30 aprile 2012

Linea d'Ombra-Festival Culture Giovani 2012: 1/5 CortoEuropa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.

Armadiggen (di Philipp Kaessbohrer, Germania 2011)

Walter vive con sua moglie Helga in una fattoria isolata nel nord della Germania. La loro vita viene completamente stravolta dalla notizia che un asteroide colpirà la terra, distruggendo l’umanità. Walter fa di tutto per tenere nascosta la tragedia a sua moglie, cercando di trascorrere “un meraviglioso ultimo giorno sulla terra con lei…

Un corto che concentra in pochi minuti lo "spazio" di un intero film. Il plastico con la stazione e il paesino come "surrogato" di un mondo colpito dai meteoriti, poi rappresentazione onirica delle paure di un anziano in attesa della catastrofe, è una ciliegina sulla torta. Uno dei migliori del festival.

 Voto 4

 Interessante l’incipit con il plastico della stazione e del paesino in casa di Walter, lo stesso plastico che diventa metafora della distruzione del pianeta bombardato e incendiato dalle meteore provenienti dallo spazio per poi risultare il contenuto del sogno e delle ansie di Walter risvegliatosi in un mondo già al sicuro. La routine quotidiana di due vecchi coniugi, scompaginata da un evento eccezionale, non conduce a struggenti dichiarazioni e patetiche confessioni, come nuovo ritrovato amore o altro, ma alla bellissima immagine di Walter che la notte prima della catastrofe abbraccia Helga a letto. Il giorno dopo poi si ricomincia… ecco una mosca sul tavolo che deve essere schiacciata.  Sono stato a lungo indeciso se assegnare addirittura un cinque, però, anche se il film si sofferma soprattutto su Walter, avrei  preferito un maggiore coinvolgimento della moglie o una sequenza in più dedicata al “muro” di noia e routine alzato tra i due anziani.



 Baggages (di Danis Tanović, Bosnia Herzegovina, 2011)

Dopo alcuni anni, Amir ritorna in Bosnia- Erzegovina, al fine di prendere in custodia i resti dei suoi genitori. Essi sono stati uccisi durante la guerra, ma i loro corpi non sono stati subito recuperati . Amir decide anche di visitare il luogo in cui è nato. Lì, oltre ad una casa diroccata, c’è anche un amico che ha dimenticato e coloro che sanno di lui più di quanto egli conosce se stesso.

Un corto essenziale, asciutto, ma anche emozionante. La sequenza dei poveri resti messi nelle valigie come uniche reliquie rimaste di tutto un mondo perduto, è insuperabile.

Voto 4

Amir è un ostinato uomo di poche parole in cerca delle spoglie dei genitori uccisi durante la guerra bosniaca deciso a recuperare quel poco che gli è rimasto del passato. La sua ricerca lo porta a ritrovare le ossa sparse in un bosco. La sequenza finale, in cui Amir pone i resti dei suoi in una valigia, è di un impatto emotivo straordinario in quanto sintesi estrema della sofferenza. Potere almeno piangere davanti alle spoglia dei propri cari: questa è la ricerca ostinata di un uomo tornato nella sua terra natale. Non una caccia al tesoro, quindi. Qui l’oggetto del desiderio è il recupero del proprio passato. Anche in questo caso avrei prolungato la sequenza del bar e il rapporto con il vecchio amico focalizzando meglio la rinascita della fiducia reciproca.


 
Chasse à l’ane (di Maria Nicollier, Svizzera 2011)

Tre giapponesi, amanti della carne d’asino, si trovano da Sakado, un loro amico macellaio. Attratti dal sapore esotico di questo piatto, decidono di acquistare l’asino Igor per poterlo gustare. Per le vie del mercato di Komoro, addobbate con ghirlande, candele per le feste di Natale, Takeo, Jun e Hiroshi gongolano pensando al loro progetto.

 Probabilmente non sono riuscito a entrare in sintonia con quest'opera che mi sembra insulsa e tirata via.

