9 settembre 2014

Across the Universe (Julie Taymor, 2007)

Spazio e tempo. Liverpool vs Princeton-New York; ossia le mura del quartiere operaio salgono in alto, le gru e le navi del cantiere inquadrate dal basso, i vialetti, i miseri giardinetti dei vicoli si restringono accostandosi a Jude che cammina per recarsi al cantiere navale; vedi al contrario i grandi spazi di Princeton, l’Università con i giardini, il campo di rugby, i parchi-bosco, persino le inquadrature di New York con i grattacieli distanti  inquadrati per evidenziare l’ampiezza delle piazze e delle vie e le strade di Brooklyn. La verticalizzazione di una città prettamente orizzontale qual è Liverpool opposta al respiro orizzontale di un paese immaginato come verticale. La claustrofobia opposta all’agarofobia assecondate dai virtuosismi e dagli arrangiamenti metaforici della musica dei Beatles, unica scelta per “rappresentare” un’epoca, un simbolo, un mito. Questo per dimostrare che non siamo seduti a “osservare” la Storia, ma solo una storia (la storia d’amore tra Jude e  Lucy), siamo seduti a vedere un musical, genere in cui la musica domina sul dialogo e che particolarmente in Across the Univers si sostituisce pressoché al dialogo amplificando il senso delle parole delle canzoni dei Beatles. Il musical cresce immagine dopo immagine, sequenza dopo sequenza, atto a ristabilire il senso storico di eventi cristallizzati nel tempo evocati per dispute sul “bisogno” di guerra o sulla forza pregnante di un pacifismo ormai sbiadito. Il musical suscita la percezione di un’epoca per concentrasi sull’oggi. Across the Univers gioca con gli anni sessanta per fare riflettere sulla debolezza tangibile di un oggi abituato a digerire guerra dopo guerra, genocidio dopo genocidio, persino l’indignazione e lo stupore: scandalo dopo scandalo la routine ha annichilito le coscienze.

C’erano una volta i Beatles. Questa splendida musica è rielaborata e trasformata non per adattare il senso di un’epoca ai bisogni dell’oggi ma per recuperare un’atmosfera, un sapore perduti, allo scopo di disarticolare l’idea che ci siamo fatti di anni lontani (mitici, ma scoloriti, dimenticati) dalla certezza storica di un accaduto irripetibile: il Vietnam, le manifestazioni pacifiste, le marce, i sit inn, la polizia violenta come descritta in Fragole e sangue di Stuart Hagmann, le pantere nere, la guarda nazionale. Eppure tutto ciò accade ancora oggi e forse più spesso. È assente caso mai il senso di una appartenenza. La disgregazione ha avuto il suo effetto e per questo l’unica sola musica dei Beatles (33 brani), rivisitata dagli arrangiamenti di Elliot Goldenthal, comprende il rock and roll degli anni settanta, da Bob Dylan ai Jefferson Airplane, ai Doors; tutto ciò per suscitare il senso della musica dell’epoca. Ad esempio Let it be cantata come un gospel evidenzia la metamorfosi di una musica che non era quella (la melodia originale) ma che comprende tutta la musica dell’epoca, la elabora, ne diviene simbolo, restituendo in pieno l’atmosfera di quegli anni.

Attraverso l’universo. “Limitless undying love which shines around me like a million suns/It calls me on and on across the universe […]Nothing's gonna change my world” (1). Questa musica, queste immagini, le animazioni, il sound psichedelico, i colori “negativi” del viaggio che debordano dai contorni delle forme per acquisire un loro status, ogni cosa attraversa l’universo per farci ascoltare questa radiazione di fondo, questo suono labile proveniente dal nostro passato per ricordarci che niente dovrà cambiare il “nostro mondo” neppure le immagini e le sequenze costruite solo per appagare la mente: illudere anziché eludere (2), elidere invece di esimere (3). In altri termini si tratta di attraversare il film, testo-universo che descrive un mondo immaginario, paradigmatico, in grado di strutturare un senso. Si tratta di immedesimarsi nel contesto riconoscendo la musica dei Beatles come unica musica ascoltata all’epoca non perché i Beatles rappresentino da soli un periodo irripetibile. Secondo i miei gusti personali le band e i musicisti che hanno segnato un’epoca sono numerosi (e Julie Taymor lo sa benissimo dimostrandolo con i camei di Joe Cocker e Bono) eppure gli arrangiamenti di Goldenthal “trasformano” pezzi famosi rilasciandoli nell’humus storico, nell’eco giunta fino a noi tramite letture e/o ricordi, consegnando uno spaccato dell’America (e in parte dell’Inghilterra) di quegli anni.

(1)   Amore senza fine né limiti mi splende intorno come un milione di soli/ Mi chiama ancora e ancora per tutto l'universo […] Niente cambierà il mio mondo”.
(2)    Mi riferisco a un certo tipo di cinema post-classico che vuole sempre e comunque essere trasparente per illudere di vivere una storia anziché di limitarsi a evidenziare almeno che sta in realtà prendendosi gioco dello spettatore.
(3)    Un cinema che cerca di annullare la coscienza mentre dovrebbe liberare lo sguardo dall’obbligo di comprendere a ogni costo tutte le invenzioni raccontate.

