18 agosto 2013

La migliore offerta (Giuseppe Tornatore, 2013)



Le mie annotazioni saranno pregiudizi, le mie critiche potrebbero basarsi su preconcetti, eppure, nonostante la buona volontà di vedere un film per me faticoso da seguire, non sono riuscito a trovare niente di interessante se non rari spunti, illusioni di inizi, abbrivi di una ricerca sospesa prima ancora di ramificarsi nel plot per cercare di scavare in profondità. A parte il solito procedimento di Tornatore, per cui dopo un po’ lo spettatore si sente anche quasi veggente nel riuscire ad azzeccare la prosecuzione della storia e il suo epilogo, le immagini patinate e i movimenti di macchina a tratti interessanti, nonché la grande recitazione di Geoffrey Rush, non sono sufficienti a tenere a galla un film che non aggiunge niente di nuovo al panorama contemporaneo del cinema italiano, nonostante tutti i premi vinti (in patria) e l’indubbia capacità di coinvolgere lo spettatore. Per sintetizzare vorrei indicare almeno tre fra i tanti aspetti che il regista avrebbe potuto sviluppare e approfondire. Dispiace che una storia simile (in effetti pregna di spunti) sia stata abbandonata sulla superficie della visione a uso e consumo di un cinema prevedibile e convenzionale.
Equazione irrisolta. Interessante l’idea della nana del bar capace di effettuare calcoli strabilianti e di conoscere il numero delle volte che una persona è entrata nel locale o nella villa di Claire, di stabilire con precisione il numero delle volte in cui sono stai portati i mobili nella villa e le volte in cui sono stati ripresi. Ma questo rimane un episodio. Stabilire una linea obliqua che attraversi il plot, accompagnandolo o al limite cercando di eliderlo, avrebbe reso il film più godibile. I “numeri” avrebbero potuto risiedere nell’arte, ad esempio nelle cifre delle migliori offerte dichiarate nelle aste gestite da Virgil. Invece Tornatore si è limitato a illustrarci le aste solo per evidenziare le capacità truffaldine di Virgil e del suo amico Billy, pronti ad accordarsi per “soffiare” le opere bandite a un prezzo minore di quello del mercato. I valori delle offerte avrebbero potuto trovare corrispondenze con i numeri della nana, sommandosi o sottraendosi, allo scopo di comporre un’equazione di valori medi oppure di valori moda; formare numeri in progressione per creare medie coincidenti o allusive (la storia della nana, la “vera” Claire, poteva essere accostata ai quadri del caveau segreto nella casa di Virgil); oppure numeri reiterati con maggiore frequenza di altri, utili per trovare la moda (il numero più ricorrente). In altri termini la matematica poteva essere espansa legando il discorso alla storia, fondendoli in un unicum narrativo di notevole impatto. Ma le “cifre” dell’epilogo chiarite dalla nana servono solo a rendere più suggestiva la rivelazione, la ”verità” tanto enunciata nel film (opposizione vero-falso) senza entrare nel merito del concetto latente e instabile di una verità degli oggetti e degli esistenti. Gli oggetti in altri termini esistono nel film solo per accompagnare gli eventi, ridotti al rango di suppellettili (anche di grande pregio) non riescono mai a emergere per catturare l’attenzione dello spettatore. Oggetti pertanto automatizzati, parti di un arredamento che scivola davanti ai nostri occhi lasciando la mente dispersa sulla superficie del plot prodotto unicamente per accattivare certezze immutabili (l’amore vero, il falso come capacità e la verità nascosta) che non accrescono il sapere. Tornatore ci racconta fatti ed enuclea una morale già contenuta nel dna dei nostri tempi, morale incrostata nel risaputo e probabile innesto dei soliti luoghi comuni.