Voto 2

Forse il peggiore di tutti anche se probabilmente non sono riuscito a comprendere in pieno il senso di questo lavoro. Le sequenze nella cucina in cui ci si ciba di ottima carne d’asino e le sequenze con l’asino sembrano slegate. Il rispetto dei giapponesi per l’animale,  ritenuto sacro dopo averlo visto in un presepe di una vetrina accanto a Gesù bambino, non è sufficiente a dare la svolta definiva al film. Anche il rapporto tra le religioni risulta slegato e la resa comica basata sui giapponesi che equivocano sulle usanze dei “cristiani” non è neppure divertente.  Mentre vedevo il film mi aspettavo di vedere qualcosa di simile al grande capolavoro di Robert Bresson, almeno una sequenza che pone l’animale in primo piano diventando il fulcro del plot. Invece solo parti giustapposte alla rinfusa con una regia titubante e incerta, attori che non sembrano recitare.



Cluck (di Michael Lavelle, Irlanda 2011)

Un gruppo di giovani orfani scopre la vera natura dell’amicizia, quando quest’ultima sarà messa alla prova dall’arrivo di uno sconosciuto.

Un corto molto originale ed educativo, con un'ottima regia. I bambini sono formidabili. (Il volo del pulcino preso al volo dal ragazzino è da antologia).

Voto 4

Altro corto di qualità. Location meravigliosa (un collegio gestito da suore) bambini che recitano benissimo la parte di orfani vessati e capaci poi di ritrovare la propria unità nel proteggere l’ultimo arrivato, una sorta di bambino-pulcino. L’epilogo però indebolisce un po’ il film ricordando tanti episodi già visti in stile “l’unione fa la forza” in cui infine il “cattivo” viene sconfitto. Peccato perché secondo me, con pochi ritocchi, sarebbe stato il migliore di tutti.



Dad, Lenin and Freddy (di Rinio Dragasaki, Grecia 2011)

Negli anni 80, ad Atene, una bambina di nove anni, perde gradualmente il contatto con il padre stacanovista comunista. Lei fantastica che Vladimir Lenin vuole fargli del male. Le cose peggiorano quando il maniaco Freddy Krueger del film americano si unisce all’esercito russo.

Un corto pieno di stimoli. Concordo con i due commenti precedenti di Luca e Giusy: il Lenin santino, Freddy Krueger, le "torture", la bambina-"spia". Le suggestioni sono tante. Inoltre l'epilogo: dal sogno alla disco-dance con il ballo scatenato della piccola nel lampeggiare della luce psichedelica.

 Voto 5

Il corto segue un percorso immaginifico ricostruendo una realtà filtrata dalla fervida immaginazione della piccola convinta che qualcosa di brutto possa accadere a suo padre. Inoltre l’improvvisa  illuminazione del busto di Lenin sulla scrivania la induce a sorvegliare il genitore per scoprire cosa stia succedendo. Il percorso la porta a identificare il male nel “fanatismo” politico del capofamiglia e nella possibile alleanza tra Lenin e Freddy Krueger. Le idee politiche del padre, nonché la visione di Nightmare in casa del fidanzatino della sorella, accendono pertanto l’idea di cercare le cause del male nella speranza di conoscere chissà quali segreti . Il percorso la porta a  scoprire che il padre viene torturato dai due inediti alleati . L’urlo conclusivo della piccola con cui sconfigge il male e il suo ballo, nelle luci stroboscopiche della notte trasformate in luci da discoteca, aprono probabilmente alla bambina le porte di un’altra avventura. Forse il padre è salvo, forse la famiglia può continuare a sopravvivere tra i pericoli e le follie di una Grecia moderna. Un corto pieno di stimoli, citazioni, sequenze effervescenti. Tra i migliori della rassegna.




