13 luglio 2013

To The Wonder (Terence Malick, 2012): Immagine e movimento1/2



Dopo l’esperienza di The Tree of  Life Malick sembra affinare ulteriormente il suo stile riuscendo a indebolire la scorza della narrazione nell’enunciare storie più vicine al nostro sentire quotidiano mostrandone il lato oscuro. Nel vedere e assaporare To The Wonder ho avuto la sensazione di essere stato preso per la mano dal regista e trasportato direttamente fuori dal racconto. Un’esperienza visiva di notevole impatto in cui paesaggi, volti, pro filmico e filmico, legati da un doppio filo a poche frasi, quasi sussurrate al di fuori dagli eventi allo scopo di non formare dialoghi, prendono il sopravvento sul plot. Eppure questo modo di procedere permette a Malick di allontanarsi dai meri dati cronachistici innestando i rapporti umani in un procedimento che si rifà direttamente alla poesia. L’espressività prende il sopravvento allontanando il significato non per negarlo ma per innestarlo direttamente nella funzione naturale delle cose. Se per Christian Metz “[…] il cinema è un’arte a connotazione omogenea (connotazione espressiva su di una denotazione espressiva)”(1) il tentativo di Malick si innesta in questa tipica caratteristica della settima arte al fine di “lasciare” all’immagine il compito di raccontare. Gli eventi pertanto non si esplicano tramite la significazione come fattore esterno all’immagine, come convenzione (oserei dire cliché) accettata e riconosciuta, mezzo fondante del consenso, già integrata nei valori standard della civiltà occidentale. Ad esempio, nel racconto l’amore, il divorzio, la fede, il viaggio devono possedere qualità per cui non sarebbe possibile definirli altrimenti. L’incipit con i due innamorati che “danzano” sulla plumbea ed “elastica” spiaggia di Mont Saint-Michel “aprono” alla mente ricordi (studi, visioni, letture) di un romanticismo sottinteso in ogni storia d’amore. Il tradimento, l’ira del tradito, cuciono nell’ordito sensazioni di amarezza o senso di perdita con annessa percezione di gelosia in omaggio. Oppure l’abbandono, la partenza, pescano nella situazione più angosciante del “lasciarsi”. Ma non è così in To The Wonder. Non interessa qui ricostruire i rapporti, la storia d’amore, di tradimento e di abbandono o almeno non occorre importarli dall’esterno. Il racconto non deve spiegare niente. Tutto è lasciato all’immagine sfruttando in pieno la peculiarità del cinema per cui il senso deve essere immanente alla cosa confondendosi alla forma (2). Il cinema deve uscire allo scoperto occupando lo spazio lasciato alla significanza nell’affermare la propria peculiarità, ossia la naturale espressività del mezzo per cui il cinema racconta già con la sua stessa presenza. Come afferma Metz “L’espressività del mondo (il paesaggio, il volto) e l’espressività dell’arte (la malinconia dell’oboe wagneriano) obbediscono essenzialmente allo stesso meccanismo semiologico: il «senso» si sviluppa naturalmente dall’insieme del significante, senza fare ricorso a un codice”(3). E non a caso il film mostra paesaggi e volti come indici di eventi già accaduti o intrinseci alla loro messa in opera. La felicità, l’amore, il  tradimento, l’ira sono presenti nelle immagini, si accumulano sui volti, scivolano via nel montaggio che segue la danza perenne dei personaggi e dei paesaggi. Semmai si potrebbe obiettare che queste caratteristiche sono tipiche del cinema in generale. Non vi sono dubbi che il montaggio unisca nel sintagma la significanza. Ma ritengo che Malick cerchi di arrivare a un cinema che non debba ricorrere a un discorso esplicativo pescando nella narrazione e nella diegesi lo scopo del suo agire. Il suo cinema deve essere immanente, altamente espressivo, epurando tutto ciò che non dovrebbe riguardarlo. Sentire con l’animo gli accadimenti non raccontati ma intrinseci alla visione. Per fare questo ha dovuto trasformare i dialoghi, ancora vagamente presenti in The Tree of Life, in “messaggio incentrato su sé stesso”, veri e propri inni alla incomunicabilità ma allo stesso tempo segni polisemici che interagiscono con l’immagine come vecchie didascalie di film muti non per spiegare l’immagine ma per rimescolare le carte, come pensieri di personaggi che non escono dalla mente. Le parole dette si inseguono e si compenetrano in una babele di lingue (inglese, francese, spagnolo, italiano). L’ordito dei dialoghi tramonta lentamente all’orizzonte lasciando emergere il senso profondo delle cose nei bellissimi paesaggi e nell’espressione dei volti. Volto e paesaggio: due facce di una stessa medaglia a cui il cinema ha fatto riferimento sin dagli esordi (4). Ritornare alle origini senza aderire a certi canoni del cinema muto nel ritrovare la peculiarità di un cinema universale a cui non servono le lingue per far provare emozioni allo spettatore. Vorrei citare un esempio del procedimento seguito da Malick rifacendomi ad alcune sequenze tra le tante del film.

