sopravvento. Certamente il film non viene disturbato da una delle sequenze più affascinanti (battaglia nel vagone con infrarosso). Ed anche se l’oscurità in cui avviene lo scontro, dando il la, al massacro degli ultimi, diventa luogo di paura e terrore, e la reazione degli umili avviene illuminando con le torce l’ambiente, lo scontro si dissolve proprio perché l’uomo nella sequenza prende il sopravvento e ingigantisce. Con questo non voglio affermare che la battaglia sia un momento debole del film, anche perché l’altra faccia della medaglia del sublime comprende il fatto che l’uomo, pur sentendosi minacciato e infimo, veda se stesso come eterno, “tranquillo soggetto del conoscere”(2). Però forse ci sarebbe stato bisogno di un elemento in più, forse un rapporto tra lo scontro in corso e il ghiaccio che disturba e sconvolge il treno. La sequenza delle fiaccole che illuminano il punto di vista immerso nello spettro dell’infrarosso è intensa e di grande impatto visivo, non vi sono dubbi. Per me, che chiedo sempre troppo, un altro piccolo escamotage avrebbe trascinato il film alle soglie del capolavoro. Ma al di là di questo discorso Snowpiercer rimane un ottimo film. Il sentimento del sublime nel frattempo si frantuma in varie sequenze: dall’ingresso nella gallerie di ghiaccio, ai precipizi gelati, alla slavina che si abbatte sul treno. Nella sequenza della slavina in particolare il punto di vista onnisciente che inquadra il treno visto dall’alto e la frana che scende nel silenzio di un mondo immerso nella sua nuova verginità trasferisce l’emozione nello spettatore. L’epilogo drammatico adesso è già in fieri ma comunque la nuova asperità del paesaggio innevato, lo spettacolo dirompente e minaccioso della natura, emerge in tutta la sua potenza. Per citare Schopenhauer…

Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un pericolo proveniente dall'oggetto,ecco 'individuale volontà effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impossibile la calma della contemplazione, andar perduta l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro pensiero (3).

La paura in effetti emerge raramente nel film, si attesta su valori bassi, vagamente rammentata nelle prime sequenze viene poi abbandonata del tutto nell’epilogo. Bong Joon-ho, da qualcuno definito da “croce verde”, è invece  molto lucido e consapevole del fatto che tutto ritorna alla natura, tanto bistrattata e non considerata, ritenuta addirittura non utilizzabile e nominata solo come risorsa da trasformare in profitto, ma sempre in grado di suscitare il forte sentimento del sublime.

1 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, e-book  http://www.liberliber.it, Tomo II, p. 69
2 cit. p. 68
3 p. 64

7 aprile 2014

Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013): 1/2 Brillanza e desaturazione

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio (1).

