22 giugno 2013

È stato il figlio (Daniele Ciprì, 2012)



Personaggi erotti direttamente dalla fotografia a indicare il predominio di un’immagine che occupa completamente lo sguardo senza ricercare nel sintagma un completamento al senso già pienamente incluso nel fotogramma. Personaggi che ricreano nella loro staticità (memori dei tempi di Cinico TV) il logos dello spettatore “entrato” finalmente nell’immagine facente vece di sguardo che occupa il suo  stesso agire (il bambino escluso dai giochi della piccola Serenella immobile nella piazzetta dello Zen a osservare la vita che scorre così come l’uomo simulacro di un narratore muto, entrambi testimoni e pertanto donatori di senso ad eventi di per sé inafferrabili). Il narratore omodiegetico infine, allo stesso tempo dentro e fuori la storia: fuori, per la gran parte del film, come narratore che racconta eventi di un’epoca nonostante tutto migliore di questa (è sufficiente vedere “lo sviluppo storico” della piazzetta dello Zen da trent’anni a oggi, degradata già negli anni ottanta ma oggi completa di auto incendiate all’epoca ancora “oggetti” da ammirare); dentro, nell’epilogo, come identificazione del figlio che ha pagato senza colpe e a cui adesso non rimane che il ricordo di un’epoca infelice ma allo stesso tempo degna (perché viva) di essere ricordata, mentre l’oggi (che tutto brucia e ricicla) non possiede più lo spessore (persino tragico) per essere rappresentato o ricostruito in una sceneggiatura in quanto irrimediabilmente banalizzato dai media in una rappresentazione/identificazione da cronaca-spettacolo, mondo in cui la disperazione diventa interessante solo quando genera audience (peraltro già mistificato come dato di fatto, certezza in una statistica su cui nutro grossi dubbi – ossia il campione di spettatori “autorizzati” a rappresentare il gusto di un pubblico immaginato dal potere). E se Nicola Ciraulo raffigura una comicità “silenziosa”, non fragorosa, dagli urli “[…] muti, subito troncati, senza eco, o le risate a freddo, reiterate tragicamente dentro il solito degrado urbano […]” (1) in quanto “icona” di una disperazione anni ottanta ancora dolorosamente paranoica, Tancredi è già tipicamente eroe tragico postmoderno immerso in una catarsi autoreferenziale nel narrare la storia, nell’attesa in un ufficio postale, ai clienti di turno, novello Forrest Gump che non ha niente di straordinario da raccontare. Identificherei nei due personaggi, nel racconto che li unisce e li separa, due istanze allo stesso tempo divergenti ma anche corrispondenti.

Nicola come degrado della tragedia. La vita funestamente tranquilla della famiglia Ciraulo immersa in fotogrammi provenienti dalle esperienze di Cinico TV (ma anche dalla notevole filmografia di Ciprì e Maresco di film quali Totò visse due volte oppure Lo zio di Brooklyn) viene scombinata da un evento di per sé sventurato, degno finale di tanti film classici: la morte della piccola Serenella uccisa per errore da due killer mafiosi. Quello che potrebbe essere un momento assai drammatico non è lo Spannung, ma solo l’inizio di una serie di conseguenze che porteranno al tragico epilogo ossia al momento più drammatico della storia. L’andamento degli eventi però non segue una crescita del dramma, nel senso che cosa ci potrebbe essere di peggio che perdere una nipotina in maniera tanto crudele? La linea “di(e)gradante” si forma nei seguenti caposaldi: (a) Serenella uccisa per errore, (b) non arriva il contributo di solidarietà dallo Stato e pertanto bisogna rivolgersi a uno strozzino a cui Nicola non può restituire i soldi dovendo chiedere altri prestiti; (c) quando finalmente arriva l’assegno e deve pagare i creditori (strozzino, fornitori, ecc.) dispone di una modesta cifra per cui (d) decide di acquistare una Mercedes che (e) Tancredi, guidandola all’insaputa di Nicola, insieme a suo cugino danneggia lievemente lasciando alcune rigature sulla carrozzeria. Questo fatto determinerà la sconsiderata reazione di Nicola e l’inizio della fase più dolorosa del film. Il percorso discendente mostra come il dramma non può essere soltanto il risultato di una crescita di eventi concatenati atti a catturare l’attenzione dello spettatore nell’enucleazione di una trasparenza narrativa con il suo iter classico di spettacolarizzazione (aumento graduale della tensione), ma soprattutto l’ indebolimento psicologico di un evento incontrollabile (la mafia interviene casualmente nella vita dei Ciraulo) rivolgendo lo stress su eventi più dozzinali (se pur tragici) per cui il calo di tensione (morte Serenella>burocrazia>strozzino>danni auto → Spannung, omicidio e determinazione della colpa), pur acquisendo caratteristiche da tragicommedia (il dramma calato nella banalità del quotidiano), conduce direttamente nella catastrofe della famiglia per cui la cronaca non riesce a spiegare tanti omicidi familiari apparentemente dovuti a futili motivi.  

Tancredi come sconfitta dell’innocenza. L’innocenza si divide in due motivi contraddittori (pubblico e privato) confrontandosi con esiti di  verità che la realtà o il tempo non possono moderare (Serenella e la storia di Tancredi),  per cui se per il mondo Serenella è vittima meritevole di risarcimento statale (una morte pregna di significato, degna di un articolo in prima pagina), Tancredi non è degno di essere ricordato (uno dei tanti drammi familiari) se non come narratore definibile certamente come omodiegetico (è proprio lui vent’anni dopo) ma destinato a rimanere soprattutto extradiegetico (così preferisco immaginarlo: come un narratore che avrebbe voluto incidere maggiormente e magari partecipare agli eventi ma che ne è sempre stato escluso); la sua morte civile è al contrario densa di “significante” da adattare in un film. Questa “regressione” nel privato (non a caso il narratore Tancredi cerca di raccontare la storia del “figlio” in un luogo pubblico a chiunque si sieda in attesa di pagare i bollettini postali), legata alla distanza, scioglie il pathos in un esito naturale di un futuro (l’oggi) che ha già bruciato qualsiasi storia e non riesce a riformare e riaccreditare come racconto ulteriore qualsiasi evento o accadimento. Mentre verso la fine del mondo era ancora possibile coniugare l’intreccio con il quadro, adesso non rimane che la desolazione di un esito irrappresentabile in un universo che può solo concedere attenzione tra uno scatto e l’altro dei numeri sul cartellone elettronico di un ufficio postale. Mentre  nella storia della famiglia Ciraulo la crescita del primo piano si “spiega” nel volto di Nonna Rosa che nell’epilogo occupa l’intero quadro nel dettare le nuove regole per uscire da una situazione d’impasse (come risolvere al meglio la scomparsa di Nicola e permettere quindi alla famiglia di sopravvivere), oggi la storia dipanata alla meno peggio sui seggiolini dell’Ufficio postale (mentre fuori la tragedia scorre come cronaca – vedi l’incidente e la gente che si agita e discute sulla piazza dietro la vetrina) viene allontanata di nuovo nei campi lunghi e nei totali della stanza del narratore, digressione nel mare magnum dell’incomunicabilità e della fine degli eventi già bruciati e consumati ancora prima di essere raccontati. La tragedia della famiglia Ciraulo non è la storia della famiglia Ciraulo ma il ricordo degradato dalla mente, reso evanescente in un mondo privo di memoria.

 (1) Cfr. Ciprì Daniele, Maresco Franco, Cinico Tv. Vol. 1: 1989-1992, Cineteca di Bologna, 2011