Een Bizarre Samenloop van Omstandigheden (di Joost Reijmers, Paesi Bassi 2011)

Per un assurdo caso del destino, ad Amsterdam si incrociano le vite dei tre protagonisti, Ferdy Bloksma, Erich Reinhardt e Jacob van Deyck. Essi dovranno affrontare una lunga giornata di situazioni imprevedibili e problematiche, che metteranno a dura prova la loro pazienza e resistenza.

Peccato perché l'idea è buona, ma secondo me nell'insieme il film non funziona. Il plot sembra dipanarsi con fatica, rimanendo sempre sulla superficie senza approfondire ad esempio lo stato d'animo dei personaggi e la loro predisposizione psicologica che "casualmente" conduce alla catastrofe.

Voto 3

La stupidità di tre personaggi che vivono in secoli diversi li porterà a commettere degli errori che causeranno una catastrofe ad Amsterdam. L’attimo di un calcio dato ad una lattina che centra in pieno un tombino non è la causa del disastro ma solo l’innesto di un evento preparato dalla dabbenaggine di tre uomini di tre epoche diverse (2011, 1943 e 1649). Le loro isolate e insignificanti azioni collegate dall’azione del tempo non creano una somma di eventi ma un crack inevitabile e altamente distruttivo (il crollo di Amsterdam). Metafora dell’idea che i grandi eventi siano in realtà il risultato di tante piccole azioni quotidiane, il film non funziona perché ci lascia sempre sulla superficie. Noi  che possiamo assistere al disastro dell’epilogo, riconoscere il climax, non sappiamo in realtà niente della vita dei tre uomini e dei loro problemi. Certo per questo il corto avrebbe avuto bisogno di un maggior respiro ma in fondo, visto che dura solo otto minuti e mezzo, mentre altri lavori arrivano anche a 25 minuti, forse qualche altro metro di pellicola sarebbe stato sufficiente a migliorarlo e renderlo più compatto.




Einspruch VI (di Rolando Colla, Svizzera 2011)

Il cortometraggio si basa su un fatto realmente accaduto in Svizzera, nel 2010. Il protagonista è Alex Khama, il quale fuggito dal suo paese, in Svizzera, chiede asilo. A Zurigo non trova nessun tipo di comprensione e nessuno disposto a spiegargli la sua situazione, tanto che la sua richiesta sarà respinta. Da questo momento inizierà un vero e proprio calvario, che terminerà con la sua morte.

Ripreso tutto in soggettiva riesce benissimo a metterci nei panni del personaggio. Inquadrature pertanto eccezionali, sceneggiatura ben strutturata che rende il film dinamico e coinvolgente. Eppure ci racconta una storia drammatica. Una tragedia che fa riflettere e che ti scava dentro l'animo.

Voto 5
La soggettiva è stata una scelta azzeccata per farci sentire nei panni dell’immigrato nel seguire un percorso che dalla speranza di fare una vita normale lo porta invece ad essere arrestato dall’ufficio immigrazione fino al drammatica conclusione.  Intensa la sequenza dell’epilogo che mostra l’hangar dell’aeroporto di Kloten (Svizzera) in cui vengono condotti gli immigrati in attesa di essere rimpatriati forzatamente. Indossano una sorta di casco da boxe, hanno mani e piedi legati e la testa coperta da una rete da apicoltore. La soggettiva, con lo sguardo limitato dalla struttura del casco, si sofferma sul luogo delle “torture” che accadono quotidianamente nella “civile” Svizzera. Un film coinvolgente, emozionante che invita a letteralmente a “mettersi nei panni” della vittima. Il corto è basato su una storia vera accaduta al nigeriano Ndukaku Chiakwa, deceduto il 17 marzo2010 in svizzera durante il rimpatrio forzato.



El trajecto (di Nadia Navarro, Spagna 2011)

Durante un viaggio Ana inizierà un lungo percorso. Un percorso che si rivelerà fondamentale per la scoperta di se stessa.

Certe idee sono molto interessanti e potrebbero essere utilizzate per un altro lavoro magari meglio strutturato (le "tre" ragazze, i binari, l'epilogo). Ma non riescono purtroppo a salvare un'opera (posso dire?) banale.

