7 luglio 2012

Hunger (Steve McQueen, 2008)


I corpi si dislocano, si contorcono, si percuotono, si rompono e si consumano delineando un percorso geometrico che si muove all’interno di un recinto senza uscirne fuori. L’aspetto più eclatante del film è la capacità autoriale di formare espressioni geometriche dall’utilizzo dei corpi e degli ambienti. Tutto è così pacatamente perfetto. Nelle prigioni, latrine puntualmente sporcate dai prigionieri (dirty protest), le feci si cristallizzano in cerchi concentrici, le celle si affacciano su un corridoio ripreso in prospettiva frontale: il classico disegno geometrico che appassionava i pittori rinascimentali. Il dialogo tra Bobby Sands e Padre Dominic Moran, del piano sequenza punto focale dell’intero film (circa diciotto minuti ininterrotti), avviene tra i tavolini della sala mensa vuota: nel tavolino centrale di tre file di tre tavoli ciascuna (la prima è fuori campo e intuita dallo sguardo da una sezione di tavolo che sporge proprio sotto la mdp), seduto uno di fronte all’altro, vi sono i due interlocutori: idealmente pertanto la “scatola prospettica” è formata da nove tavoli disposti simmetricamente, mentre il punto di fuga è serrato da una quinta di fondo, una parete decorata da due cornici parallele che “attraversano” esattamente la linea delle teste dei due uomini; inoltre il numero nove (anche se “mentale” perché i tavolini mostrati sono sei + una parte di uno) equivale a un numero tre (ricorda le tre dimensioni newtoniane) elevato alla seconda. La mano dolorante del poliziotto inglese mostra le cinque dita sanguinanti, un pugno dolente che ha offeso un uomo nudo, un prigioniero indifeso. Ancora un numero che sintetizza (come anticipazione del prologo) il dolore di un pugno, scarnificazione e contrappunto delle Five demands dei prigionieri politici, cinque diritti negati dal governo britannico. Poi vedremo i pestaggi e la sofferenza dei prigionieri dell’IRA che non vedono riconosciuto il loro status di prigionieri politici. Ritengo che la geometria sia la cifra di una tentazione, un pensiero che osi (molto complicato ma affascinante allo stesso tempo) rompere la forte coesione di un mondo nei confronti della politica di Margareth Tatcher e della sua ostinazione/forza morale(?) nel non trattare con i “terroristi”. Molto complesso entrare in questi ragionamenti “politici” ma McQueen non è Loach, nel senso che non ha interesse a denunciare gli eccessi della politica conservatrice della Lady di Ferro addirittura da oltre trenta anni di distanza. Il suo interesse è molto più profondo, va oltre i giochi di forza tra l’Irish Republican Army e la ricercatrice chimica. Nonostante le celle cloaca dell’incipit il film lascia un senso di pulizia, uno pseudo-candore paludato, una sorta di benessere di riflesso che rende le violenze e i disastri distanti  dal nostro mondo (sia nel tempo che nello spazio) e pertanto non in grado di coinvolgere lo spettatore. Con questo non intendo affermare che il film non susciti emozioni. Tutt’altro. Non è  lo spettatore di questo film a essere messo in discussione, ma lo spettatore degli eventi, l’uomo rannicchiato nel proprio mondo, allontanato e distratto che sente dalla tv, o legge sui giornali, di dieci uomini morti per avere digiunato. In fondo il mondo che McQueen intende macchiare di escrementi concentrici è un artefatto politico, un sentore di cose e vago adulatore di immagini lontane (telegiornali, spezzoni di reportage) intense e drammatiche ma non coinvolgenti. Spettatore del tutto simile alla madre del poliziotto che rimane immobile (causa la malattia) davanti all’esecuzione del figlio colpito con un proiettile alla testa proprio davanti a lei. L’immagine dell’uomo dalle dita doloranti, adesso appoggiato sul grembo della madre immobile sta all’immagine di Bobby Sands nel silenzio della sala mensa che annuncia al prete la decisione di digiunare. Questi effetti stranianti, resi con geometrie che ricordano le scenografie scarne e semplici del teatro elisabettiano, ma anche con sfumature di colore che dallo scuro (le celle cloache immerse nelle deiezioni, il corridoio) digradano verso il bianco (la degenza di Bobby Sands ormai ridotto a pelle ossa causa sciopero della fame) passando per i colori dei maglioncini e dei pantaloni imposti dall’autorità, dal candore dei panni ai mobili con cui i secondini arredano, dopo averle pulite, le ex cloache, questi passaggi dalla periferia al centro (i due prigionieri  dell’incipit che ci portano a conoscere Bobby Sands interpretato da un bravissimo Fassbender), oppure le dita doloranti del secondino (che ci portano al pestaggio di un galeotto), restituiscono il dramma profondo e irreversibile di una lotta che ha segnato profondamente la storia inglese degli anni ottanta del secolo scorso. Allo stesso tempo ci informano di una struttura filmica che riesce a coinvolgere all’interno lasciandoci all’esterno. Ossia mentre rimaniamo fuori, assorti nei silenzio prolungato dei protagonisti, assistendo a pestaggi e discorsi che non comprendiamo più (forse) ci rendiamo lentamente conto di essere entrati nel plot, di essere parte integrante di un mondo in fondo più vicino a noi di quanto pensiamo, scoprendo in tal modo che all’interno di una geometria di carne, sangue ed escrementi, il cinema pulsa di vita propria calandoci nel clima angosciante e inamovibile di un mondo ancora oggi ritenuto (mi riferisco a quegli anni di violenza in Gran Bretagna) il migliore possibile, visti i presupposti. Quando Booby Sand dice a Padre Dominic Moran, che cerca di convincerlo a desistere dai suoi propositi, di saltellare tra retorica e semantica, non fa altro che sintetizzare la cifra di tutto il film: un lavoro che penetra nell’angoscia e nella disperazione senza retorica e senza pomposi discussioni politico-semantiche che avrebbero indebolito la sua capacità di penetrazione. Ecco, il film di McQueen non racconta la fame di cibo o di violenza o di giustificazione o condanna, ma la fame di speranza che viene sgretolata sequenza dopo sequenza, con semplicità, nel candore dei corpi puliti e nudi, delle camerette pastello o persino dalle piaghe che punteggiano il corpo di Bobby Sands, a loro modo perfette e quasi pittoriche.

4 commenti:

Alessandra ha detto...

Un film che da tempo voglio recuperare dopo aver visto il bellissimo Shame. Il pianosequenza da te brillantemente descritto mi sta incuriosendo non poco.

Ale55andra

Ismaele ha detto...

un film che non lascia indifferenti.

il colloquio di Bobby Sands col prete lascia senza fiato.

nessun dettaglio viene tralasciato, e tutti sono importanti, penso al poliziotto che piange, o all'infermiere che lo cura con tenerezza

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Una sequenza che vale la pena di essere vista. Un film da non perdere. Grazie.

Luciano ha detto...

@Ismaele. Sono d'accordo: un colloquio denso e indimenticabile. L'immagine del poliziotto che piange mentre i detenuti vengono massacrati di botte amplifica l'ambito che rende il reale surreale eppure così tremendamente vero e inspiegabile. E allo stesso tempo l'infermiere che prende in collo un Bobby Sands esausto, come fosse un neonato da accudire e proteggere, è una sutura profonda che assembla le sequenze dello sciopero della fame visto come un momento privato, accaduto nell'intimità di una casa (la cella infermeria), eppure allo stesso tempo amplificato nel mondo in quanto momento drammatico di una protesta che costò dieci vite.