Meccanica incompleta. Quando ho visto i primi ingranaggi trovati da Virgil nella villa di Claire, ho avuto un sussulto. Mi sono chiesto se Tornatore avesse ritrovato la vena artistica dei suoi primi film. L’ingranaggio sembrava l’inizio di un percorso e già immaginavo un dedalo di stanze, soffitte, luoghi (anche esterni all’edificio) in cui ritrovare rotellina dopo rotellina per montare l’automa. L’automa, il robot, il golem, è la rappresentazione della creazione, riporta su scala umana la storia di un Dio che forgia l’uomo. L’automa meccanico del settecento, creato per strabiliare, ma anche per ingannare, è l’uomo stesso che segue vie spesso regolamentate e scelte dal modo in cui girano e operano i suoi ingranaggi interni. Qui il film avrebbe potuto prendere una piega interessante nel suscitare riflessioni e deduzioni di notevole impatto. Interessante sarebbe stata la “ricerca” di Virgil, il suo viaggio al fine di scovare tutti gli oggetti che, presi uno per uno, non sono nemmeno valutabili o stranianti, ma una volta collegati l’uno all’altro, nel momento culminate in cui riescono a formare un tutto, acquisiscono nuove valenze. L’oggetto nuovo, finalmente creato, prende vita per definire un nuovo modello di visione. Questa ricerca poteva essere collegata alla scoperta della finta Claire, crescere con essa, invilupparsi con essa al fine di creare ad esempio un altro modo di vedere la “verità” (non vero-falso ma vero-altro vero). Invece poche sequenze dopo la delusione: gli ingranaggi servono a trattenere Virgil nella villa allo scopo di fargli accettare di vendere all’asta masserizie di poco valore (quadri, statuine, mobili) e dare in tal modo il tempo a Claire di poterlo circuire. Il solito gioco. Unico momento interessante, ma purtroppo solo nell’epilogo, il bar di Praga con gli ingranaggi dell’orologio che girano dietro le pareti, indubbiamente utili a collegare l’oggetto della truffa (l’automa) con quello della speranza (il locale arredato con grossi ingranaggi di un orologio, il “Night and Day”di Praga, dove Virgil spera prima o poi di incontrare Claire).
Occhi senza sguardo. Gli occhi del film (quelli dei quadri, quelli di Claire visti dietro il buco della serratura da Virgil) sono spenti. Non sembrano osservarmi. Ripenso a tanti film (Un cane andaluso, La scala a chiocciola, Io ti salverò) in cui gli occhi (di uno sguardo tagliato, di un maniaco, o quelli surreali di un sogno) non osservano solo la preda o un altro personaggio, ma anche noi stessi che guardiamo. È il cinema che penetra nella mente e ti dice che sta dialogando con te, e che tra te e lui si è creata una connessione magica per cui tu hai cominciato ad abbandonare il tuo corpo seduto sulla poltrona e stai navigando con la mente nella sequenza. Nel film in oggetto invece non si sente il peso dello sguardo. Gli occhi sono mostrati poche volte e servono soltanto a dimostrare (secondo la logica del plot) il motivo per cui Virgil si innamora di Claire. Gli occhi di Claire isolati dal suo corpo, visti da dietro il buco della serratura, sembrano a Virgil quegli stessi occhi dei tanti ritratti che ha raccolto durante le sue aste e messi nel caveau dove può finalmente rilassarsi e compensare il suo bisogno d’amore mai realizzato. Non servono ad altro. Per questo non vengono ripresi quasi mai. Invece un viaggio dentro i tanti ritratti (tra cui un dipinto di Modigliani, la Lucrezia Panciatichi del Bronzino e La Fornarina di Raffaello), magari connesso con altri motivi (appunto gli ingranaggi e la matematica), un percorso negli occhi che ti guardano, avrebbe potuto far uscire infine l’ “io” narrante dall’interno del punto di vista di Claire (né approfondito, né analizzato).
Molte sono inoltre le sequenze deboli del film come quella dell’aggressione a  Virgil in una notte di pioggia che da il là alla “guarigione” di Claire poi “costretta” ad uscire per chiedere soccorsi. In effetti la pioggia mi ha disturbato molto perché non ho visto altri temporali nella Migliore offerta e sembra incredibile che il tempo, così sbilanciato verso il sereno, abbia deciso di aiutare il clan dei truffatori (Tornatore avrebbe potuto inserire alcune inquadrature con un po’ di pioggia);  ma lo scopo era probabilmente di dar vita a una sequenza di grande impatto vetero-romantico ancora in grado di accattivare la benevolenza dello spettatore. Altro momento debole la scelta di mostrarci un grande esperto d’arte (non solo di quadri ma di oggetti di ogni tipo) allo stesso tempo incapace di dare un valore a degli ingranaggi probabilmente costruiti ex novo a imitazione di quelli veri. Un po’ riduttivo per uno che “vede” le “v” dell’immaginaria Veliante negli occhi di un ritratto.