23 agosto 2014

Ida (Pawel Pawlikowski, 2013)

La ricerca delle spoglie dei genitori in una Polonia anni cinquanta ancora in bianco e nero emerge come contesto  inappropriato. Trovare i poveri resti delle vittime è come cercare di ingigantire il senso della storia senza costruire contesti. In altri termini porre l’evento, organizzare una coppia dicotomica, rappresentare l’assenza di movimento col viaggio in una Polonia da socialismo reale, presuppone un rallentamento costante dell’immagine. Con ciò non intendo affermare che il film sia “lento”; e in effetti per lo spettatore del nuovo millennio, abituato a immagini che si accatastano costantemente l’una sull’altra, l’una nell’altra, nel vedere immobili campi lunghi di piatti paesaggi polacchi o interni di case, locali, commissariati, immagini che non rinunciano mai a scomparire lasciando il posto a nuove visioni, sorge una sensazione atroce di affaticamento mentale, come un rifiuto fisiologico di altre conoscenze. Ida da questo punto di vista mostra al contrario un nuovo concetto di rapidità: una velocità scaturita da uno spazio dilatato percorsa da un tempo pressoché immobile. Il tempo in Ida è un instabile equilibrio tra passato ricordato dai protagonisti (il passato di Ida da piccola con i suoi genitori ebrei uccisi da un contadino, il passato più recente di Wanda di quand'era procuratore e condannava a morte povera gente nemica della rivoluzione, il passato di una Polonia immobile, inattiva, corrosa, spolpata da chi in nome del popolo ha tradito il popolo stesso riservandosi privilegi e sostanze), passato che il film rappresenta, un passato storico ma che accade adesso davanti allo sguardo dello spettatore, e l’dea di un passato filtrato attraverso la diegesi tutta personale di ogni spettatore, per cui il tempo si condensa, si aggruma in un contesto (situazione Polonia comunista) riducendosi, comprimendosi fino quasi ad annullarsi, restituendo l’idea di un tempo immutabile, immobile, fermo nel suo non divenire. Lo spazio al contrario si apre nei campi lunghi, scorre ai lati o davanti l’auto, come scenografia simbolica di immensità: le vaste pianure desolate, le strade tutte uguali e anonime abituano la vista a cercare il profilo dell’orizzonte, quasi per fuggire dal contesto mortificante e uggioso di una società voluta da una classe dirigente inviluppata nella sua stessa arroganza di superiorità. La velocità del film pertanto non è da cercare nella fuorviante affermazione di “film lento” (il regista direi lascia respirare l’immagine prima di sostituirla nel sintagma con un’altra) ma nel respiro di un tempo nullo in uno spazio infinito. Il riepilogo del film, il dramma di Ida, la sua scelta, la scelta drastica della zia, la scelta di una Polonia ingessata si urtano, si intersecano velocemente nella mente dello spettatore fino a suscitare un’emozione intensa, densa di senso. 



14 aprile 2014

Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013): 2/2 Evaporazione del sublime

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla (1).