Voto 3

Ritengo che le metafore di questo corto (la metropolitana come viaggio nella mente di Anna; la triplicazione della protagonista come personificazione dei suoi sentimenti e delle sue sensazioni) prima della decisone finale come risposta al bacio di Michael, siano troppo consumate ed evidenti, lasciando la sensazione che la ragazza sia una persona superficiale. Niente da obiettare sulla storia, ma credo che la regista avrebbe potuto girare una “normale” giornata di due ragazzi e relativo rifiuto di lei alle avances di lui utilizzando altri criteri e mostrando meglio preoccupazioni e problematiche di una ragazza di oggi alle prese magari con discriminazioni e precariato (tanto per citare alcuni esempi).

22 aprile 2012

Vincitori XVII edizione di Linea d'ombra-Festival Culture giovani - Salerno (16-22 aprile 2012)

Il 22 Aprile 2012 si è chiusa la diciassettesima edizione di Linea d’Ombra-Festival Culture a cui ho avuto l’onore di partecipare in qualità di giurato. Il festival comprendeva due sezioni: Passaggi d’Europa (con sei lungometraggi) e Corto Europa (venticinque cortometraggi). Ai voti della giuria web di qualità si sono sommati i voti della giuria ufficiale presente nelle sale del festival. Il vincitore della sezione Passaggi d’Europa (con voto unanime delle due giurie) è risultato: Kuma (di Umut Dag). Il premio come miglior cortometraggio della sezione Corto Europa è stato aggiudicato dalla giuria ufficiale al cortometraggio Armadingen (di Philipp Kaessbohrer), mentre la giuria web ha assegnato il primo premio all’opera di Hallvar Witzo, Tuba Atlantic. Ringrazio ancora direzione e organizzatori del Festival per avermi permesso di partecipare a questo importante evento che ha ospitato 25 cortometraggi e 6 cortometraggi di ottima qualità. Anche quest’anno è stato molto difficile per me assegnare un voto più alto a un film piuttosto che a un altro. La giuria disponeva di cinque voti differenti: 1-pessimo; 2-scarso; 3-sufficiente; 4-buono; 5-ottimo. Per quanto riguarda il vincitore della sezione Corto Europa proclamato dalla giuria ufficiale (Armadingen) mi trovo moderatamente soddisfatto perché questo lavoro per me è un prodotto di buona qualità, mentre sono pienamente d’accordo sulla vittoria del corto Tuba Atlantic assegnato dalla giuria web. Piena soddisfazione per la Sezione Passaggi d’Europa per il lungometraggio Kuma, vincitore del festival per entrambe le giurie. Intendo postare nei prossimi giorni i miei commenti sperando di non dilungarmi troppo.

6 aprile 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Generazione dei mostri (parte seconda) 5/5