5 agosto 2013

To The Wonder (Terence Malick, 2012): Stereotipi e archetipi 2/2



Poiché To The Wonder tende a distaccare la narrazione, a indebolirla, con movimenti, sguardi,  posture che mirano lontano, “frasi” acusmatiche che ondeggiano nella colonna sonora, volti che si adombrano o si illuminano nel gesto, piroette, campi lunghi di città, paesaggi marini o agresti,  è possibile che il senso a sua volta aumenti di volume saltando tutti i dati intermedi, i fatti contingenti, assolutizzando l’evento, mostrando in altri termini l’archetipo primordiale che alberga sin dalla notte dei tempi nella nostra mente? Indebolire la narrazione non significa rimuovere il senso, ripudiare il racconto. Per Greimas ogni enunciato presuppone sempre un’enunciazione anche se non percepibile del tutto. L’enunciazione è sempre presente nell’enunciato anche se  a volte implicitamente. Eppure la mancata esplicitazione dell’enunciazione diventa ancora più significativa di quella palese, evidente, dei testi classici. Il disinnesco, la separazione tra enunciato e enunciazione, il débrayage(1), diventa enunciativo con discorso impersonale, senza dialoghi (le poche frasi dette non sono sufficienti a definire To The Wonder un film molto “parlato”), senza movimenti o posture canoniche; gli attori spesso voltano le spalle, camminano, i loro sguardi non sono raccordati, i paesaggi – in particolare Mont Saint-Michel – sono sì affascinanti ma vivono di vita propria, potrebbero anche non essere visti perché gli uomini non li vedono ma ne fanno parte, vi danzano dentro, si muovono all’interno. Ma allora chi è l’osservatore e qual è il punto di vista? Come si distribuisce il sapere ed esistono un sapere e una verità in fondo al tunnel (l’epilogo del film)? Neil è il focalizzatore, ci racconta una storia? Oppure è Marina? Qual è il senso profondo del film? La separazione? La perdita della fede? Il perdersi e il ritrovarsi? Qual è la funzione dei paesaggi? Troppe domande a cui, pur pensandoci a lungo, non saprei dare una risposta. Se da un lato il rischio di tanto cinema contemporaneo è di mostrare lo stereotipo (spesso ben recepito e compreso, perché connesso all’esperienza dello spettatore) i film di Malick sembrano vagare alla ricerca dell’archetipo. In effetti un percorso complicato e di dubbia efficacia ma senz’altro originale e pregno di stimoli per chi vede il cinema come esperienza e non solo intrattenimento. Estrarre l’archetipo dalla carne densa e vischiosa della storia, depurare il senso dalla cronaca per mostrarlo come unica storia riferibile, può risultare pratica di conoscenza. L’Ombra ad esempio, l’archetipo impersonato dai “cattivi” di turno (siano essi personaggi od eventi) potrebbe diventare il senso di tutti i significati conosciuti dalla razza umana dalla preistoria ad oggi? In To The Wonder appare d’improvviso sul volto di Marina già prima di incontrare l’amante. Allora viene da chiedersi: perché Marina tradisce Neil? C’è un motivo, l’ha tradita, l’ha trascurata, l’ha picchiata? Tuttavia l’Ombra non è un oggetto concreto e denso (pur essendo stata personificata nel cinema da innumerevoli personaggi e/o attanti: assassini, demoni, violenti, maniaci, guerrieri ecc.). L’Ombra non ha consistenza, si muove dal mondo all’anima e viceversa, penetra la carne e ne esce, vaga sull’onda portante di un’umanità depressa che ha bisogno del male per esorcizzare le proprie paure. Apparentemente non ci sono motivi per cui Marina debba tradire Neil perché Malick deve raccontare il senso, quello stesso senso di afflizione che ho provato nel vedere i balletti all’indietro di una donna che esprime voluttà, paura e rabbia in inquadrature ravvicinate. L’eroe, (forse Neil, forse Marina, forse lo stesso padre Quintana) attraversa i personaggi relegando gli altri nella nebbia.  L’eroe tramonta e risorge di sequenza in sequenza. Mentre padre Quintana porta il suo conforto agli emarginati e ai malati, intraprende il suo dialogo interiore con Cristo coinvolgendoci nella sua crisi. Questo dialogo evidenzia il suo Sé ossia il Mentore che è in lui, Dio stesso che lo  mette alla prova, e persino il Guardiano della Soglia, il suo Demone, che lo pone davanti alle sue contraddizioni,  alla sua crisi interiore, impronunciabile. Mentre vaga tra gli invitati a un matrimonio una fedele gli dice che pregherà per lui perché “così riceverà il dono della gioia”. Si aggira per le strade e nei luoghi di sofferenza roso dal suo bisogno di un Dio che non riesce a trovare (“Per quanto tempo ti nasconderai”, “fammi arrivare a te”). Lo cerca tra i miserrimi della terra, tra gli psicolabili, vagando di edificio in edificio, di strada in strada (“Ti cerco intensamente. La mia anima ha sete di te. Esausta. Sarai come un ruscello che si prosciuga?”). In un incontro con Neil dice allo stesso: «Devi lottare con te stesso. Devi lottare con la tua stessa… forza». Mentre si reca in casa di una malata, provenendo da una mensa per poveri di un Istituto di suore, prosegue il suo arrovellamento interiore, senza soste (“Dove mi stai portando? Insegnaci dove cercarti”). La sua voce off (sempre in spagnolo) procede mentre scorrono le seguenti inquadrature: Marina che passeggia lungo il fiume, dà del cibo alle oche; uno stagno;  lo stesso Padre Quintana che prima spinge un uomo in carrozzina, lo aiuta ad alzarsi, poi conforta e assiste, con la Bibbia in mano,  una vecchia negli ultimi istanti della sua vita; immagini di casette di un piano (“Cristo accompagnami. Cristo davanti a me. Cristo dietro di me. Cristo in me. Cristo sotto di me. Cristo sopra di me. Cristo alla mia destra. Cristo alla mia sinistra. Cristo nel cuore”). La paura di perdere quel che si ha, o peggio ancora, di perdere ciò che siamo. La fede, l’amore, la felicità, la sicurezza, la vita… Gli archetipi formano storie, sono la struttura portante, recondita, ma stimolante, di ogni storia. Apparentemente sembrano semplificare tanta narrativa, nel senso che migliaia, milioni di racconti sono riconducibili a poche essenziali funzioni. In realtà, prodotti di una scrittura arcaica, accompagnano l’uomo sin dalla notte dei tempi e riescono a modificarsi senza perdere la loro energia vitale trascinando lo sguardo dentro le immagini. L’archetipo affiora nel segno primordiale, un’incisione, un solco, un rilievo. La scrittura è un archetipo. Come afferma Derrida “[…] la scrittura non sarà mai la semplice «pittura della voce» (Voltaire).  Essa crea il senso, consegnandolo, affidandolo a una incisione, a un solco, a un rilievo, a una superficie che si vuole trasmissibile all’infinito. Non che lo si voglia sempre, non che lo si sia sempre voluto; e la scrittura, come origine della storicità pura, della pura tradizionalità, non è che il telos di una storia della scrittura la cui filosofia resterà sempre a venire”(2).Per usare una terminologia cara a Greimas, gli archetipi si servono del débrayage enunciativo per potenziare l’embrayage (3), con la sua capacità di creare l’illusione di una realtà dell’enunciazione che non è più afferrabile, ormai scomparsa per sempre. Questo ritorno all’enunciazione, o al suo fantasma, crea un’illusione di realtà impossibile da cogliere, ricomposta dalla mente. Il senso profondo di questi archetipi amplifica la forza dell’embrayage trascinando nell’assoluto piccole emozioni, deboli sensazioni, dolci amarezze di noiose abitudini, della mia vita quotidiana che non riesco a capire, ma che mi disturbano, mi conturbano, leggere nostalgie, delusioni reiterate, debolezze, sofferenze per un amore non corrisposto o l’amara constatazione di essere esclusi dal gruppo (che sia un salotto, un luogo di lavoro o altro), come sensazioni di profumi persi, scoprire d’improvviso un volto invecchiato o altro. Connettere il nostro piccolo mondo interiore alle radici più profonde della civiltà, ai suoi prodromi, alle origini, la Genesi dei nostri mostri: questa è la “meraviglia” di To the Wonder.

