15 febbraio 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 1/3 - Finisce sempre così



Cercare l’effimero nell’eternità di una città e scambiarlo per bellezza – i giochi, i pranzi, i dialoghi snob e un po’ ripetitivi davanti alle piazze più famose di Roma, con la mdp volteggiante sotto i ponti nel mostrare la visione di un Tevere che non possiede più la vitalità del Tevere di Poveri ma belli o di Vacanze romane, ma si presenta come sguardo distante su una città ormai bella solo nell’immaginario collettivo (una bellezza nascosta in un museo) – cercare di trovare l’introvabile (una Roma da cartolina, una Via Veneto felliniana intravista chissà dove) ossia la bellezza magari paragonandola a un concetto altrettanto aleatorio (il fascino ad esempio di un bagno nella fontana di Trevi) potrebbe indurre a “osservare” il film con uno sguardo prospettico che in questo caso Sorrentino tende ad escludere sin dall’incipit. Le foto scattate dal turista entusiasta su un panorama-cartolina non hanno importanza (qui lo spazio e la dislocazione dei luoghi deputati trasformano il piazzale del Gianicolo in una virtuale navata con il coro posto sulla Fontana dell’Acqua Paola, ipotetico presbiterio), le foto non valgono come visioni future di Roma da cartolina perché lo spazio che stiamo percorrendo con lo sguardo è uno spazio metaforico: il coro, la navata, il presbiterio, la morte.  La grande bellezza in altri termini non è la prospettiva di una Roma da cartolina dissociata da un “popolo” che la abita come in un incubo, disprezzando la propria stessa mondanità; non è lo sguardo sopra i tetti o sotto i ponti, la visione di una spogliarellista nuda o la corsa in un convento di suore e scolaresca.  La grande bellezza è l’alito della morte. Nella sequenza in cui la santa allontana i fenicotteri dalla terrazza con un soffio e la mdp li inquadra mentre occupano il cielo al tramonto di una Roma esausta, ripresi mentre si allontanano dal nostro punto di vista (quello di Jep o della Santa?) il paesaggio tracima dallo schermo riversandosi nell’idea di un passato in cui non è più possibile rifugiarsi, perché abbiamo perso il gusto di una prospettiva tridimensionale sempre identica a se stessa, sempre confortante, sempre pronta ad essere usata come metro di paragone per limitare o eludere la ricerca e l’approfondimento di altri tipi di conoscenza. La riproposizione di una verità strutturata, rendicontata, matematizzata, e che purtroppo al contrario continua ad essere posta come visione centrale, riduce lo sguardo a mero ricettore e/o registratore di formazione (come quando portavamo le cassettine per risentire il corso all’Università). La verità peraltro diventa eversiva quando non coincide con i canoni e le regole proposte e condivise. Questo, se pur discutibile nella vita politica (ma qui non voglio affrontare argomenti delicati e opinabili), non è possibile quando si tratta di Arte. Pertanto nell’arte non si nega la verità della Storia (la dolce vita o una Roma caput mundi ridotta a ombra di se stessa). La bellezza diventa così fluida, inaffidabile, di difficile interpretazione, impossibile da definire, inquadrare, mostrare. La prospettiva cede il passo (e questo ormai in pittura, nonostante i tanti anacronismi pittorici, è assodato) al flusso continuo e inarrestabile della vita, all’indefinibile ribalta dell’essenza di un momento, della disperazione, della volontà di esserci e del corrispettivo contraltare di una paura che non ha limiti. La bellezza nel film di Sorrentino è lo spettro stesso di un’immagine che ci ha uccisi. Lo spogliarello di tante belle donne, lo sguardo che coordina i monumenti con le aree verdi, hanno portato la paura a un grado mai raggiunto: la paura diventata reale di un mondo occupato da un paesaggio troppo antropizzato ad esempio (persino avvelenato). Ricomporre l’immagine dissipandola, lasciandola lievitare fino a vederla soccombere significa anche accettare la possibilità di un valore aggiunto della bruttezza. Il primo piano della Santa, le sue rughe, la salita in ginocchioni sulla scalinata disturbano la serena contemplazione estetica. La morte (come dice Jep “Finisce sempre così, con la morte”) è la vera antinormativa da esorcizzare, una morte che sorvola il film in ogni sequenza, così come la mdp con i suoi insistenti dolly volteggia dal cielo alla terra, dalla contemplazione alla sofferenza, dalla filosofia al divertimento. Non mi riferisco tanto alla morte cercata da Andrea o a quella sconfortante che vive dentro Ramona, ma a una morte che avvolge l’attimo, isolandolo per riproporlo al pensiero di un’intera vita: come il ricordo di un giovane Jep sulla scogliera solo nella notte con una ragazza pronta ad amarlo o quello amaro di Alfredo che scopre di essere stato per la moglie solo un buon compagno. Questa morte aspra che si avventa sul quotidiano in ogni momento e che Sorrentino ha saputo restituire come emozione amara in ogni sequenza: la grande bellezza.

 

2 commenti:

Ross ha detto...

Complimenti!
Finora, la migliore recensione che abbia letto.

Luciano ha detto...

@Ross. Sono molto lusingato. Grazie Ross ;)