Per brevità analizzerò due esempi di immagini ove lo sguardo si lascia pietrificare dalla Medusa: l’incontro tra Marianne e il nano e l’incidente simulato di Ferdinand e Marianne.
Dopo un primo piano del nano con la pistola ingrandita dalla ripresa ravvicinata, un’inquadratura mostra Marianne con un paio di forbici che apre e chiude imprimendo al braccio un movimento da destra verso sinistra. Il volto di Marianne è inquadrato nel centro dell’immagine; ai lati, appesi al muro, i due quadri di Picasso (Jacqueline coi fiori e Ritratto di Silvette sulla poltrona). Nei due quadri domina il blu, ma in Jacqueline coi fiori la parte inferiore del quadro è rossa come il maglione di Marianne. Ma se osserviamo attentamente l’inquadratura, notiamo che Marianne è intenta a tagliare il fotogramma stesso (come ha tagliato il blu del quadro di Picasso lasciando il rosso del suo maglione). In pratica sta eseguendo un montaggio all’interno dell’immagine. Il blu dei due Picasso è il dramma che la diegesi ci mostrerà o non ci mostrerà (la tortura di Pierrot da parte dei banditi soltanto udita – al suo posto Jacqueline coi fiori – e il nano morto disteso sopra un tappeto rosso). In uno dei due quadri il blu è stato però tagliato da un colpo di genio di Picasso (la parte superiore di Jacqueline è blu ma quella inferiore è rossa), mentre Marianne non solo sta affrontando il nano con le forbici (diegeticamente impossibile), ma sta soprattutto tagliando il fotogramma stesso e lo sta rimontando pittoricamente. Il sapere non si sfoglia nel sintagma successivo attraverso lo scontro tra Marianne e il nano, e (supponiamo) casuale vittoria di Marianne che riesce a spuntarla contro un revolver, ma trova la sua motivazione nel fatto che Marianne ha tagliato il sintagma successivo, obbligandoci a leggere lo scontro dentro l’immagine stessa: un taglio all’interno dell’immagine, là dove un revolver non può spuntarla contro il montaggio, perché è stato tagliato immediatamente prima. Tagliando pezzi in qua e là (come l’andare a zonzo – in qua e là - di Marianne che volteggia intorno a Ferdinand nel bosco) e incollandoli col tempo e con i “mostri” di Picasso, si è formata una chimera (il mostro accovacciato sulle spalle nello Spleen di Baudelaire si è fatto visibile). Adesso vediamo i nostri incubi (o sogni): la morte, l’amore, il tempo, la violenza (in una parola: “emozione”, come dice Fuller all’inizio del film) giustapposti in pose diverse, non immaginate come nella prospettiva quattrocentesca, ma analizzate e poi sintetizzate come nella prospettiva cubista. Marianne è una sorta di prosopopea della pittura di Renoir (l’abbiamo già vista rappresentare l’impressione dell’attimo, la spontaneità, la vita che Pierrot non riesce ad imbrigliare). Le sue vittime, sia amando che uccidendo, sono il frutto dell’impressione dell’attimo. L’attimo dopo può essere dominato da altre impressioni. Per questo Marianne è una bugiarda nel sintagma, perché solo la verità dell’immagine può essere contraddetta dalla verità opposta di un’altra immagine (e quindi nel sintagma Marianne dice di amare Ferdinand ma poi scappa in un’isola col suo amante). Nell’immagine stessa invece possiamo affrontare la potenza del falso, la sua verità. Marianne Renoir che taglia l’immagine, vestita di rosso (sangue), forse colato da Jacqueline coi fiori, è nel mezzo a due quadri blu (o quasi) di Picasso, colori che rimandano a Pierrot (non solo ai sintagmi successivi, ma anche a quelli precedenti), alla sua morte (il blu che dipingerà sul proprio volto) e al suo diario in cui cerca di definire Marianne (Amour, arm, Marianne = amare Anna) senza riuscirci. Marianne ha nel suo nome l’arma, ama e uccide, è bugiarda