(1) cfr. Algirdas Julien Greimas - Joseph Courtés, Semiotica, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Bruno Mondadori, Milano 2007
(2) Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990(2) p. 16
(3) Greimas – Courtés, cit.

Per una conoscenza generica dei concetti di débrayage ed embrayage  vedi la sezione “La semiotica generativa” su http://it.wikipedia.org/wiki/Enunciazione

13 luglio 2013

To The Wonder (Terence Malick, 2012): Immagine e movimento1/2



Dopo l’esperienza di The Tree of  Life Malick sembra affinare ulteriormente il suo stile riuscendo a indebolire la scorza della narrazione nell’enunciare storie più vicine al nostro sentire quotidiano mostrandone il lato oscuro. Nel vedere e assaporare To The Wonder ho avuto la sensazione di essere stato preso per la mano dal regista e trasportato direttamente fuori dal racconto. Un’esperienza visiva di notevole impatto in cui paesaggi, volti, pro filmico e filmico, legati da un doppio filo a poche frasi, quasi sussurrate al di fuori dagli eventi allo scopo di non formare dialoghi, prendono il sopravvento sul plot. Eppure questo modo di procedere permette a Malick di allontanarsi dai meri dati cronachistici innestando i rapporti umani in un procedimento che si rifà direttamente alla poesia. L’espressività prende il sopravvento allontanando il significato non per negarlo ma per innestarlo direttamente nella funzione naturale delle cose. Se per Christian Metz “[…] il cinema è un’arte a connotazione omogenea (connotazione espressiva su di una denotazione espressiva)”(1) il tentativo di Malick si innesta in questa tipica caratteristica della settima arte al fine di “lasciare” all’immagine il compito di raccontare. Gli eventi pertanto non si esplicano tramite la significazione come fattore esterno all’immagine, come convenzione (oserei dire cliché) accettata e riconosciuta, mezzo fondante del consenso, già integrata nei valori standard della civiltà occidentale. Ad esempio, nel racconto l’amore, il divorzio, la fede, il viaggio devono possedere qualità per cui non sarebbe possibile definirli altrimenti. L’incipit con i due innamorati che “danzano” sulla plumbea ed “elastica” spiaggia di Mont Saint-Michel “aprono” alla mente ricordi (studi, visioni, letture) di un romanticismo sottinteso in ogni storia d’amore. Il tradimento, l’ira del tradito, cuciono nell’ordito sensazioni di amarezza o senso di perdita con annessa percezione di gelosia in omaggio. Oppure l’abbandono, la partenza, pescano nella situazione più angosciante del “lasciarsi”. Ma non è così in To The Wonder. Non interessa qui ricostruire i rapporti, la storia d’amore, di tradimento e di abbandono o almeno non occorre importarli dall’esterno. Il racconto non deve spiegare niente. Tutto è lasciato all’immagine sfruttando in pieno la peculiarità del cinema per cui il senso deve essere immanente alla cosa confondendosi alla forma (2). Il cinema deve uscire allo scoperto occupando lo spazio lasciato alla significanza nell’affermare la propria peculiarità, ossia la naturale espressività del mezzo per cui il cinema racconta già con la sua stessa presenza. Come afferma Metz “L’espressività del mondo (il paesaggio, il volto) e l’espressività dell’arte (la malinconia dell’oboe wagneriano) obbediscono essenzialmente allo stesso meccanismo semiologico: il «senso» si sviluppa naturalmente dall’insieme del significante, senza fare ricorso a un codice”(3). E non a caso il film mostra paesaggi e volti come indici di eventi già accaduti o intrinseci alla loro messa in opera. La felicità, l’amore, il  tradimento, l’ira sono presenti nelle immagini, si accumulano sui volti, scivolano via nel montaggio che segue la danza perenne dei personaggi e dei paesaggi. Semmai si potrebbe obiettare che queste caratteristiche sono tipiche del cinema in generale. Non vi sono dubbi che il montaggio unisca nel sintagma la significanza. Ma ritengo che Malick cerchi di arrivare a un cinema che non debba ricorrere a un discorso esplicativo pescando nella narrazione e nella diegesi lo scopo del suo agire. Il suo cinema deve essere immanente, altamente espressivo, epurando tutto ciò che non dovrebbe riguardarlo. Sentire con l’animo gli accadimenti non raccontati ma intrinseci alla visione. Per fare questo ha dovuto trasformare i dialoghi, ancora vagamente presenti in The Tree of Life, in “messaggio incentrato su sé stesso”, veri e propri inni alla incomunicabilità ma allo stesso tempo segni polisemici che interagiscono con l’immagine come vecchie didascalie di film muti non per spiegare l’immagine ma per rimescolare le carte, come pensieri di personaggi che non escono dalla mente. Le parole dette si inseguono e si compenetrano in una babele di lingue (inglese, francese, spagnolo, italiano). L’ordito dei dialoghi tramonta lentamente all’orizzonte lasciando emergere il senso profondo delle cose nei bellissimi paesaggi e nell’espressione dei volti. Volto e paesaggio: due facce di una stessa medaglia a cui il cinema ha fatto riferimento sin dagli esordi (4). Ritornare alle origini senza aderire a certi canoni del cinema muto nel ritrovare la peculiarità di un cinema universale a cui non servono le lingue per far provare emozioni allo spettatore. Vorrei citare un esempio del procedimento seguito da Malick rifacendomi ad alcune sequenze tra le tante del film.

