28 febbraio 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 2/3 Adesso voglio farti vedere una cosa

La festa in casa di Jep dell’incipit è tra le sequenze più suggestive del film. Sette minuti circa di danza collettiva, una discoteca sulla terrazza, l’erotismo sprigionato in ogni attimo, quasi volgare, pregno di labile appagamento, luogo in cui si brucia inesauribile il desiderio di una mancanza. L’assenza dell’amore vs la presenza della morte. La danza di corpi che si dimenano, gli sguardi che si lanciano in richieste oscene nella canzone di Raffaella Carrà (“A far l’amore comincia tu”) per afferrare l’attimo nell’illusione di congelarlo. Un carpe diem che ricorda molto da vicino il concetto oraziano nei cui epodi domina il tema della morte inscindibile dal tema del tempo. « È la morte che dà all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum (epist. 1, 16,79) che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana» [1]. Il carpe diem del resto, come afferma Traina, è circondato da molti divieti: vedi a esempio l’ode 1, 11 ricca di performativi negativi: non indagare il futuro (ne quaesieris), è peccato sapere (scire nefas),  non tentare l’oroscopo (nec temptaris), non prolungare la speranza oltre il breve spazio della vita (spatio brevi/ spem longam reseces), non farti illusioni sul domani (quam minimum credula  postero) [2]. L’attimo inteso come luogo dell’ansia, rifugio nel presente per fuggire dal futuro. Ma nell’opera di Sorrentino l’attimo è solo rinviato. La rinuncia a conoscere gli sguardi, a ripudiare il tema ricorrente per alimentare l’irrazionale desiderio di nascondersi alla vita. Il preconcetto, il ruolo da ricoprire, senza sorprese, senza possibilità di sfuggire all’etichetta che l’altro ci ha stampigliato sulla fronte. Siamo quello che siamo, come una scrittura che continua ansimante a mendicare evidenza anziché a creare nuove prospettive. Lo sguardo di Sorrentino piuttosto, nel sottolineare la mancata fusione di corpi, mostrando singole, disarticolate possibilità di movimento, si sofferma a manifestare il tentativo di esorcizzare la noia; nella sequenza in oggetto la noia si palesa come informazione collettiva, una massa di esseri che rimangono soli per dimenticare la percezione della loro esistenza. In effetti  il tema nel caso specifico non è il racconto della vita, ma la parte vuota del racconto stesso, il suo incavo, ciò che non si dice o non si vuole dire perché dicendolo, il senso perderebbe forza riducendosi a mero dato inutilizzabile. E nel ballo reiterato, come nel silenzio della danza di una donna tatuata e relegata dietro una vetrata,  si sostiene, si racconta il vuoto che c’è tra le cose, non le cose stesse, per citare Godard, ma quello che c’è tra le cose, non la storia, o la vita mondana o la dolce vita, o il desiderio, ma l’assenza che cresce, si allarga, debordando dallo schermo, sin dalla prima sequenza: l’assenza dell’amore. Eppure l’amore andrebbe ricercato, non è una cosa da raccontare ma un Graal da inseguire magari inutilmente, magari per l’intera vita, da trovare nelle pieghe recondite di un discorso, nel fondo di occhi che osservano, nell’oscurità di una scogliera con il mare in basso, calmo ma fragoroso, e nello sguardo di una ragazza che mostra il seno e nient’altro. Se dovessi esprimere una sinossi dichiarerei che il film è la ricerca dell’amore trovato finalmente a ritroso nel passato, che è stato celato nei meandri reconditi della mente di Jep. L’amore pertanto è un nucleo, piccolo, quasi introvabile, ma allo stesso tempo denso significato puro; pertanto diventa soggetto epico, capace di svanire lentamente, senza pathos, tra i ricordi e le parole, nel blabla quotidiano, scambiato spesso per sesso, eppure così distante, intramontabile, inspiegabile. Il contrasto tra il silenzio, luogo di riflessione e meditazione, della breve sequenza del sogno (o ricordo) ricorrente, con il mare in basso e la calma che domina e  quella dell’incipit, fragorosa, lunghissima, della danza collettiva sulla terrazza, luogo canonico in cui l’amore viene negato dai movimenti dei corpi, questa differenza di potenziale, genera un campo elettrico che oscura le immagini. Sia l’amore che il suo contrario (la solitudine di corpi contumaci, vicini ma così distanti, uniti nelle danze ma così separati) si perdono nel vuoto di tante vite sospese nella vita mondana, priva di amore e nostalgica di amore. La danza è un elettrochoc linguistico nel senso di luogo dove non è possibile decodificare i segni, dove l’ineffabile diventa il dio da adorare, perché il linguaggio relega l’amore nel sapore amaro di un ricordo: la grande bellezza

[1] Alfonso Traina in Quinto Orazio Flacco, Odi e Epodi, Biblioteca Universale Rizzoli, 19935 Milano, p. 10.
[2] Ivi, p. 14.