Interessante lo sviluppo del sentimento del sublime durante il film. Il paesaggio viene mostrato solo al di là del vetro del treno e per pochissimo tempo, pertanto la contemplazione passiva che si lascia assorbire dalla bellezza non riesce neppure a decollare. Il sorgere della consapevolezza che permette di attraversare il concetto di bellezza per approdare alla massima espressione del sublime non è molto evidente nel paesaggio ghiacciato dove non appare luce o raggio di sole, un bell’effetto di luce sui massi che ci trasporti,  come afferma Schopenhauer , nello stato della conoscenza pura , rimuovendo ogni volere. Questa “elevazione” si pone al contrario all’interno del treno come luogo in cui la scoperta del fuori da parte degli uomini di coda dona al paesaggio un elemento (anche se flebile) in grado di generare il sentimento del sublime. C’è una presa di coscienza (almeno un principio) dell’ineludibilità della condizione umana, un’effimera manifestazione di volontà di sopravvivenza oscillante tra la contemplazione del mondo ghiacciato (nascita del sublime) e la paura di esserne inghiottiti (uscita dal sublime). Questo sviluppo purtroppo avviene con fatica fino a germogliare nel vagone-acquario. Camminando in mezzo ai pesci che nuotano sopra di noi, assistiamo a un ulteriore annichilimento della volontà nell’ammirare la bellezza dell’ambiente abbinata alla raggiunta consapevolezza di un altro modo di procurarsi il cibo, un qualcosa di sconosciuto che adesso s’impone in tutta la sua magnificenza. Lo sguardo quindi si pone subito, come direbbe Schopenhauer, come indebolimento della volontà allo scopo di lasciare lievitare l’atto conoscitivo. Il percorso di conoscenza potrebbe andare di pari passo con l’affermazione del sentimento del sublime che si arricchisce di un elemento in più: durante la sparatoria tra vagone e vagone (sfruttando il girotondo del treno sui binari gelati) da un foro del vetro perforato entra un fiocco di neve. Il ralenti identifica il fiocco come pericolo (il gelo che potrebbe invadere i locali), ma anche come bellezza pura che chiede di essere osservata nel cristallo perfetto e minaccioso. Da qui in avanti mi sarei aspettato una serie di indizi fino all’epilogo sconvolgente che rimpicciolisce l’uomo nel mondo, atomo cosciente e consapevole di svanire nel nulla. Invece la battaglia prende il  sopravvento. Certamente il film non viene disturbato da una delle sequenze più affascinanti (battaglia nel vagone con infrarosso). Ed anche se l’oscurità in cui avviene lo scontro, dando il la, al massacro degli ultimi, diventa luogo di paura e terrore, e la reazione degli umili avviene illuminando con le torce l’ambiente, lo scontro si dissolve proprio perché l’uomo nella sequenza prende il sopravvento e ingigantisce. Con questo non voglio affermare che la battaglia sia un momento debole del film, anche perché l’altra faccia della medaglia del sublime comprende il fatto che l’uomo, pur sentendosi minacciato e infimo, veda se stesso come eterno, “tranquillo soggetto del conoscere”(2). Però forse ci sarebbe stato bisogno di un elemento in più, forse un rapporto tra lo scontro in corso e il ghiaccio che disturba e sconvolge il treno. La sequenza delle fiaccole che illuminano il punto di vista immerso nello spettro dell’infrarosso è intensa e di grande impatto visivo, non vi sono dubbi. Per me, che chiedo sempre troppo, un altro piccolo escamotage avrebbe trascinato il film alle soglie del capolavoro. Ma al di là di questo discorso Snowpiercer rimane un ottimo film. Il sentimento del sublime nel frattempo si frantuma in varie sequenze: dall’ingresso nella gallerie di ghiaccio, ai precipizi gelati, alla slavina che si abbatte sul treno. Nella sequenza della slavina in particolare il punto di vista onnisciente che inquadra il treno visto dall’alto e la frana che scende nel silenzio di un mondo immerso nella sua nuova verginità trasferisce l’emozione nello spettatore. L’epilogo drammatico adesso è già in fieri ma comunque la nuova asperità del paesaggio innevato, lo spettacolo dirompente e minaccioso della natura, emerge in tutta la sua potenza. Per citare Schopenhauer…

Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un pericolo proveniente dall'oggetto,ecco 'individuale volontà effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impossibile la calma della contemplazione, andar perduta l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro pensiero (3).

La paura in effetti emerge raramente nel film, si attesta su valori bassi, vagamente rammentata nelle prime sequenze viene poi abbandonata del tutto nell’epilogo. Bong Joon-ho, da qualcuno definito da “croce verde”, è invece  molto lucido e consapevole del fatto che tutto ritorna alla natura, tanto bistrattata e non considerata, ritenuta addirittura non utilizzabile e nominata solo come risorsa da trasformare in profitto, ma sempre in grado di suscitare il forte sentimento del sublime.

1 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, e-book  http://www.liberliber.it, Tomo II, p. 69
2 cit. p. 68
3 p. 64

7 aprile 2014

Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013): 1/2 Brillanza e desaturazione

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio (1).