ma sincera (guarda in macchina quando dice che no, sì, non tradirà, sì). Questa immagine sembrerebbe un collage cubista, tagliato in “diretta” da Marianne (due quadri colori rosso e blu, forbici, Renoir). Ma c’è anche la deformazione dell’immagine (forbici in primissimo piano, collo allungato di Jacqueline), deformazione della geometria che è nell’immagine. Questa immagine mostro (formata da serie differenti: Picasso-Ferdinand-Pierrot, Marianne-Renoir, i colori, l’andare a zonzo, la serie Fuller che cita se stesso) porta nel suo grembo il prima e il dopo, ma soprattutto ci fa vedere lo scorrere all’indietro del tempo (Pierrot è già stato torturato sin dal primo fotogramma, Marianne ha già montato il film con i suoi amanti e i suoi omicidi, ha già ucciso il nano ancor prima di ucciderlo). Mentre secondo la visione classica del film il nano sarà ucciso, Pierrot sarà tradito, ecc., secondo la visione cubista-espressionista tutto è già accaduto eppure sta accadendo nell’immagine stessa: le “distruzioni” di Picasso, i suoi mostri, ritagliati e innestati nel montaggio in fieri (Marianne che taglia il fotogramma per evitare di essere uccisa), e il rosso del maglione. Una chimera. Un’irrealtà che definisce il sapere (come afferma Godard: “la libertà dello spettatore alla libertà dell’essere”) meglio della verosimiglianza (Bonnie e Clyde ripetuti all’infinito non formano il circuito ma appagano il già saputo, mentre il sapere non si fa conquistare).
Godard forma delle serie con le citazioni che scorrono lungo tutto il film. Serie che s’intersecano con altre serie, che a volte si scontrano, si stratificano, si respingono si fondono: sono materiali (come dice Amengual), residui di materiali (spezzoni di pubblicità, monconi di frasi di cartelloni pubblicitari, ecc.) che Godard assembla come gli artisti pop. «Ma Godard attinge anche alle opere d’arte e dello spirito. Senonché le riduce subito a residuati: frammenti letti male, detti male, sviliti, deteriorati, scorci presi di sghembo, riproduzioni di riproduzioni» (7). Queste serie talvolta s’intersecano fondendosi, formano aggregati, fusione di frammenti di realtà (come nella “Bottega dell’antiquario” della Pelle di Zigrino di Balzac) che sovrapposti, assemblati, incorporati, generano veri e propri mostri.
Come abbiamo visto la serie “storia dell’arte/pittura” (Picasso, Renoir, Espressionisti) e la serie “colore” (blu, rosso, giallo – morte follia sangue) si intersecano con la serie “taglio, tagliare” (le forbici di Marianne, la Galaxy che lascia la via diritta e taglia la strada per andare in mare, il cofano sbattuto sopra il corpo del benzinaio che risulta tagliato in due); si fondono impressionando la pellicola stessa, in un punto dell’immagine, per poi disperdersi, prendere altre vie, cercare altre soluzioni.
Quando Pierrot e Marianne lasciano la loro auto (la 404) nel luogo di un precedente incidente (lamiere contorte di auto e morti-manichini fusi in una composizione che ricorda White Burning car Twice (1963) di Andy Warhol) sparando sul cofano e innescando un incendio sulla composizione mostruosa, citano una serie di città in cui sarebbero potuti andare (è una serie “geografia/cartoline” che s’innesca: Chigago, Las Végas, Montecarlo, Venezia, Firenze, Atene). Questi viaggi che Marianne e Ferdinand non faranno mai, queste città che non visiteranno mai, e che avrebbero potuto visitare solo se Marianne non avesse bruciato i soldi nella valigia, sono comunque luoghi di ipotetici viaggi, sono il viaggio stesso, perché l’avventura non comincia quando arriviamo sulla spiaggia, ma già nel momento in cui si compra il biglietto del treno per andare su quella spiaggia (8). Il viaggio è anche