In uno degli episodi centrali, quando l’amore è al tramonto, Marina chiede a Neil se la vuole come moglie. Quindi inizia la sequenza del supermercato in cui vediamo Neil che spinge un carrello con Marina sopra. Lei scende dal carrello, (“Come amante?” dice a Neil) si volta e tra gli scaffali pieni di derrate e casalinghi, nel corridoio senza clienti, si tira giù la lampo del golf.  Cambio di inquadratura: nel corridoio Neil spinge il carrello e Marina davanti a lui continua a spogliarsi camminando all’indietro; adesso ha il golf aperto e si abbassa le spalline (“Come compagna?”) facendo credere di sfilarsi il top. Lui cerca di afferrarla. Altra inquadratura: Marina danza volteggiando tra gli scaffali, prende una scatola  di corn flakes e li lancia a Neil. Corre piroettando prendendo una scopa; il suo girotondo aumenta di velocità, la steadicam segue la danza da vicino con le scaffalature che fuggono via ai lati dello schermo come quinte di paesaggi on the road in procinto di uscire fuori campo. Improvvisamente cambia la sequenza: Marina apre la porta di casa ed esce in giardino di corsa (“Mi sta uccidendo”). Neil la rincorre la riporta a casa. Primo piano della donna che cammina per entrare in casa con travelling all’indietro. Il suo volto, quindi il volto di Neil che rientra. Il paesaggio è nei volti della coppia: la luna di miele è finita. Immagini, sguardi, movimento della mdp, frasi fuori campo, piroette, girotondi. L’immagine si ingrandisce oscurando gli eventi. La crisi matrimoniale di Neil e Marina non risponde a un percorso da psicodramma. La fotografia affonda la psicoanalisi. In pochi secondi e tre sequenze scarse la coppia si frantuma. In un’altra sequenza Neil e Marina sono nel suv che viaggia lungo la borde line del paesaggio americano. Lei lo ha già tradito e nell’auto gli rivela proprio il suo tradimento. Neil la butta fuori dall’auto e la lascia sul bordo della strada. Il volto di Marina occupa gran parte del fotogramma, poi lei fugge lungo la carreggiata. Ma stavolta la mdp non la insegue, lasciandola al suo destino. E anche se Neil torna a recuperarla con l’auto (con cambio di piano da CL a FI), nell’immagine la mdp ha deciso di lasciar scappare la donna. Adesso la danza che ha impreziosito le sequenze del supermercato, che si è trasformata in movimenti convulsi nella lotta di una coppia in crisi (lei cerca di inghiottire pillole, lui cerca di impedirglielo) è cessata. Marina corre e si muove come una danzatrice zoppa perché il movimento adesso è entrato dentro il campo (nel supermercato invece la mdp correva con i due personaggi piroettando e correndo insieme a loro). La strada che fugge nel fuoco dell’infinito e contiene paesaggi sublimi per un attimo relega nella distanza il disastro, quasi come nei paesaggi americani di Antonioni. La danza della donna per eccitare l’uomo o che lotta con lui per rimarcare il proprio rifiuto è cessata. I movimenti di macchina, i movimenti dei corpi, il paesaggio che si “scioglie” ai lati o si staglia nel sublime (come la vista di Mont Saint-Michel soprattutto dell’incipit ma anche del prologo), mostrando l’espressività di un volto, o i volti che si illuminano o si abbuiano come paesaggi… tutto questo rappresenta la storia. Non c’è psicodramma, non c’è un vero e proprio piano narrativo. Ci sono le immagini e i movimenti.