Film post apocalittico distopico? No grazie. Il  ghiaccio invade la visione bloccando un mondo già immobile dove l’unico movimento (almeno per quasi tutto il film fino a poche inquadrature dall’epilogo) è un moto perpetuo di una macchina che trasporta l’umanità. Sembra però che stavolta il novello Noè sia un Macchinista-Dio che giustifica il proprio potere come violenza necessaria per controllare la popolazione. Ma non bastava mettere anticoncezionale nelle barrette del cibo? In effetti se si rimane concentrati troppo a lungo nell’evento si rischia di perdere il senso profondo del Sublime che anima il film dall’inizio alla fine. Snowpiercer ci prepara ad apprezzare la magnificenza e la minaccia della natura anche se continuamente maltrattata dagli esseri umani. I canyon gelati su cui scorre il treno, i binari sospesi nel nulla, le valanghe, le città congelate, i porti, il mare, le fabbriche: il mondo esterno chiede di essere osservato come visione che cresce vagone dopo vagone, metro dopo metro percorso dal gruppo dei ribelli. Eppure l’incipit sembra costruire un classico apocalittico con vagoni blindati, senza luce, ciarpame e masserizie ovunque, spazio claustrofobico occupato da esseri umani deformi, sporchi e disperati: i nuovi miserabili post-apocalittici saltati sul vagone senza prenotazione. Perseguitati da poliziotti che arrivano per depredare e sequestrare bambini e qualche persona capace (anche di suonare il violino), gli emarginati iniziano il loro cammino di morte e violenza per raggiungere la testa del treno. Lo spazio pertanto sembra oscuro (vagoni blindati senza finestre) e rettilineo (il treno). Invece improvvisamente lo spazio si apre sul fuori (il mondo congelato) e schiarisce all’interno con luminosità e saturazione. Oltre ad essere metafora della storia del cinema (dal bianco e nero al colore, dalle storie classiche rettilinee con incipit ed epilogo a quelle circolari o aperte), il film proporne un interessante accostamento tra oscurità-bene (in fondo nel bene e nel male gli esclusi sono brave persone provate dalla vita dura e dalla fame ma pur sempre solidali e in grado di organizzarsi) e brillanza-male (i vagoni di testa, apparentemente paradisiaci sono in realtà spettacoli sublimi pertanto pervasi da dolore e disperazione eppure attraenti e capaci di tentare indebolendo tutti coloro che provano ad occupare nuovo spazio). Là dove nei vagoni di coda si cerca di arrangiarsi, magari unendo le proprie forze, e i dialoghi sono più o meno da cinema classico (coerenti, logici), in quelli di testa prende sempre più forza l’ipocrita riconoscenza a un dio salvatore e il racconto di un falso bene trasmesso a scolaresche addomesticate da maestrine sdolcinate e sorridenti che ricordano tanto le massaie di Edward mani di forbice. L’avvento del colore e della luce è una falsa verità. Il bene, il futuro del mondo (del cinema forse) non è rappresentazione di bellezza edulcorata e stereotipata come imposta per accomodare certezze utili a mantenere certi equilibri di potere. Il cinema deve invece percorrere anche altre strade, scavare nel sottosuolo per verificare altri punti di vista, altre verità. Pertanto le tre coordinate del colore (brillanza, contrasto e tonalità) non sono altro che l’epilogo di un abbaglio capace di portare alla cecità. Lo schermo bianco (massima brillanza possibile), come assenza di immagine ma somma di tutte le immagini (colori), non è redenzione né tanto meno soluzione di una volontà (migliorare le proprie condizioni di vita). Il cinema può soltanto ricordare la sua incapacità di identificare la strada giusta (oppure nel gergo usuale: capacità di raccontare) ma al contempo diventa carica prorompente se utilizzato come mezzo di conoscenza (capacità di rivelare). Per far questo assume importanza la desaturazione ossia l’abbattimento del colore nel limite estremo del bianco e nero. L’incipit è il Paradiso già raggiunto, il covo sicuro punto di partenza di un futuro che verrà, di un cinema che sarà. Da lì in poi le immagini potranno solo corrompersi, il colore saturare e la chiarezza accelerare (sia come luminosità che come esplicitazione del “male” contenuto nel mondo). Lo spazio inoltre potrà solo mostrare l’inganno, il proprio trompe-l‘oeil, da spazio rettilineo (il serpentone del treno) a spazio circolare (la grande curva dei binari percorsa dallo snowpiercer), quindi uno spazio pericoloso (sparatoria da vagone a vagone sfruttando la visibilità del mondo congelato) ed estremamente luminoso (grandi finestre che lasciano entrare il gelo del mondo). Abituati a vedere il pericolo di tanti film distopici celato nell’oscurità, rimane difficile da capire per lo sguardo il terrore annidato nella luce, nel riflesso del bianco che illumina il mondo e i vagoni di testa del treno. I nuovi mostri sono adesso personaggi apparentemente innocui (la maestra, le donne dal parrucchiere, la sauna, i partecipanti della festa in maschera) ma in grado di colpire chi ingenuamente si fida delle apparenze.


1 Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine. Incipit.

31 marzo 2014

12 anni schiavo (Steve McQeen, 2013)