pericolo, è un rischio, può finire con un incidente. E l’incidente può anche solo essere nominato (nel cinema classico può essere non mostrato con un’abile ellissi al momento giusto), si può mostrarne solo l’epilogo (la parte finale dell’incidente) o la scena finale (il risultato finale dell’incidente: la macchina deformata, le lamiere contorte, forse anche i morti opportunamente coperti o il volto sanguinante della vittima, ecc.). Però in questa immagine l’incidente è posto all’inizio del viaggio. Vediamo un’auto incidentata con due morti-manichini, che ricorda i crash test delle case automobilistiche. Vediamo Marianne che prende la mira, spara sulla 404 (i nostri eroi dicono: “simuleremo un incidente”); vediamo il fuoco che inonda la 404, lo spezzone di viadotto con le lamiere contorte delle auto del precedente incidente. Infine udiamo le voci off di Ferdinand e Marianne che dicono: “Capitolo Ottavo. Una stagione all’inferno”. Inizia pertanto, come nella raccolta di poesie in prosa di Jean-Arthur Rimbaud, il viaggio all’inferno, una discesa entro se stessi, che comporta il pericolo del dissolvimento completo della propria personalità, la frantumazione della stessa psiche umana. Non a caso mentre i viaggi ipotetici di Marianne sono proiettati verso città moderne (Las Vegas, Montecarlo) quelli di Ferdinand sono diretti alle città-arte (Firenze, Venezia, Atene). Ognuno quindi alla ricerca del proprio inferno. Una serie città moderna, degli affari, dei casinò (giochi, grattacieli, palazzi di vetro, altitudine) si allinea ad una serie città-arte (classicità, rinascimento, illuminismo). Le due serie sono mentali, ipotetiche (ah, se avessero avuto i soldi!), ma solo nel sintagma dato che nel prosieguo del film questi viaggi non avvengono. Avvengono invece nell’immagine stessa, nel momento stesso in cui i nostri due eroi si allontanano all’orizzonte, mentre il troncone di viadotto brucia (la fine, incidente finale di tanti film-tragedia, è qui l’inizio); avvengono quando la discesa agli inferi ha luogo. Ciò che hanno detto: soldi, città, moderno, arte: un percorso insomma di esperienze, ha luogo. Tutto ha avuto luogo, la creatura si è già formata nell’immagine ove confluiscono e si dipanano i fili di mille viaggi (come arrivo o come partenza – vedi i due manichini giunti al loro porto e i nostri colti in fieri, ancora fiduciosi nel futuro dei mari del Sud), ove iniziano (ma anche l’inizio qui ha il sapore dell’eternità ove niente è mai iniziato né mai terminato) questi viaggi mentali. Ferdinand-Pierrot (Dr.Jekyll-Mr.Hyde, tanto per ricordarci di Robert Louis Stevenson citato nel film) e l’arma-amante Renoir Impressione-Vita-Morte (insomma Marianne) si annegano nei loro corpi, abbandonati nel fuori campo, citando Rimbaud. In questo allontanarsi vediamo il tempo ingigantirsi come nelle poesie-prosa di Una stagione all’inferno, ove Rimbaud descrisse passato, presente, futuro, omettendo ogni collegamento temporale. L’eternità dell’attimo ci viene mostrata come alla fine del film, quando le voci off di Marianne e Ferdinand (non le voci dei corpi, ma dei loro spiriti) declamano ancora Rimbaud: «È ritrovata!/ Che? l’eternità./ È il mare che si fonde/ Con il cielo» (9). Ed è in questa fusione di città, incidenti di percorso, morte, modernità, arte-pop, colori, in questo groviglio di citazioni, (mare e cielo uniti non sono più solo mare o solo cielo) che le mostruosità tentano di paralizzare lo spettro del sintagma, nel non semplice tentativo di fare esplodere l’analogia, “luogo” ove «[…] si raccolgono le ceneri del senso […], gli eccessi dell’immaginazione […], la malinconia per la fine del tempo poetico e il sogno d’una mutazione» (10).