(1)     Christian Metz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1989(2), p. 115
(2)     Ivi, p. 114.
(3)     Ib.
(4)     Secondo Simmel “[…] il paesaggio assume nella pittura l’aspetto espressivo del volto umano, raggiunge una tonalità omogenea, una Stimmung, parola intraducibile, tipica della poesia romantica tedesca che designa un’atmosfera malinconica intrisa di spiritualità, in cui gli oggetti, lo spazio, i luoghi assumono un volto. Riprendendo il concetto di Stimmung, Balázs osserva che nel cinema accade qualche cosa di simile o, meglio, il contrario: il volto umano, ingrandito nelle sproporzioni del primo piano, assume la stessa complessità e varietà di un paesaggio”.
Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema. Le Lettere, Firenze 1994 pp. 27-28

22 giugno 2013

È stato il figlio (Daniele Ciprì, 2012)



Personaggi erotti direttamente dalla fotografia a indicare il predominio di un’immagine che occupa completamente lo sguardo senza ricercare nel sintagma un completamento al senso già pienamente incluso nel fotogramma. Personaggi che ricreano nella loro staticità (memori dei tempi di Cinico TV) il logos dello spettatore “entrato” finalmente nell’immagine facente vece di sguardo che occupa il suo  stesso agire (il bambino escluso dai giochi della piccola Serenella immobile nella piazzetta dello Zen a osservare la vita che scorre così come l’uomo simulacro di un narratore muto, entrambi testimoni e pertanto donatori di senso ad eventi di per sé inafferrabili). Il narratore omodiegetico infine, allo stesso tempo dentro e fuori la storia: fuori, per la gran parte del film, come narratore che racconta eventi di un’epoca nonostante tutto migliore di questa (è sufficiente vedere “lo sviluppo storico” della piazzetta dello Zen da trent’anni a oggi, degradata già negli anni ottanta ma oggi completa di auto incendiate all’epoca ancora “oggetti” da ammirare); dentro, nell’epilogo, come identificazione del figlio che ha pagato senza colpe e a cui adesso non rimane che il ricordo di un’epoca infelice ma allo stesso tempo degna (perché viva) di essere ricordata, mentre l’oggi (che tutto brucia e ricicla) non possiede più lo spessore (persino tragico) per essere rappresentato o ricostruito in una sceneggiatura in quanto irrimediabilmente banalizzato dai media in una rappresentazione/identificazione da cronaca-spettacolo, mondo in cui la disperazione diventa interessante solo quando genera audience (peraltro già mistificato come dato di fatto, certezza in una statistica su cui nutro grossi dubbi – ossia il campione di spettatori “autorizzati” a rappresentare il gusto di un pubblico immaginato dal potere). E se Nicola Ciraulo raffigura una comicità “silenziosa”, non fragorosa, dagli urli “[…] muti, subito troncati, senza eco, o le risate a freddo, reiterate tragicamente dentro il solito degrado urbano […]” (1) in quanto “icona” di una disperazione anni ottanta ancora dolorosamente paranoica, Tancredi è già tipicamente eroe tragico postmoderno immerso in una catarsi autoreferenziale nel narrare la storia, nell’attesa in un ufficio postale, ai clienti di turno, novello Forrest Gump che non ha niente di straordinario da raccontare. Identificherei nei due personaggi, nel racconto che li unisce e li separa, due istanze allo stesso tempo divergenti ma anche corrispondenti.

Nicola come degrado della tragedia. La vita funestamente tranquilla della famiglia Ciraulo immersa in fotogrammi provenienti dalle esperienze di Cinico TV (ma anche dalla notevole filmografia di Ciprì e Maresco di film quali Totò visse due volte oppure Lo zio di Brooklyn) viene scombinata da un evento di per sé sventurato, degno finale di tanti film classici: la morte della piccola Serenella uccisa per errore da due killer mafiosi. Quello che potrebbe essere un momento assai drammatico non è lo Spannung, ma solo l’inizio di una serie di conseguenze che porteranno al tragico epilogo ossia al momento più drammatico della storia. L’andamento degli eventi però non segue una crescita del dramma, nel senso che cosa ci potrebbe essere di peggio che perdere una nipotina in maniera tanto crudele? La linea “di(e)gradante” si forma nei seguenti caposaldi: (a) Serenella uccisa per errore, (b) non arriva il contributo di solidarietà dallo Stato e pertanto bisogna rivolgersi a uno strozzino a cui Nicola non può restituire i soldi dovendo chiedere altri prestiti; (c) quando finalmente arriva l’assegno e deve pagare i creditori (strozzino, fornitori, ecc.) dispone di una modesta cifra per cui (d) decide di acquistare una Mercedes che (e) Tancredi, guidandola all’insaputa di Nicola, insieme a suo cugino danneggia lievemente lasciando alcune rigature sulla carrozzeria. Questo fatto determinerà la sconsiderata reazione di Nicola e l’inizio della fase più dolorosa del film. Il percorso discendente mostra come il dramma non può essere soltanto il risultato di una crescita di eventi concatenati atti a catturare l’attenzione dello spettatore nell’enucleazione di una trasparenza narrativa con il suo iter classico di spettacolarizzazione (aumento graduale della tensione), ma soprattutto l’ indebolimento psicologico di un evento incontrollabile (la mafia interviene casualmente nella vita dei Ciraulo) rivolgendo lo stress su eventi più dozzinali (se pur tragici) per cui il calo di tensione (morte Serenella>burocrazia>strozzino>danni auto → Spannung, omicidio e determinazione della colpa), pur acquisendo caratteristiche da tragicommedia (il dramma calato nella banalità del quotidiano), conduce direttamente nella catastrofe della famiglia per cui la cronaca non riesce a spiegare tanti omicidi familiari apparentemente dovuti a futili motivi.  