Pittura. Quando Solomon danza in punta di piedi con il cappio al collo per evitare di rimanere strangolato, mentre tutt’intorno gli altri schiavi proseguono le loro attività, il tempo si allarga aprendosi in una sorta di digressione che sospende la storia. Intendo asserire che la Storia non si discute, nel senso che gli accadimenti  possono avere mille giustificazioni, possono essere analizzati  nell’affermazione di  motivi economici, culturali, politici, ma comunque sia non si può negare  il giudizio morale su un effetto rinviando tutto a una causa (ammesso che esista) . Il profitto ad esempio non può e non deve essere un alibi per giustificare la barbarie e l’ingiustizia, altrimenti dovremmo asserire (equivocando) che l’invenzione della sgranatrice di cotone di Whitney fu la causa della schiavitù scagionando  esecutori e  conniventi  della barbarie stessa.  La Storia in effetti è ricerca, tentativo di ricostruire un mondo. Proprio questa ricerca induce a comprendere la vita che si sgrana in un tempo infinito, scandito da tramonti e albe, dalla raccolta di un tot di libbre quotidiane di cotone, e dal ritmo incessante delle frustate sulle schiene di schiavi e schiave. La conferma del giudizio morale non è la rinuncia alla conoscenza delle sovrastrutture  ma la comprensione per il valore immenso della Storia. Durante la danza di Solomon con la morte, McQueen sospende la storia (narrazione) per affermare la Storia (ricerca). L’impossibilità di conoscere quel mondo distante permette di cercare le fonti di un’epoca. Le immagini dell’incipit, con gli schiavi  immobili nel campo di cotone, come in posa prima di una foto, e l’immagine di schiavi e schiave in attesa di essere venduti  a ricchi acquirenti, scaturiscono direttamente dai pochi dagherrotipi d’epoca e soprattutto dalla pittura coeva come le opere di Eyre Crowe; mi riferisco soprattutto a Slaves Waiting for Sale, Richmond Virginia by, 1861. Le immagini pertanto acquisiscono un valore aggiunto. Il rallentamento dell’azione e soprattutto il tempo che si ferma nella posa (vedi le sequenze dei tramonti o le panoramiche su una natura distante e indifferente, oppure la quasi immobilità degli schiavi in attesa di essere impiccati o con gli sguardi allucinati che anelano alla libertà) nasce dai documenti ritrovati, ma soprattutto dall’arte che ha saputo rappresentare la sofferenza. Il cinema adesso può riferirsi a queste opere mostrandone lo sviluppo da immagini a documenti colmi di dolore e oppressione. La pittura emerge in ogni sequenza come dato di fatto, come fonte irrinunciabile, testimonianza di un’epoca e di un disastro annunciato (guerra di secessione) per prendere vita, assumere un movimento, la nascita di una forte emozione.
Corpo. I corpi di 12 anni schiavo sono il naturale sviluppo o prosecuzione di un percorso che deve comprendere la trilogia del corpo di Steve McQueen. La perdita del controllo del proprio corpo è motivata da differenti situazioni: o si tratta di una dipendenza (Shame) o di una protesta (Hunger). Qui il corpo è diventato un oggetto, una proprietà, una merce da scambiare “liberamente” per il progresso e lo sviluppo economico di una società. Verrebbe da fare riflessioni ossimoriche del tipo “il liberismo del corpo sottomesso” che non renderebbero giustizia alla bellezza del film. Il corpo adesso non è fuori controllo come in Shame dove le pulsioni sessuali trascinano in scelte distruttive, e non è un mezzo per protestare contro un potere visto come oppressore (Hunger). La capacità dello schiavo di controllare il proprio corpo, persino negli ultimi momenti della vita è notevole. Solomon riesce a danzare in punta di piedi per non essere strangolato dalla corda, Patsey mantiene la propria dignità di donna nonostante lo stupro e le frustate. Dalla sua schiena emergono i dagherrotipi che mostrano vere cicatrici di reali schiavi frustati dai loro padroni. Eppure Patsey non è annichilita, il personaggio cresce sequenza dopo sequenza diventando sineddoche di un’intera razza. Tutto il contrario di ciò che accade a Edwin. Costui, il padrone, il proprietario, lo stupratore innamorato di una donna di colore, non controlla il proprio corpo, dopo lo stupro rimane sfinito ed esausto, avvilito dalle proprie debolezze, incapace di manifestare in pieno il proprio amore, schiavo del suo stesso mondo, dei  costumi della sua società. Edwin è molto simile al Brandon di Shame (ad esempio due tabù: in Shame è terrorizzato dall’idea di poter amare la sorella; in 12 anni schiavo è sconvolto dalla consapevolezza di amare una schiava). La libertà è una condizione interiore e infatti, citando un aforisma di Tagore,  è molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell’uomo.
Musica. Mentre la storia si attarda a far emergere l’immagine (campi lunghi di paesaggi ma soprattutto primi piani di volti), la musica assume valenze narrative. Rischiando di semplificare direi : passaggio dalla musica classica o classicheggiante dei bianchi ad una musica nuova, moderna, dei neri. Da Devil's Dream a Roll Jordan Roll c’è un lungo percorso che conduce il protagonista dall’essere un  uomo libero integrato nella società nordista dei bianchi, eccelso suonatore di violino, accettato a pieno diritto ma alle condizioni dettate da una società controllata dai bianchi, ad uomo che prende coscienza della complessità del mondo, luogo in cui, comunque sia, la sua razza deve soccombere (uomini liberi ma accondiscendenti al nord, schiavi al sud o frustati o amanti o affrancati). Per un uomo appassionato di violino e della musica che esce dalle sue corde, distruggerlo e poi intonare con la voce nella piantagione di cotone il canto da cui nascerà la grande musica americana del novecento (spiritual , jazz, ) il passo è enorme: presa di coscienza della condizione strutturale di una società ingessata a cui non basterà un secolo per affermare i diritti sacrosanti di ogni uomo e donna, sviluppo narrativo di una melodia che assume valenze narrative scavando nel senso profondo di una storia. Da Storia come événement, limitata “al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro” (1), a storia di lunghissima durata, una struttura che per “[…] gli storici è senza dubbio connessione, architettura, ma più ancora una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo. […]”. Queste strutture sono “[…] al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli. Come ostacoli, esse si caratterizzano come dei limiti, in senso matematico, dei quali l’uomo e le sue esperienze non possono in alcun modo liberarsi. Si pensi alle difficoltà di spezzare certi quadri geografici,certe realtà biologiche, certi limiti della produttività, ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata”.(2).  La musica di 12 anni schiavo non è solo racconto e sviluppo psicologico del personaggio. Quando nella piantagione di cotone Solomon intona il canto degli schiavi unendosi ai fratelli, quasi balbettando e stupendosi lui stesso di questo atteggiamento, la musica, il canto, è molto di più di un racconto; ha assunto il nerbo di una struttura, un  “ostacolo”, una disperazione, il lamento di una impossibilità. Questo percorso musicale spiega bene le fratture delle faglie che determinano certe condizioni (pensare ad esempio alla linea Mason-Dixon, confine artificiale ma anche confine culturale tra il Sud e il Nord degli Stati Uniti), che si espandono all’indietro cercando origini sconosciute, onde che propagano i propri effetti sino ad oggi. 

