13 maggio 2013

Argo (Ben Affleck, 2012)

Ben Affleck sa benissimo che per conoscere, ricordare, assorbire il “clima” di un’epoca tanto criticata ma poco analizzata sarebbe meglio vedere film coevi (anche quelli in costume). E infatti gestisce l’opera come rappresentazione del mondo contemporaneo, un 2012 afflitto da una crisi di cui non se ne vede termine che ripropone la stessa crisi del 1980 (la pericolosa deriva nucleare dell’Iran). L’operazione Canadian Caper, che nella realtà ha visto un maggiore coinvolgimento del Canada, viene mostrata tramite un modo di girare che in alcune sequenze ricorda il reportage, in quanto i rapporti interpersonali tra i vari personaggi sono tenuti a distanza lasciando spazio alla Storia come principale protagonista della pellicola. Ma è una Storia fittizia ferma nel raccontare soprattutto il mondo attuale e pertanto ancorata alla percezione distante e imprecisa che l’Occidente ha della complessa realtà iraniana. In effetti le masse popolari del film sono colte come un pericolo (vedi la pressione della folla che prima preme sul cancello dell’ambasciata e poi imperversa nei locali diplomatici come un’ondata incontenibile, oppure la folla che blocca per un attimo il furgone con i fuggitivi  o quella del bazar che ostacola gli stessi per una foto scattata con una polaroid) senza che Argo approfondisca la ricchezza e la complessità di un paese agli albori del khomeinismo (se non nel mostrare alcuni brevi sequenze di cittadini vittime della violenza dei Pasdaran). D’altronde Argo, nel riproporre un evento doloroso, si distingue per la riflessione sull’importanza dell’immagine come rappresentazione dell’immaginario collettivo. L’assalto all’ambasciata rimane impresso nella mente come una fotografia, nel senso che, pur non potendo rappresentare tutti i rivoli di una complessa situazione diplomatica e militare, l’immagine si stabilizza nella coscienza come simbolo di un evento. La parziale scelta del reportage (con movimenti di macchina che ricordano a tratti Dogma) è una scelta fatta per non cadere nella retorica del patriottismo americano, del manicheismo di certo cinema di guerra e della “riscossa” come sentimento liberatorio e appagante . L’aspetto più interessante del film si riscontra nello stratagemma usato per far uscire i sei diplomatici dall’Iran: il cinema, la fiction intesa come mezzo d’inganno sia nel suo prodotto finito (la pellicola da riversare sul telo bianco di una sala) che nella sua fase iniziale (la ricerca delle location); la sci-fi, infine, utilizzata come presupposto per giustificare l’esotismo del paese mediorientale: esotismo della scenografia (i paesaggi desertici per ambientare il film Argo) ed esotismo inteso come distanza delle ideologie. Queste diversità, e qui secondo me sta il grande merito di Affleck, si allineano nell’epilogo, quando i fuggitivi mostrano ai pasdaran la story board e si soffermano nel narrare gli eventi del film, omologando in tal modo i guardiani della rivoluzione a loro stessi (i diplomatici americani). Il fumetto come distrazione e il racconto come inganno riescono a indebolire la profonda diffidenza dei soldati nei confronti degli occidentali. Anzi la story board prende il sopravvento, il film di fantascienza si sviluppa sotto i nostri occhi. Argo prende forma e si pone su tre livelli. Il primo è l’evento, la disavventura dei diplomatici, i fatti così come sono stati tramandati dalla Storia (per quel che ci è dato sapere essendo stati resi pubblici da pochi anni); il  secondo livello è la trama di Argo, l’avventura, il film nel film, luogo in cui i personaggi recitano di essere una troupe illudendoci di non esserlo (sono diplomatici) pur essendolo veramente (sono attori); il  terzo livello è più complesso, sfocia nel mito. Argo è la nave comandata da Giasone con il seguito dei suoi Argonauti in rotta verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro, per cui è indispensabile (per rendere interessante e diegeticamente plausibile la narrazione) il superamento di numerosi ostacoli posti durante il percorso degli eroi. Il racconto ha bisogno dell’eroe e degli ostacoli, dell’avventura, ma il racconto è anche il surrogato di un mito, la manifestazione di un presentimento, la scoperta del fatto che stiamo vivendo da sempre all’interno di una storia da cui non possiamo uscire. Il viaggio, il percorso degli argonauti dalla Grecia alla Colchide e ritorno, è l’avventura, in quanto non contano l’arrivo e la presa del vello d’oro; importa il viaggio di Giasone con i suoi marinai, i pericoli, gli ostacoli, Medea, gli aiutanti, il racconto stesso. Argo è un film sul racconto, timidamente inteso a mostrare la nascita, l’idea primordiale del film (produttore esecutivo, produttore, sceneggiatore, regista, ecc.). Nell’impossibilità di ricostruire fedelmente gli eventi, così come sono accaduti, tenta di riformare il ricordo adeguandolo ai telegiornali d’epoca, alle folle viste in tv. Il cinema irrompe in questo mondo mostrando la contemporaneità di una sci-fi che andava per la maggiore (Star Wars), rapportandola alla drammatica fuga dei sei diplomatici. Ma Argo, oltre al racconto (Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio), è anche un atto di fede come di riconoscimento celato (nel senso di conoscersi ancora senza farlo sapere). Sin dall’incipit sappiamo che in un primo momento i sei diplomatici rifugiati nell’ambasciata canadese non si fidano di Tony Mendez, mentre la loro stima cresce con il dipanarsi dell’intreccio esplodendo del tutto nell’epilogo nel classico stile da happy end. Argo è anche il cane di Ulisse che ha atteso per venti lunghi anni il ritorno del padrone solo per rivederlo una sola, ultima volta. Ulisse, travestito da mendicante, per non farsi scoprire dai Proci, deve fingere di non riconoscere il suo amato cane ormai morente: «Com'egli vide il suo signor più presso, / E benché tra que' cenci, il riconobbe, / Squassò la coda festeggiando, ed ambe / Le orecchie, che drizzate avea da prima, / Cader lasciò: ma incontro al suo signore / Muover, siccome un dì, gli fu disdetto. / Ulisse, riguardatolo, s'asterse / Con man furtiva dalla guancia il pianto, / […] / Ed Argo, il fido can, poscia che visto / Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, / Gli occhi nel sonno della morte chiuse». (1). Il mito fuoriesce dalla narrazione indicando il continuo ritorno di connotazioni semantiche ormai esaurite, eppure sempre di facile presa per suscitare stereotipate consolazioni appaganti. Forzare questi costrutti consumati dall’abitudine con richiami al mito e all’epica, ricordando pertanto che “stasera” non va in scena la Storia ma un surrogato di Storia percepito da un pubblico diegeticamente abituato a sostenere sensazioni e sentimenti preconfezionati, contribuisce a dare qualità a un film purtroppo non privo di sequenze deboli e difficilmente recuperabili (la governante del Console canadese che si salva oltrepassando il confine con l’Iraq, il decollo dell’aereo seguito dalle jeep dei Pasdaran, un uomo ucciso dai pasdaran nel cortile, i servizi segreti che d’improvviso non voglio più aiutare Mendez, ad esempio).

