5 marzo 2012

Hugo Cabret (Martin Scorsese, 2011)

Recuperare il cinema di Méliès, omaggiandolo nel resuscitare una sorta di magia stratificata, è l’aspetto che più mi ha affascinato. Scorsese è riuscito a “espandere” la magia dei primi film “fantastici” nel suo stesso lavoro, ricostruendo l’aria respirata negli anni centrali della Belle. Époque (in particolare i giorni di “Viaggio nella Luna” del 1902) . Il gioco continuo di Méliès, teso a far divertire lo spettatore senza coinvolgerlo troppo nelle storie, trascinandolo in un mondo in cui le leggi della fisica sono sconvolte e le regole scombinate, non è però sufficiente per definire la ricerca dell’ordinario annidato nello straordinario (1). Se l’inventore del montaggio e il creatore del primo film di fantascienza, con il suo passato da prestigiatore, ha trasferito i suoi giochi di prestigio nel cinema e ha capito, a differenza dei Lumière, le potenzialità di questo nuovo fantastico mezzo artistico, la sua magia però rischia di restare relegata dentro i suoi stessi film. Quelle proiezioni di oltre un secolo fa non erano solo rappresentazioni filmate di un prestigiatore, ma il risultato di un lavoro tecnico di alta perfezione. Far uscire l’alone magico, l’effervescenza di una “stazione” (ossia le inquadrature fisse che componevano i suoi film), per alimentare stupore (come in uno spettacolo di illusionismo) deve forzatamente comportate una conoscenza del mezzo. La creatività non è tanto (o per lo meno non solo) l’ideazione e la creazione di una storia fantastica o di un mondo luminescente, quanto (o anche) la formazione di una tecnologia di supporto, di un meccanismo che alimenti e sorregga il prodotto finito. Così come gli spettacoli del Teatro Robert-Houdin si svolgevano grazie alle “regole” della prestidigitazione, il “viaggio nell’impossibile” si basa sulla conoscenza di un meccanismo impeccabile che coinvolga un teatro di posa ma che utilizzi soprattutto una cinepresa. Questo meccanismo, peraltro mostrato da Scorsese nel lungo flashback del racconto degli anni d’oro del grande regista francese, non è sufficiente a giustificare quell’alone magico che invece esalta ogni fotogramma di Hugo Cabret. Certamente la sceneggiatura (basata sul romanzo di Selznick) ha contribuito non poco a “decongestionare” il film dal pericolo di una sovraesposizione di meraviglia tipica di certi blockbuster, ma ritengo che il merito di tanta fascinazione sia da ricercare nel trasferimento di quei magici trucchi mélièsiani nella struttura del film.

Orologi, automi e disegni. Sin dall’incipit si notano i boulevard parigini, sorti dalla demolizione dei vecchi quartieri popolari per formare i principali assi viari della Parigi haussmanniana, svanire in una dissolvenza per collimare con i meccanismi dell’orologio della torre della stazione di Paris-Montparnasse. Da questo momento in poi il film si consolida e si sviluppa tenendo conto di un circuito di congegni (i boulevard, gli orologi della stazione, l’automa), pertanto di una tecnologia “rotatoria” che ricorda il giro della manovella della cinepresa e il giro della pellicola che lascia scorrere sullo schermo i fotogrammi sapientemente montati, come rotelline e bilancieri di un orologio, per evidenziare un effetto. La precisione delle scene montate accompagna la precisione dell’ora mostrata all’Ispettore Gustav. Tutta questa tecnologia però alla fine esplode e si concentra nella sequenza dell’automa intento a disegnare la “stazione” del “Viaggio nella Luna” ossia l’immagine più significativa del film di Méliès che mostra la superficie lunare come volto colpito dal razzo in un occhio. Tanta tecnologia “nascosta”, utilizzata per mostrare un effetto di magia, da sola non avrebbe potuto affascinare senza un certo alone poetico. La poesia informa ogni sequenza, traspare sin dall’inizio negli occhi di un bambino rimasto solo che si ostina a riparare orologi per trovare pezzi utili a recuperare un automa custode di un messaggio del padre morto in un incendio. L’avventura che Hugo e Isabelle vivono nella libreria di Monsieur Labisse è la stessa che si può avere anche all’interno di un orologio o ancora in un cinema seduti a vedere Harold Lloyd. Il disegno, in questo caso il bozzetto colorato o meno della story board che serve a ideare le scenografie di Méliès, non è solo il prodotto di una creatività slegata da ogni tecnologia, l’emanazione diretta della mente dell’artista, in quanto anche il disegno presuppone la conoscenza di una certa tecnica di esecuzione. Eppure la visione di quei disegni che lievitano e volteggiano come farfalle nell’aria di una stanza degli anni venti, mostrandosi come pezzi di pellicola che si montano giustapponendosi a “distanza”, restituisce la magia di tutte le esperienze mélièsiane. Quelle “farfalle” che galleggiano e si muovono, compongono il grande passato di Méliès, ma allo stesso tempo informano il contrasto col “presente”, un’epoca in cui il cinema è già cambiato, divenuto cinema narrativo, lo stesso a cui stiamo assistendo nel vedere Hugo Cabret, “luogo” in cui la realtà lancia le sue frecce allo spettatore.