1 Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori, Milano 1973, Oscar saggi 1989 p. 60.
cit., p. 65

15 marzo 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 3/3 E' un romanzo, nient'altro che una storia fittizia.



Roma è la protagonista del film, bandisce i personaggi nel loro limbo privato, che sia una terrazza o una cattedrale o un monumento, fino ad esautorarli in quanto esseri umani. L’umanità non corrisponde ai sentimenti o alle passioni (includendo tra queste anche la noia o il divertissement del cardinale nell’indicare ricette culinarie o l’autocelebrazione di Stefania per i propri “sacrifici” inevitabilmente programmati), non si nasconde dietro le pieghe logore di una annotazione psicologica: Ramona non testimonia la propria malattia, Jeep non si sfoga raccontando di un lontano effimero/eterno amore. L’umanità si perde nella propria assenza, incapace di crescere se non in una sequenza infinita di foto scattate giorno dopo giorno, dalla nascita all’età adulta, ossia in un percorso di immagini vissute come sequenza di frame-stop che si dipanano come una pellicola per mostrare il fluire continuo sancito dal tempo. Cosa rimane allora oltre questa assenza, al di là dei corpi e delle emozioni quasi sussurrate sequenza dopo sequenza? Rimane una città vuota, sola, una città senza esseri umani; rimangono i monumenti, le chiese, i palazzi, le fontane prestigiose, i busti di marmo: la protagonista silenziosa e amata, compagna di un viaggio immaginario, mentale, in cui tutto è fittizio, dall’altra parte della vita. È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente (1). La citazione dell’incipit del Viaggio al termine della notte di Céline è già il racconto del film, il suo inizio e il suo termine. Dopodiché tutto sarà già stato detto e ogni cosa, fittizia o no, ogni movimento, dalla vita alla morte, sarà solo l’inane ripieno di un vuoto perpetuo. “Allora, ci accorgiamo anche che non c'era nessuno per le strade, a causa del caldo; niente vetture, nulla[…]” (2). Rimane il niente, la scorza, l’assenza; una città vuota, bellissima, che mostra se stessa priva di uomini, priva di vita, senza mercati, traffico, percorsa da qualche comparsa, suore, bambini, pochi turisti, ballerini improvvisati su una terrazza sospesa nel vuoto. Le architetture dunque prendono il sopravvento sulle miserie umane, invadono lo schermo, occupano gli spazi come in un quadro di De Chirico. Roma è una città metafisica Non ci sono relazioni tra le varie trame che si collocano lungo il percorso, questi palcoscenici enigmatici, su cui si rappresentano visioni inesprimibili (Ramona in piscina, Antonello Venditti al bar, l’incontro con Fanny Ardant, la passeggiata di Gambardella sul greto del Tevere, ecc.), si allineano come edicole in una piazza deserta . Nel  lento progredire di siffatta mancanza prendono il sopravvento luoghi quali il Tempietto di San Pietro in Montorio, Palazzo Braschi, le Terme di Caracalla, i musei Capitolini, il Parco degli Acquedotti, le piazze deserte, le strade notturne di una Roma attraente che si specchia nella sua stessa bellezza, città che non ha più bisogno degli uomini. La Roma di Sorrentino è una città inespressa, ambigua, non collegata alla vita, distante anni luce dal fluire della quotidianità, lontana dai mercati rionali, dal caos delle trattorie felliniane. Il traffico che opprime la città (come in tutte le città italiane) si intravede appena al “termine della notte”, nella scena dell’epilogo quando la mdp, volteggiando e attardandosi in piroette sopra il Tevere, inquadra dal basso il Ponte Vittorio Emanuele II. L’immagine mostra a malapena la parte superiore di autobus e di alcune auto che sfrecciano nel traffico cittadino. È una visione distante, remota, che non interessa la fisicità di quest’altro mondo, visto da lontano, assiepato su un ponte, irraggiungibile. Come nella pittura metafisica  il mondo prende il sopravvento sulle attività umane evidenziando la grande bellezza della materia e degli oggetti.