(1) Omero, Odissea, libro XVII (vv 290-329) traduzione di Ippolito Pindemonte

1 maggio 2013

Cosmopolis (David Cronenberg, 2012) 4/4: Uscire dal romanzo



Molti  critici e cinefili hanno scritto che la sceneggiatura è quasi una fotocopia del romanzo. Questo è innegabile. Basta leggere il capolavoro postmoderno di DeLillo per rendersene conto. Eppure questa “quasi coincidenza” tra sceneggiatura del film e romanzo si scioglie e si perde nei flutti del particolare via via che il film “scorre” lungo il suo asse, via via che la trama del romanzo si dipana verso altri lidi. Il risultato, l’epilogo, pare essere lo stesso, ma il senso profondo del plot non segue le scelte di DeLillo. Cronenberg preferisce un'immagine allineata a rimarcare l’uscita dai suoi precedenti film, nel meditare come i suoi “mostri fisici” (vedi ad esempio le opere dell’esordio come Videodrome e in primis eXistenZ) stiano lentamente uscendo dalla metafora per affermarsi come “immagine di mondo” ossia parametro di paragone diretto con l’inesplicabile sofferenza dei tempi moderni. Per questo sceglie l’astrazione pura, la deformazione del reale che diventa essa stessa immagine di mondo. L’angoscia di una New York in preda al mercato di una finanza ctonia e onnisciente che segue vie imperscrutabili (paragonabile a un disegno di Dio negato alla comprensibilità umana) viene evidenziata come apparenza amorfa astratta dal mondo, per cui nella figura di Eric “imprigionato” nella sua Limousine (ai lati dei quali scorrono come all’esterno di un tapis roulant i suoni, le storie, le violenze, i matrimoni, i funerali, le proteste di una distante New York più mentale che reale ma per questo dannatamente vera) cresce il senso di un’umanità al tramonto incapace di realizzare la propria intima essenza, persa nei flutti di un’altra creazione, una sorta di escrescenza amorfa, un feto mostruoso che lievita nel suo grembo (qui allineandosi al suo precedente cinema): l’obbedienza al demone di una crescita perenne (consumi, egocentrismi, pil,  ecc.) dissimulato come bisogno di felicità, che distrugge vite e annienta speranze, capace di trasformare un impiegato moderno (Benno) in vendicatore solitario. La pittura di Cronenberg nel film si allinea pertanto a quella di Rothko al fine di proseguire nel lungo percorso di ricerca di una conoscenza che per Cronenberg potrebbe portare all’affermazione di un cinema pregno di espressioni linguistiche innovative, immagini, piani, sequenze disadorne, uscite dalla metafora in cui la scrittura esce allo scoperto come dominante ed essa stessa narrazione. Il romanzo al contrario persegue altri obiettivi. Il denaro con cui acquistare la Cappella Rothko, al fine di permettere ad Eric di contemplare nell’intimità un opera d’arte d’incommensurabile valore estetico, non è di alcuna utilità, risulta superfluo, inservibile, moneta impalpabile legata a bit che assommano cifre in un parossismo autoreferenziale per cui spostare ingenti somme e bruciarle è un gesto banale come mingere o bere un caffè al banco. Questa vacuità quotidiana, questo gioco virtuale (bruciare soldi in borsa) si concretizza quando Eric decide di spogliarsi per unirsi a un gruppo di trecento persone nude sdraiate nella strada:

Naturalmente c’era un contesto. Qualcuno stava girando un film. Ma quella era solo una cornice di riferimento. I corpi erano crude realtà, nudi sulla strada. […] Si sdraiò in mezzo a loro. Sentì le variazioni di spessore dei ringrossi di gomma da masticare compressi da decenni di traffico. Annusò le esalazioni del terreno, le perdite d’olio e le strisciate di pneumatici, estati di asfalto rovente. […] Il suo corpo si sentiva stupido in quel luogo, una schiuma perlacea di grasso animale dentro uno scarico industriale. […] La ripresa dal dolly cominciò, con la telecamera che si abbassava lentamente, ed Eric chiuse gli occhi. Adesso che era cieco in mezzo a loro vide i corpi ammassati come li vedeva la telecamera, freddamente. Stavano fingendo di essere nudi o erano nudi davvero? C’erano molte sfumature di carnagione, ma lui li vedeva in bianco e nero e non sapeva perché. Forse una scena come quella necessitava di una tetra monocromia (2)

Nel romanzo l’abbandono di Rothko avviene lentamente ma avviene. Da osservatore incapsulato nella sua limousine Eric diventa personaggio. Non potendo contemplare la cappella Rothko, non potendo capire il motivo per cui lo yen non vuole scendere, decide di entrare (partecipando come comparsa nuda in un film) in una sorta di quadro di Tunik. Adesso sopravvive nel fluire immemore dello sguardo, sta scomparendo nei meandri enigmatici della visione. Non potendo comprendere il caos (una New York contemporanea che rappresenta il mondo intero), non potendo, nonostante i suoi soldi, percepire il senso profondo dell’arte, decide di diventare il personaggio che effettivamente è per il lettore del romanzo di DeLillo. Eric è un’istanza narrativa che prende coscienza della propria essenza crescendo nella mente del lettore come sensazione di un potere che decade nel nulla. Così ad esempio è emblematico il momento del funerale del rapper quando risuona la sua musica con gli adattamenti vocali dell’antica musica sufi e la folla comincia a partecipare, lasciandosi andare all’estasi e all’esaltazione:

La sua voce era sempre più incalzante, in urdu, poi in inglese indistinto, ed era trafitta dalle grida acute di un membro femminile del coro. C’era estasi in tutto questo, un’intensa esaltazione […] oltre il limite, l’esaurirsi di ogni significato fino a lasciare solo un’eloquenza carismatica, parole che crescevano una sopra l’altra, senza percussioni né battimani né le grida impostate della donna. (3)

I corpi nudi, visti ad occhi chiusi in un campo lungo di un’immagine in bianco e nero da Eric, tendono a formare una qualcosa di diverso, come il tentativo ineludibile di conoscere il senso della follia di un mondo che galleggia nel caos economico di una finanza folle e astratta attraverso il riconoscimento della perdita di ogni significato. Lo spazio pertanto da mentale (una New York vista dal “dentro” – ossia il punto di vista cinematografico di Eric) diviene istanza esterna, una nuda concretezza (odore dell’asfalto, calore dei corpi) riempita da una nudità che inonda e fonde corpi in un amalgama indefinito, una macchia di colori e sfumature cromatiche. La differenza tra Eric e Benno è già stata superata; la materia di carne incorpora lo psicodramma del futuro assassino e del candidato vittima poiché nella nudità diffusa e amalgamata sull’asfalto non esistono differenze sociali. La nudità è una libertà latente che non siamo in grado di esprimere, di proiettare nel mondo, conservata nel senso di sicurezza offertoci dall’intimità di un momento o di un amplesso. DeLillo vuole catapultare l’uomo nell’estasi della propria debolezza, lanciarlo come personaggio di un paesaggio, colore e odore di una visione. Mentre per Cronenberg il percorso deve ancora essere delineato. Saprà il nostro definire una nuova forma di carne, né metaforica (il pensiero di una nudità) né deformante (come mostrato nei suoi film degli esordi), ma efficiente, ossia amalgamata col paesaggio antropico, post industriale, ante decrescita, capace di ospitare la carne come oggetto della visione, lo spettatore come sguardo scrutato?

(1) Don DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2005, pp.148-151.
(2) Ivi  p. 116.