In uno degli episodi centrali, quando l’amore è al tramonto, Marina chiede a Neil se la vuole come moglie. Quindi inizia la sequenza del supermercato in cui vediamo Neil che spinge un carrello con Marina sopra. Lei scende dal carrello, (“Come amante?” dice a Neil) si volta e tra gli scaffali pieni di derrate e casalinghi, nel corridoio senza clienti, si tira giù la lampo del golf.  Cambio di inquadratura: nel corridoio Neil spinge il carrello e Marina davanti a lui continua a spogliarsi camminando all’indietro; adesso ha il golf aperto e si abbassa le spalline (“Come compagna?”) facendo credere di sfilarsi il top. Lui cerca di afferrarla. Altra inquadratura: Marina danza volteggiando tra gli scaffali, prende una scatola  di corn flakes e li lancia a Neil. Corre piroettando prendendo una scopa; il suo girotondo aumenta di velocità, la steadicam segue la danza da vicino con le scaffalature che fuggono via ai lati dello schermo come quinte di paesaggi on the road in procinto di uscire fuori campo. Improvvisamente cambia la sequenza: Marina apre la porta di casa ed esce in giardino di corsa (“Mi sta uccidendo”). Neil la rincorre la riporta a casa. Primo piano della donna che cammina per entrare in casa con travelling all’indietro. Il suo volto, quindi il volto di Neil che rientra. Il paesaggio è nei volti della coppia: la luna di miele è finita. Immagini, sguardi, movimento della mdp, frasi fuori campo, piroette, girotondi. L’immagine si ingrandisce oscurando gli eventi. La crisi matrimoniale di Neil e Marina non risponde a un percorso da psicodramma. La fotografia affonda la psicoanalisi. In pochi secondi e tre sequenze scarse la coppia si frantuma. In un’altra sequenza Neil e Marina sono nel suv che viaggia lungo la borde line del paesaggio americano. Lei lo ha già tradito e nell’auto gli rivela proprio il suo tradimento. Neil la butta fuori dall’auto e la lascia sul bordo della strada. Il volto di Marina occupa gran parte del fotogramma, poi lei fugge lungo la carreggiata. Ma stavolta la mdp non la insegue, lasciandola al suo destino. E anche se Neil torna a recuperarla con l’auto (con cambio di piano da CL a FI), nell’immagine la mdp ha deciso di lasciar scappare la donna. Adesso la danza che ha impreziosito le sequenze del supermercato, che si è trasformata in movimenti convulsi nella lotta di una coppia in crisi (lei cerca di inghiottire pillole, lui cerca di impedirglielo) è cessata. Marina corre e si muove come una danzatrice zoppa perché il movimento adesso è entrato dentro il campo (nel supermercato invece la mdp correva con i due personaggi piroettando e correndo insieme a loro). La strada che fugge nel fuoco dell’infinito e contiene paesaggi sublimi per un attimo relega nella distanza il disastro, quasi come nei paesaggi americani di Antonioni. La danza della donna per eccitare l’uomo o che lotta con lui per rimarcare il proprio rifiuto è cessata. I movimenti di macchina, i movimenti dei corpi, il paesaggio che si “scioglie” ai lati o si staglia nel sublime (come la vista di Mont Saint-Michel soprattutto dell’incipit ma anche del prologo), mostrando l’espressività di un volto, o i volti che si illuminano o si abbuiano come paesaggi… tutto questo rappresenta la storia. Non c’è psicodramma, non c’è un vero e proprio piano narrativo. Ci sono le immagini e i movimenti.

(1)     Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989(2), p. 115
(2)     Ivi, p. 114.
(3)     Ib.
(4)     Secondo Simmel “[…] il paesaggio assume nella pittura l’aspetto espressivo del volto umano, raggiunge una tonalità omogenea, una Stimmung, parola intraducibile, tipica della poesia romantica tedesca che designa un’atmosfera malinconica intrisa di spiritualità, in cui gli oggetti, lo spazio, i luoghi assumono un volto. Riprendendo il concetto di Stimmung, Balázs osserva che nel cinema accade qualche cosa di simile o, meglio, il contrario: il volto umano, ingrandito nelle sproporzioni del primo piano, assume la stessa complessità e varietà di un paesaggio”.
Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema. Le Lettere, Firenze 1994 pp. 27-28