Il naturalismo di Hugo è il catalizzatore usato per mettere in evidenza la magia degli albori della settima arte. Il ricordo del presente (gli anni venti) affonda nell’epoca d’oro del cinema (inizi secolo scorso) quando Méliès cominciava la sua fantastica avventura col cinema delle attrazioni mostrative. La grande guerra invece concluse quel periodo “magico” e il cinema seguì altre strade. Le “stazioni” lasciarono il posto al montaggio narrativo di Griffith (d’altronde già sperimentato dalla scuola di Brighton) e la mdp cominciò a “muoversi”. L’aspetto più teatrale e spettacolare del cinema di Méliès lasciò il posto al verosimile filmico. Quando Hugo Cabret si aggrappa alla lancetta dell’orologio per non cadere, è veramente in pericolo e lo spettatore non dubita affatto che Hugo potrebbe cadere, ma in questa sequenza si mette in gioco il senso stesso del “realismo” del film che non coincide col naturalismo del mondo ma con l’immaginifico del cinema, con l’influenza che ha avuto nell’immaginario dello spettatore, con la storia della crescita e del perfezionamento di una tecnica ma anche di un sentimento. L’illusione di reale che parte dall’ Uscita dalle officine Lumière emozionando i primi spettatori del Salon Indien du Grand Café (da evidenziare la scelta leggendaria voluta da Scorsese nel mostrare invece L’arrivo del Treno) fino alla sequenza in cui Harold Lloyd si aggrappa alle lancette dell’orologio in “Preferisco l’ascensore”, oltre a riportare alla mente tante altre sequenze simili (non ultima quella del film di Robert Zemeckis di Ritorno al Futuro), trasferisce direttamente in quell’alone magico mélièsiano l’effetto di reale, dato inequivocabile capace di coinvolgere lo spettatore per trascinarlo nella credenza di un mondo reale (interessante notare come il vero incidente della locomotiva che sfonda la stazione cadendo sul livello della strada nel film è inserito nel sogno di Hugo). Pertanto la magia del lavoro di Scorsese non è tanto (o solamente) riposta nella reminiscenza di un’epoca in cui il cinema era creato dai maghi (e che maghi!), quanto (e soprattutto) nella capacità di raccontare l’emozione di un’epoca in cui le difficoltà della vita erano appena agli albori, nel senso che la visione d’insieme del nuovo dio spettatore cominciò a prendere forma con il coinvolgimento totale negli eventi accadenti sullo schermo. Hugo Cabret in altri termini restituisce perfettamente questa epoca d’oro (sia gli inizi del secolo che gli anni venti) riuscendo a coinvolgerci nella magia di una stagione eccezionale. L’esperienza più profonda provata nel vedere questo film è stata determinata dalla sensazione di assistere a un film d’epoca, in bianco e nero e muto, un film silenzioso e straordinariamente colorato a mano. Un film, nonostante la proposizione dei giochi fantastici di Méliès, da prendere terribilmente sul serio.

(1) J.L.Godard, Due o tre cose che so di me, Edizioni minimum fax, Roma, 2007, p.95

10 commenti:

Ismaele ha detto...

la magia è quello che manca oggi al cinema.
parlo di quella che lo spettatore, troppe volte, non è più disposto e disponibile a vedere.
non si riesce a vedere con gli occhi dello spettatore bambino dei film dell'arrivo del treno alla stazione.
per troppi un film sembra una partita di scacchi, si guarda sempre oltre.
parafrasando Roland Barthes, troppo spesso manca il piacere della visione, l'abbandonarsi al flusso di immagini e suoni, troppi hanno in testa schemi interpretativi che attivano durante la visione e non alla fine del film.
"Hugo Cabret" a me, tra le altre cose, fa pensare a quello che ho scritto, e ricorda che il cinema deve essere (anche) magia.

Anonimo ha detto...

A molti non è piaciuto. Io l'ho trovato magico, emozionante, rassicurante, un film, come ho scritto dalle mie parti, da guardare più con gli occhi del cuore che con la forza della ragione. Ti lascio il link se hai voglia di darci una occhiata http://uonderuoman.blogspot.com/2012/02/hugo-cabret.html

Luciano ha detto...

@Ismaele. Il cinema deve essere magia. Non posso che concordare. Mi ricordo infatti del modo in cui venivano visti i film di Méliès: con altri occhi. Sarebbe fantastico poter vedere il Viaggio nella Luna con gli occhi delle "origini" o con quelli di un bambino. Mi hai fatto venire un'idea. Grazie.

Luciano ha detto...

@newmoon35. Grazie della visita. Certo che ho voglia di dare un'occhiata al tuo blog. Appena possibile ricambio volentieri. Non vedo l'ora di leggere qualche tuo post. Mi incuriosisce il tuo "rassicurante". A presto^^

Alessandro G. Fuso ha detto...

Concordo assolutamente con te!

Un film emozionante che riesce a raccontare un'epoca (quella del Cinema delle origini) e a "spiegare" la magia del cinema che continua a incantare gli spettatori come cent'anni fa, facendogli vivere dei sogni.

Un saluto!

Alessandra ha detto...

Per non parlare poi dello straordinario 3D, tecnica che solitamente disprezzo, ma che in questo caso è stata utilizzata, così come tutto il resto, magicamente!

Luciano ha detto...

@Afush. Un film di grande qualità, tra quelli che vorrei rivedere presto. A presto^^

Luciano ha detto...

@Ale55andra. In effetti il 3D si sposa benissimo con questo film. Anche in questo caso sarebbe da capire perché invece in altri film non esprime le sue potenzialità.

Ivan Fedorovic ha detto...

il 3d ha funzionato perchè non era fine a se stesso, anzi....

significatico anche il passaggio sulla guerra, e su come le persone smettessero di guardare i suoi film perché non volevano più sognare, al massimo esorcizzare (rivivere) gli incubi della guerra (cito a memoria, ma il senso del messaggio mi pare fosse questo)...

a tal proposito Skal è davvero una lettura azzeccata..

Luciano ha detto...

@Ivan Federovic. Quindi un 3d funzionale al discordo filmico, legato a quegli effetti speciali che Meliès amava tanto. Molto interessante.