(7) B. AMENGUAL, Jean-Luc Godard, «Etudes Cinématographiques», 1967, 57-61.
(8) J.L.GODARD, Il cinema è il cinema (1968), Milano, Garzanti, 1981, p. 241.
(9) A. RIMBAUD, Una stagione all’inferno (1873) in Opere, a cura di Ivos Margoni, Milano, Feltrinelli, 1975(4), p.231.
(10) A. PRETE, Il demone dell’analogia, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 10.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.



4 aprile 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Generazione dei mostri (parte prima) 4/5

3. GENERAZIONE DEI MOSTRI

    L’occhio vede, l’orecchio ascolta e infine lo spirito afferra drammi incompiuti. Un vascello che veleggia su una immobile tartaruga, la confusione del colore (confusione di sfumature e contrasto di chiari e di scuri) capace di distorcere la luce in  infiniti bizzarri riflessi.  L’universo in frammenti mescola i colori e riporta  dall’eternità “gridi interrotti”: l’oggetto  evoca  anche la sua “colonna sonora”, ma interrotta, perché accumulatasi con altre colonne di altri oggetti.  Un  caos  apparente,  dunque,  dove  l’immaginazione  riesce  ad  “afferrare drammi incompiuti”, riesce cioè a “leggere” pezzi di storia, drammi subito repressi dall’evocazione di altri drammi; il tutto in un perpetuo caleidoscopio che ronza nella mente. Ecco mostri generati, mai esistiti di per sé. Ecco pezzi, frammenti di universi portati dall’incertezza, portati dalle leggi del mondo fino a noi, divenire “mostruose” creature, inquietanti, incapaci di cullare il nostro desiderio di controllare il reale. Questi nuovi mostri creati dall’accumulo caotico trasportano Raphaël (5) nel loro mondo, passando di esistenza in esistenza, di tempo in tempo, di luogo in luogo, di emozione in emozione. Raphaël dubita infine della propria esistenza, gli pare d’essere come quegli strani oggetti, né del tutto morto, né del tutto vivo.
      Esseri né morti, né vivi, vaganti nella storia e nella natura, tra i colori e le forme, di citazione in citazione.  Non sembrano i nostri due  eroi romantici?  Mille  pensieri  li accomunano, li allontanano; la vita li intrappola nelle sue apparenze; la costruzione della loro storia naufraga tra le onde del mondo; la narratività li attraversa a tratti, a tratti sfugge, si riflette nei loro corpi; la “storia” si allenta, il movimento diventa statico e il tempo prende il sopravvento. Il sapere allora salta fuori dall’immagine, non è nell’immagine, è sì evocato dall’immagine, ma non è nel sintagma, si attesta di fuori, cerca il suo mostro, anzi si porta sulle spalle il suo mostro lungo un interrotto cammino proprio come in un racconto di Baudelaire (6).
    Questi mostri accovacciati sulle spalle non mollano mai le loro vittime, penetrano negli sguardi (sono fatti di colore e di tempo “visto”) oppure  fluttuano fino alle orecchie (sono gridi interrotti e ripresi fatti di poesia e di tempo “udito”), per cercare un contatto con lo spettatore, per far capire che il film non è trasparente, ma è dentro di lui. Io sono l’altro, io sono il film, il film è dentro di me. Il sapere non è ancora un fuori che sceglie,  è una differenza: qualcuno mi dice una cosa e poi un’altra; non è la prima cosa che vale, a cui debbo credere, ma neppure l’altra, bensì la loro differenza.
    Il sapere è in questa differenza; si situa tra il sogno di un’avventura e l’avventura di un sogno. Tra ozio e viaggio la differenza non è il movimento. Anche ozio è viaggiare (viaggio nel linguaggio del diario, viaggio nel colore dei tramonti e dei soli alti all’orizzonte, viaggio nell’isolamento di Robinson-Ferdinand con Venerdì-Marianne), e anche viaggiare è ozio (l’auto è ferma mentre i paesaggi le scorrono ai lati, mentre i colori deformati scivolano sul parabrezza, i milioni di secondi trascorrono sulle labbra, citati da Marianne, nell’immobile imbarcazione sotto cui scivola il mare). La differenza è proprio il sapere. Che ne so io se Marianne vuole una vita di “macchine, rivoltelle e nights” e se la vuole perché devo saperlo? Perché il linguaggio scorre scomposto sul diario di Ferdinand? Cosa  c’è “tra” le cose? I mostri creati dalle citazioni, pezzi di “reale”, oggetti presi da altri contesti, non si generano lentamente, ma appaiono come un’improvvisa agnizione. Gli oggetti e i colori acquistano una loro autonomia, non sono accessori dell’immagine, ma diventano componenti di vere e proprie serie, servono insomma per creare mostri.

(5) Raphaël è il personaggio principale del romanzo di Honoré de Balzac: La pelle di zigrino.
(6) Mi riferisco al racconto intitolato A ciascuno la sua chimera, in Lo spleen di Parigi (1861), Milano, Garzanti 1989, pp.22-25.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.