(1) Louis Ferdinand Celine, Viaggio al termine della notte (incipit)
(2) cit., Viaggio al termine… (incipit)

28 febbraio 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 2/3 Adesso voglio farti vedere una cosa

La festa in casa di Jep dell’incipit è tra le sequenze più suggestive del film. Sette minuti circa di danza collettiva, una discoteca sulla terrazza, l’erotismo sprigionato in ogni attimo, quasi volgare, pregno di labile appagamento, luogo in cui si brucia inesauribile il desiderio di una mancanza. L’assenza dell’amore vs la presenza della morte. La danza di corpi che si dimenano, gli sguardi che si lanciano in richieste oscene nella canzone di Raffaella Carrà (“A far l’amore comincia tu”) per afferrare l’attimo nell’illusione di congelarlo. Un carpe diem che ricorda molto da vicino il concetto oraziano nei cui epodi domina il tema della morte inscindibile dal tema del tempo. « È la morte che dà all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum (epist. 1, 16,79) che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana» [1]. Il carpe diem del resto, come afferma Traina, è circondato da molti divieti: vedi a esempio l’ode 1, 11 ricca di performativi negativi: non indagare il futuro (ne quaesieris), è peccato sapere (scire nefas),  non tentare l’oroscopo (nec temptaris), non prolungare la speranza oltre il breve spazio della vita (spatio brevi/ spem longam reseces), non farti illusioni sul domani (quam minimum credula  postero) [2]. L’attimo inteso come luogo dell’ansia, rifugio nel presente per fuggire dal futuro. Ma nell’opera di Sorrentino l’attimo è solo rinviato. La rinuncia a conoscere gli sguardi, a ripudiare il tema ricorrente per alimentare l’irrazionale desiderio di nascondersi alla vita. Il preconcetto, il ruolo da ricoprire, senza sorprese, senza possibilità di sfuggire all’etichetta che l’altro ci ha stampigliato sulla fronte. Siamo quello che siamo, come una scrittura che continua ansimante a mendicare evidenza anziché a creare nuove prospettive. Lo sguardo di Sorrentino piuttosto, nel sottolineare la mancata fusione di corpi, mostrando singole, disarticolate possibilità di movimento, si sofferma a manifestare il tentativo di esorcizzare la noia; nella sequenza in oggetto la noia si palesa come informazione collettiva, una massa di esseri che rimangono soli per dimenticare la percezione della loro esistenza. In effetti  il tema nel caso specifico non è il racconto della vita, ma la parte vuota del racconto stesso, il suo incavo, ciò che non si dice o non si vuole dire perché dicendolo, il senso perderebbe forza riducendosi a mero dato inutilizzabile. E nel ballo reiterato, come nel silenzio della danza di una donna tatuata e relegata dietro una vetrata,  si sostiene, si racconta il vuoto che c’è tra le cose, non le cose stesse, per citare Godard, ma quello che c’è tra le cose, non la storia, o la vita mondana o la dolce vita, o il desiderio, ma l’assenza che cresce, si allarga, debordando dallo schermo, sin dalla prima sequenza: l’assenza dell’amore. Eppure l’amore andrebbe ricercato, non è una cosa da raccontare ma un Graal da inseguire magari inutilmente, magari per l’intera vita, da trovare nelle pieghe recondite di un discorso, nel fondo di occhi che osservano, nell’oscurità di una scogliera con il mare in basso, calmo ma fragoroso, e nello sguardo di una ragazza che mostra il seno e nient’altro. Se dovessi esprimere una sinossi dichiarerei che il film è la ricerca dell’amore trovato finalmente a ritroso nel passato, che è stato celato nei meandri reconditi della mente di Jep. L’amore pertanto è un nucleo, piccolo, quasi introvabile, ma allo stesso tempo denso significato puro; pertanto diventa soggetto epico, capace di svanire lentamente, senza pathos, tra i ricordi e le parole, nel blabla quotidiano, scambiato spesso per sesso, eppure così distante, intramontabile, inspiegabile. Il contrasto tra il silenzio, luogo di riflessione e meditazione, della breve sequenza del sogno (o ricordo) ricorrente, con il mare in basso e la calma che domina e  quella dell’incipit, fragorosa, lunghissima, della danza collettiva sulla terrazza, luogo canonico in cui l’amore viene negato dai movimenti dei corpi, questa differenza di potenziale, genera un campo elettrico che oscura le immagini. Sia l’amore che il suo contrario (la solitudine di corpi contumaci, vicini ma così distanti, uniti nelle danze ma così separati) si perdono nel vuoto di tante vite sospese nella vita mondana, priva di amore e nostalgica di amore. La danza è un elettrochoc linguistico nel senso di luogo dove non è possibile decodificare i segni, dove l’ineffabile diventa il dio da adorare, perché il linguaggio relega l’amore nel sapore amaro di un ricordo: la grande bellezza

[1] Alfonso Traina in Quinto Orazio Flacco, Odi e Epodi, Biblioteca Universale Rizzoli, 19935 Milano, p. 10.
[2] Ivi, p. 14.

Hor. Odi ed Epodi  1,11
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati.
seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.