Hor. Odi ed Epodi  1,11
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

15 febbraio 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 1/3 - Finisce sempre così



Cercare l’effimero nell’eternità di una città e scambiarlo per bellezza – i giochi, i pranzi, i dialoghi snob e un po’ ripetitivi davanti alle piazze più famose di Roma, con la mdp volteggiante sotto i ponti nel mostrare la visione di un Tevere che non possiede più la vitalità del Tevere di Poveri ma belli o di Vacanze romane, ma si presenta come sguardo distante su una città ormai bella solo nell’immaginario collettivo (una bellezza nascosta in un museo) – cercare di trovare l’introvabile (una Roma da cartolina, una Via Veneto felliniana intravista chissà dove) ossia la bellezza magari paragonandola a un concetto altrettanto aleatorio (il fascino ad esempio di un bagno nella fontana di Trevi) potrebbe indurre a “osservare” il film con uno sguardo prospettico che in questo caso Sorrentino tende ad escludere sin dall’incipit. Le foto scattate dal turista entusiasta su un panorama-cartolina non hanno importanza (qui lo spazio e la dislocazione dei luoghi deputati trasformano il piazzale del Gianicolo in una virtuale navata con il coro posto sulla Fontana dell’Acqua Paola, ipotetico presbiterio), le foto non valgono come visioni future di Roma da cartolina perché lo spazio che stiamo percorrendo con lo sguardo è uno spazio metaforico: il coro, la navata, il presbiterio, la morte.  La grande bellezza in altri termini non è la prospettiva di una Roma da cartolina dissociata da un “popolo” che la abita come in un incubo, disprezzando la propria stessa mondanità; non è lo sguardo sopra i tetti o sotto i ponti, la visione di una spogliarellista nuda o la corsa in un convento di suore e scolaresca.  La grande bellezza è l’alito della morte. Nella sequenza in cui la santa allontana i fenicotteri dalla terrazza con un soffio e la mdp li inquadra mentre occupano il cielo al tramonto di una Roma esausta, ripresi mentre si allontanano dal nostro punto di vista (quello di Jep o della Santa?) il paesaggio tracima dallo schermo riversandosi nell’idea di un passato in cui non è più possibile rifugiarsi, perché abbiamo perso il gusto di una prospettiva tridimensionale sempre identica a se stessa, sempre confortante, sempre pronta ad essere usata come metro di paragone per limitare o eludere la ricerca e l’approfondimento di altri tipi di conoscenza. La riproposizione di una verità strutturata, rendicontata, matematizzata, e che purtroppo al contrario continua ad essere posta come visione centrale, riduce lo sguardo a mero ricettore e/o registratore di formazione (come quando portavamo le cassettine per risentire il corso all’Università). La verità peraltro diventa eversiva quando non coincide con i canoni e le regole proposte e condivise. Questo, se pur discutibile nella vita politica (ma qui non voglio affrontare argomenti delicati e opinabili), non è possibile quando si tratta di Arte. Pertanto nell’arte non si nega la verità della Storia (la dolce vita o una Roma caput mundi ridotta a ombra di se stessa). La bellezza diventa così fluida, inaffidabile, di difficile interpretazione, impossibile da definire, inquadrare, mostrare. La prospettiva cede il passo (e questo ormai in pittura, nonostante i tanti anacronismi pittorici, è assodato) al flusso continuo e inarrestabile della vita, all’indefinibile ribalta dell’essenza di un momento, della disperazione, della volontà di esserci e del corrispettivo contraltare di una paura che non ha limiti. La bellezza nel film di Sorrentino è lo spettro stesso di un’immagine che ci ha uccisi. Lo spogliarello di tante belle donne, lo sguardo che coordina i monumenti con le aree verdi, hanno portato la paura a un grado mai raggiunto: la paura diventata reale di un mondo occupato da un paesaggio troppo antropizzato ad esempio (persino avvelenato). Ricomporre l’immagine dissipandola, lasciandola lievitare fino a vederla soccombere significa anche accettare la possibilità di un valore aggiunto della bruttezza. Il primo piano della Santa, le sue rughe, la salita in ginocchioni sulla scalinata disturbano la serena contemplazione estetica. La morte (come dice Jep “Finisce sempre così, con la morte”) è la vera antinormativa da esorcizzare, una morte che sorvola il film in ogni sequenza, così come la mdp con i suoi insistenti dolly volteggia dal cielo alla terra, dalla contemplazione alla sofferenza, dalla filosofia al divertimento. Non mi riferisco tanto alla morte cercata da Andrea o a quella sconfortante che vive dentro Ramona, ma a una morte che avvolge l’attimo, isolandolo per riproporlo al pensiero di un’intera vita: come il ricordo di un giovane Jep sulla scogliera solo nella notte con una ragazza pronta ad amarlo o quello amaro di Alfredo che scopre di essere stato per la moglie solo un buon compagno. Questa morte aspra che si avventa sul quotidiano in ogni momento e che Sorrentino ha saputo restituire come emozione amara in ogni sequenza: la grande bellezza.