Tancredi come sconfitta dell’innocenza. L’innocenza si divide in due motivi contraddittori (pubblico e privato) confrontandosi con esiti di  verità che la realtà o il tempo non possono moderare (Serenella e la storia di Tancredi),  per cui se per il mondo Serenella è vittima meritevole di risarcimento statale (una morte pregna di significato, degna di un articolo in prima pagina), Tancredi non è degno di essere ricordato (uno dei tanti drammi familiari) se non come narratore definibile certamente come omodiegetico (è proprio lui vent’anni dopo) ma destinato a rimanere soprattutto extradiegetico (così preferisco immaginarlo: come un narratore che avrebbe voluto incidere maggiormente e magari partecipare agli eventi ma che ne è sempre stato escluso); la sua morte civile è al contrario densa di “significante” da adattare in un film. Questa “regressione” nel privato (non a caso il narratore Tancredi cerca di raccontare la storia del “figlio” in un luogo pubblico a chiunque si sieda in attesa di pagare i bollettini postali), legata alla distanza, scioglie il pathos in un esito naturale di un futuro (l’oggi) che ha già bruciato qualsiasi storia e non riesce a riformare e riaccreditare come racconto ulteriore qualsiasi evento o accadimento. Mentre verso la fine del mondo era ancora possibile coniugare l’intreccio con il quadro, adesso non rimane che la desolazione di un esito irrappresentabile in un universo che può solo concedere attenzione tra uno scatto e l’altro dei numeri sul cartellone elettronico di un ufficio postale. Mentre  nella storia della famiglia Ciraulo la crescita del primo piano si “spiega” nel volto di Nonna Rosa che nell’epilogo occupa l’intero quadro nel dettare le nuove regole per uscire da una situazione d’impasse (come risolvere al meglio la scomparsa di Nicola e permettere quindi alla famiglia di sopravvivere), oggi la storia dipanata alla meno peggio sui seggiolini dell’Ufficio postale (mentre fuori la tragedia scorre come cronaca – vedi l’incidente e la gente che si agita e discute sulla piazza dietro la vetrina) viene allontanata di nuovo nei campi lunghi e nei totali della stanza del narratore, digressione nel mare magnum dell’incomunicabilità e della fine degli eventi già bruciati e consumati ancora prima di essere raccontati. La tragedia della famiglia Ciraulo non è la storia della famiglia Ciraulo ma il ricordo degradato dalla mente, reso evanescente in un mondo privo di memoria.

 (1) Cfr. Ciprì Daniele, Maresco Franco, Cinico Tv. Vol. 1: 1989-1992, Cineteca di Bologna, 2011

 

13 maggio 2013

Argo (Ben Affleck, 2012)