15 febbraio 2014

La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013): 1/3 - Finisce sempre così



Cercare l’effimero nell’eternità di una città e scambiarlo per bellezza – i giochi, i pranzi, i dialoghi snob e un po’ ripetitivi davanti alle piazze più famose di Roma, con la mdp volteggiante sotto i ponti nel mostrare la visione di un Tevere che non possiede più la vitalità del Tevere di Poveri ma belli o di Vacanze romane, ma si presenta come sguardo distante su una città ormai bella solo nell’immaginario collettivo (una bellezza nascosta in un museo) – cercare di trovare l’introvabile (una Roma da cartolina, una Via Veneto felliniana intravista chissà dove) ossia la bellezza magari paragonandola a un concetto altrettanto aleatorio (il fascino ad esempio di un bagno nella fontana di Trevi) potrebbe indurre a “osservare” il film con uno sguardo prospettico che in questo caso Sorrentino tende ad escludere sin dall’incipit. Le foto scattate dal turista entusiasta su un panorama-cartolina non hanno importanza (qui lo spazio e la dislocazione dei luoghi deputati trasformano il piazzale del Gianicolo in una virtuale navata con il coro posto sulla Fontana dell’Acqua Paola, ipotetico presbiterio), le foto non valgono come visioni future di Roma da cartolina perché lo spazio che stiamo percorrendo con lo sguardo è uno spazio metaforico: il coro, la navata, il presbiterio, la morte.  La grande bellezza in altri termini non è la prospettiva di una Roma da cartolina dissociata da un “popolo” che la abita come in un incubo, disprezzando la propria stessa mondanità; non è lo sguardo sopra i tetti o sotto i ponti, la visione di una spogliarellista nuda o la corsa in un convento di suore e scolaresca.  La grande bellezza è l’alito della morte. Nella sequenza in cui la santa allontana i fenicotteri dalla terrazza con un soffio e la mdp li inquadra mentre occupano il cielo al tramonto di una Roma esausta, ripresi mentre si allontanano dal nostro punto di vista (quello di Jep o della Santa?) il paesaggio tracima dallo schermo riversandosi nell’idea di un passato in cui non è più possibile rifugiarsi, perché abbiamo perso il gusto di una prospettiva tridimensionale sempre identica a se stessa, sempre confortante, sempre pronta ad essere usata come metro di paragone per limitare o eludere la ricerca e l’approfondimento di altri tipi di conoscenza. La riproposizione di una verità strutturata, rendicontata, matematizzata, e che purtroppo al contrario continua ad essere posta come visione centrale, riduce lo sguardo a mero ricettore e/o registratore di formazione (come quando portavamo le cassettine per risentire il corso all’Università). La verità peraltro diventa eversiva quando non coincide con i canoni e le regole proposte e condivise. Questo, se pur discutibile nella vita politica (ma qui non voglio affrontare argomenti delicati e opinabili), non è possibile quando si tratta di Arte. Pertanto nell’arte non si nega la verità della Storia (la dolce vita o una Roma caput mundi ridotta a ombra di se stessa). La bellezza diventa così fluida, inaffidabile, di difficile interpretazione, impossibile da definire, inquadrare, mostrare. La prospettiva cede il passo (e questo ormai in pittura, nonostante i tanti anacronismi pittorici, è assodato) al flusso continuo e inarrestabile della vita, all’indefinibile ribalta dell’essenza di un momento, della disperazione, della volontà di esserci e del corrispettivo contraltare di una paura che non ha limiti. La bellezza nel film di Sorrentino è lo spettro stesso di un’immagine che ci ha uccisi. Lo spogliarello di tante belle donne, lo sguardo che coordina i monumenti con le aree verdi, hanno portato la paura a un grado mai raggiunto: la paura diventata reale di un mondo occupato da un paesaggio troppo antropizzato ad esempio (persino avvelenato). Ricomporre l’immagine dissipandola, lasciandola lievitare fino a vederla soccombere significa anche accettare la possibilità di un valore aggiunto della bruttezza. Il primo piano della Santa, le sue rughe, la salita in ginocchioni sulla scalinata disturbano la serena contemplazione estetica. La morte (come dice Jep “Finisce sempre così, con la morte”) è la vera antinormativa da esorcizzare, una morte che sorvola il film in ogni sequenza, così come la mdp con i suoi insistenti dolly volteggia dal cielo alla terra, dalla contemplazione alla sofferenza, dalla filosofia al divertimento. Non mi riferisco tanto alla morte cercata da Andrea o a quella sconfortante che vive dentro Ramona, ma a una morte che avvolge l’attimo, isolandolo per riproporlo al pensiero di un’intera vita: come il ricordo di un giovane Jep sulla scogliera solo nella notte con una ragazza pronta ad amarlo o quello amaro di Alfredo che scopre di essere stato per la moglie solo un buon compagno. Questa morte aspra che si avventa sul quotidiano in ogni momento e che Sorrentino ha saputo restituire come emozione amara in ogni sequenza: la grande bellezza.