Film post apocalittico distopico? No grazie. Il  ghiaccio invade la visione bloccando un mondo già immobile dove l’unico movimento (almeno per quasi tutto il film fino a poche inquadrature dall’epilogo) è un moto perpetuo di una macchina che trasporta l’umanità. Sembra però che stavolta il novello Noè sia un Macchinista-Dio che giustifica il proprio potere come violenza necessaria per controllare la popolazione. Ma non bastava mettere anticoncezionale nelle barrette del cibo? In effetti se si rimane concentrati troppo a lungo nell’evento si rischia di perdere il senso profondo del Sublime che anima il film dall’inizio alla fine. Snowpiercer ci prepara ad apprezzare la magnificenza e la minaccia della natura anche se continuamente maltrattata dagli esseri umani. I canyon gelati su cui scorre il treno, i binari sospesi nel nulla, le valanghe, le città congelate, i porti, il mare, le fabbriche: il mondo esterno chiede di essere osservato come visione che cresce vagone dopo vagone, metro dopo metro percorso dal gruppo dei ribelli. Eppure l’incipit sembra costruire un classico apocalittico con vagoni blindati, senza luce, ciarpame e masserizie ovunque, spazio claustrofobico occupato da esseri umani deformi, sporchi e disperati: i nuovi miserabili post-apocalittici saltati sul vagone senza prenotazione. Perseguitati da poliziotti che arrivano per depredare e sequestrare bambini e qualche persona capace (anche di suonare il violino), gli emarginati iniziano il loro cammino di morte e violenza per raggiungere la testa del treno. Lo spazio pertanto sembra oscuro (vagoni blindati senza finestre) e rettilineo (il treno). Invece improvvisamente lo spazio si apre sul fuori (il mondo congelato) e schiarisce all’interno con luminosità e saturazione. Oltre ad essere metafora della storia del cinema (dal bianco e nero al colore, dalle storie classiche rettilinee con incipit ed epilogo a quelle circolari o aperte), il film proporne un interessante accostamento tra oscurità-bene (in fondo nel bene e nel male gli esclusi sono brave persone provate dalla vita dura e dalla fame ma pur sempre solidali e in grado di organizzarsi) e brillanza-male (i vagoni di testa, apparentemente paradisiaci sono in realtà spettacoli sublimi pertanto pervasi da dolore e disperazione eppure attraenti e capaci di tentare indebolendo tutti coloro che provano ad occupare nuovo spazio). Là dove nei vagoni di coda si cerca di arrangiarsi, magari unendo le proprie forze, e i dialoghi sono più o meno da cinema classico (coerenti, logici), in quelli di testa prende sempre più forza l’ipocrita riconoscenza a un dio salvatore e il racconto di un falso bene trasmesso a scolaresche addomesticate da maestrine sdolcinate e sorridenti che ricordano tanto le massaie di Edward mani di forbice. L’avvento del colore e della luce è una falsa verità. Il bene, il futuro del mondo (del cinema forse) non è rappresentazione di bellezza edulcorata e stereotipata come imposta per accomodare certezze utili a mantenere certi equilibri di potere. Il cinema deve invece percorrere anche altre strade, scavare nel sottosuolo per verificare altri punti di vista, altre verità. Pertanto le tre coordinate del colore (brillanza, contrasto e tonalità) non sono altro che l’epilogo di un abbaglio capace di portare alla cecità. Lo schermo bianco (massima brillanza possibile), come assenza di immagine ma somma di tutte le immagini (colori), non è redenzione né tanto meno soluzione di una volontà (migliorare le proprie condizioni di vita). Il cinema può soltanto ricordare la sua incapacità di identificare la strada giusta (oppure nel gergo usuale: capacità di raccontare) ma al contempo diventa carica prorompente se utilizzato come mezzo di conoscenza (capacità di rivelare). Per far questo assume importanza la desaturazione ossia l’abbattimento del colore nel limite estremo del bianco e nero. L’incipit è il Paradiso già raggiunto, il covo sicuro punto di partenza di un futuro che verrà, di un cinema che sarà. Da lì in poi le immagini potranno solo corrompersi, il colore saturare e la chiarezza accelerare (sia come luminosità che come esplicitazione del “male” contenuto nel mondo). Lo spazio inoltre potrà solo mostrare l’inganno, il proprio trompe-l‘oeil, da spazio rettilineo (il serpentone del treno) a spazio circolare (la grande curva dei binari percorsa dallo snowpiercer), quindi uno spazio pericoloso (sparatoria da vagone a vagone sfruttando la visibilità del mondo congelato) ed estremamente luminoso (grandi finestre che lasciano entrare il gelo del mondo). Abituati a vedere il pericolo di tanti film distopici celato nell’oscurità, rimane difficile da capire per lo sguardo il terrore annidato nella luce, nel riflesso del bianco che illumina il mondo e i vagoni di testa del treno. I nuovi mostri sono adesso personaggi apparentemente innocui (la maestra, le donne dal parrucchiere, la sauna, i partecipanti della festa in maschera) ma in grado di colpire chi ingenuamente si fida delle apparenze.


1 Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Incipit.