Ben Affleck sa benissimo che per conoscere, ricordare, assorbire il “clima” di un’epoca tanto criticata ma poco analizzata sarebbe meglio vedere film coevi (anche quelli in costume). E infatti gestisce l’opera come rappresentazione del mondo contemporaneo, un 2012 afflitto da una crisi di cui non se ne vede termine che ripropone la stessa crisi del 1980 (la pericolosa deriva nucleare dell’Iran). L’operazione Canadian Caper, che nella realtà ha visto un maggiore coinvolgimento del Canada, viene mostrata tramite un modo di girare che in alcune sequenze ricorda il reportage, in quanto i rapporti interpersonali tra i vari personaggi sono tenuti a distanza lasciando spazio alla Storia come principale protagonista della pellicola. Ma è una Storia fittizia ferma nel raccontare soprattutto il mondo attuale e pertanto ancorata alla percezione distante e imprecisa che l’Occidente ha della complessa realtà iraniana. In effetti le masse popolari del film sono colte come un pericolo (vedi la pressione della folla che prima preme sul cancello dell’ambasciata e poi imperversa nei locali diplomatici come un’ondata incontenibile, oppure la folla che blocca per un attimo il furgone con i fuggitivi  o quella del bazar che ostacola gli stessi per una foto scattata con una polaroid) senza che Argo approfondisca la ricchezza e la complessità di un paese agli albori del khomeinismo (se non nel mostrare alcuni brevi sequenze di cittadini vittime della violenza dei Pasdaran). D’altronde Argo, nel riproporre un evento doloroso, si distingue per la riflessione sull’importanza dell’immagine come rappresentazione dell’immaginario collettivo. L’assalto all’ambasciata rimane impresso nella mente come una fotografia, nel senso che, pur non potendo rappresentare tutti i rivoli di una complessa situazione diplomatica e militare, l’immagine si stabilizza nella coscienza come simbolo di un evento. La parziale scelta del reportage (con movimenti di macchina che ricordano a tratti Dogma) è una scelta fatta per non cadere nella retorica del patriottismo americano, del manicheismo di certo cinema di guerra e della “riscossa” come sentimento liberatorio e appagante . L’aspetto più interessante del film si riscontra nello stratagemma usato per far uscire i sei diplomatici dall’Iran: il cinema, la fiction intesa come mezzo d’inganno sia nel suo prodotto finito (la pellicola da riversare sul telo bianco di una sala) che nella sua fase iniziale (la ricerca delle location); la sci-fi, infine, utilizzata come presupposto per giustificare l’esotismo del paese mediorientale: esotismo della scenografia (i paesaggi desertici per ambientare il film Argo) ed esotismo inteso come distanza delle ideologie. Queste diversità, e qui secondo me sta il grande merito di Affleck, si allineano nell’epilogo, quando i fuggitivi mostrano ai pasdaran la story board e si soffermano nel narrare gli eventi del film, omologando in tal modo i guardiani della rivoluzione a loro stessi (i diplomatici americani). Il fumetto come distrazione e il racconto come inganno riescono a indebolire la profonda diffidenza dei soldati nei confronti degli occidentali. Anzi la story board prende il sopravvento, il film di fantascienza si sviluppa sotto i nostri occhi. Argo prende forma e si pone su tre livelli. Il primo è l’evento, la disavventura dei diplomatici, i fatti così come sono stati tramandati dalla Storia (per quel che ci è dato sapere essendo stati resi pubblici da pochi anni); il  secondo livello è la trama di Argo, l’avventura, il film nel film, luogo in cui i personaggi recitano di essere una troupe illudendoci di non esserlo (sono diplomatici) pur essendolo veramente (sono attori); il  terzo livello è più complesso, sfocia nel mito. Argo è la nave comandata da Giasone con il seguito dei suoi Argonauti in rotta verso la Colchide alla ricerca del vello d’oro, per cui è indispensabile (per rendere interessante e diegeticamente plausibile la narrazione) il superamento di numerosi ostacoli posti durante il percorso degli eroi. Il racconto ha bisogno dell’eroe e degli ostacoli, dell’avventura, ma il racconto è anche il surrogato di un mito, la manifestazione di un presentimento, la scoperta del fatto che stiamo vivendo da sempre all’interno di una storia da cui non possiamo uscire. Il viaggio, il percorso degli argonauti dalla Grecia alla Colchide e ritorno, è l’avventura, in quanto non contano l’arrivo e la presa del vello d’oro; importa il viaggio di Giasone con i suoi marinai, i pericoli, gli ostacoli, Medea, gli aiutanti, il racconto stesso. Argo è un film sul racconto, timidamente inteso a mostrare la nascita, l’idea primordiale del film (produttore esecutivo, produttore, sceneggiatore, regista, ecc.). Nell’impossibilità di ricostruire fedelmente gli eventi, così come sono accaduti, tenta di riformare il ricordo adeguandolo ai telegiornali d’epoca, alle folle viste in tv. Il cinema irrompe in questo mondo mostrando la contemporaneità di una sci-fi che andava per la maggiore (Star Wars), rapportandola alla drammatica fuga dei sei diplomatici. Ma Argo, oltre al racconto (Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio), è anche un atto di fede come di riconoscimento celato (nel senso di conoscersi ancora senza farlo sapere). Sin dall’incipit sappiamo che in un primo momento i sei diplomatici rifugiati nell’ambasciata canadese non si fidano di Tony Mendez, mentre la loro stima cresce con il dipanarsi dell’intreccio esplodendo del tutto nell’epilogo nel classico stile da happy end. Argo è anche il cane di Ulisse che ha atteso per venti lunghi anni il ritorno del padrone solo per rivederlo una sola, ultima volta. Ulisse, travestito da mendicante, per non farsi scoprire dai Proci, deve fingere di non riconoscere il suo amato cane ormai morente: «Com'egli vide il suo signor più presso, / E benché tra que' cenci, il riconobbe, / Squassò la coda festeggiando, ed ambe / Le orecchie, che drizzate avea da prima, / Cader lasciò: ma incontro al suo signore / Muover, siccome un dì, gli fu disdetto. / Ulisse, riguardatolo, s'asterse / Con man furtiva dalla guancia il pianto, / […] / Ed Argo, il fido can, poscia che visto / Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, / Gli occhi nel sonno della morte chiuse». (1). Il mito fuoriesce dalla narrazione indicando il continuo ritorno di connotazioni semantiche ormai esaurite, eppure sempre di facile presa per suscitare stereotipate consolazioni appaganti. Forzare questi costrutti consumati dall’abitudine con richiami al mito e all’epica, ricordando pertanto che “stasera” non va in scena la Storia ma un surrogato di Storia percepito da un pubblico diegeticamente abituato a sostenere sensazioni e sentimenti preconfezionati, contribuisce a dare qualità a un film purtroppo non privo di sequenze deboli e difficilmente recuperabili (la governante del Console canadese che si salva oltrepassando il confine con l’Iraq, il decollo dell’aereo seguito dalle jeep dei Pasdaran, un uomo ucciso dai pasdaran nel cortile, i servizi segreti che d’improvviso non voglio più aiutare Mendez, ad esempio).

(1) Omero, Odissea, libro XVII (vv 290-329) traduzione di Ippolito Pindemonte