31 marzo 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Lo spettro (parte seconda) 3/5

I rapporti fra i testi si hanno nella loro effettiva differenza, nello choc delle fratture, dell’annullamento (o tentativo) dell’azione-reazione. Non c’è illusione di unità, ma discontinuità dove la dissimmetria (citando Blanchot) è l’unico spazio percorribile (i luoghi deputati del film sono confusi, invalicabili, pseudo-tridimensionali), la distrazione l’unico tempo misurabile (ma la distrazione fa dimenticare che esiste un tempo da misurare) e l’interruzione unica parola pronunciabile (le frasi spezzate del diario e i discorsi frammentari fatti di citazioni e di frasi che non rimandano ad altre frasi che seguiranno in altre immagini). La discontinuità sta tutta nella fioritura di questo divenire, nell’apertura continua del buco che inghiotte e che si apre appunto come un fiore. Si apre nella fioritura infinita dei differenti, dei pezzi scollati che non sono il tutto dell’immagine caro ai “puntillisti”, ma ciò che sta al di fuori, ciò che sta oltre i punti, oltre l’immagine apparente ricostruita dalla nostra mente. In questo fiorire ci sono rapporti che si fondono per differenza: i corpi abbracciati di Ferdinand e Marianne eiaculati dalla terra, la rivoltella e le forbici che si allineano nella morte e ancora le immagini d’autore, i romanzi letti o visti, Baudelaire e Van Gogh, Picasso e il fumetto,   Velázquez e Warhol. Questi rapporti si fondono soltanto nell’eternità, tra cielo e mare, nel sogno dell’uomo, nella sua credenza. Credere a qualcosa che coordini, credere ad un orologio, un meccanismo che disponga, che organizzi. E in questo senso è possibile sopportare le differenze di un film: rapportandosi al film e rapportando il film a noi stessi e noi e il film insieme rapportandoci al mondo che ci contiene.
Andiamo al cinema per trovare noi stessi, per incarnarci in quelle forme fluorescenti che sciamano sullo schermo, in quei serpenti della Medusa che ci trasformano in pietra. Ma si tratta di credere anche ad un vascello che naviga sul guscio di una tartaruga immobile (come nella Pelle di zigrino di Balzac); credere a questa differenza a questi rapporti inconciliabili, discontinui, frammentari. L’amore ad esempio non si sprigiona del tutto dalla storia; c’è un amore, ma questo amore è tutto da inventare: è una frattura, una distanza inconciliabile, che non si colma mai, un inseguimento continuo che si dissocia da altre fratture, che si distanzia da altre distanze. Attraversa l’incontro tra Ferdinand e Marianne, proseguendo in auto e nei dialoghi (frasi anch’esse fratturate), fin negli idilli di Ferdinand per Virginie o di Pierrot per Yvonne, nella gelosia (ma anche la gelosia è un segno che prende le distanze) di Ferdinand, nella passione di Cascade  (3) per le sue prostitute o nel rapporto tutto sessuale del-l’americano-Ferdinand (in Pierrot le fou), soldato che sfoga la sua rabbia sulla vietnamita-Marianne. L’amore non va visto come evento che attraversa in orizzontale vari punti e incontra gli oggetti posti sulla verticale; non va misurato con la prospettiva quattrocentesca che simula il punto di vista “perfetto” dell’uomo.
Si tratta di sconcatenare generi, situazioni, eventi che non avvengono, che non si situano, ma che si differenziano, si urtano, si dissociano. Da ogni immagine nasce un’altra immagine, non un’immagine che segue un’altra immagine, ma un’immagine e un’immagine. Così fin nel profondo del pozzo, finché l’unico senso dello spettatore non sia una credenza nel mondo ma uno smarrimento, un dolore insopportabile per un mondo che è troppo fuori, troppo lontano perché ci contiene e non possiamo vederlo. È come quando guardiamo il cielo stellato dal lungomare di una sera estiva: non possiamo vedere la nostra galassia dall’esterno (perché ci siamo dentro) e neppure dall’interno (perché pur essendoci dentro riusciamo soltanto ad immaginarcela esterna). Cosa vediamo allora? Forse l’impossibilità di vedere oppure l’esterno e l’interno contemporaneamente, tanto distanti quanti intimi dentro di noi. Vediamo il divenire «[…] allorché esso “si scandisce, si intima”, si interrompe e, in questa interruzione, non si continua ma si dis-continua […]».(4) Allora non c’è una verità da raccontare, un “rispecchiamento” da verificare (György Lukács), una verosimiglianza che è una credenza in un mondo.  C’è l’infinito dell’interpretazione e un atto di  scrittura che è fatta e ci parla di queste lacerazioni, che ci parla del senso. Il senso che si forma in noi per la prima e per l’ultima volta, dove la prima volta è sempre l’ultima, perché il senso è unico,  irripetibile  nell’attimo,  sta lì,  rinchiuso in un universo istantaneo,  ma per un istante. Sappiamo che è nel momento, che è in quell’immagine, oltre le nostre possibilità, sappiamo che è dentro tutto ciò che non può essere detto, che non può essere contenuto dall’immagine. E quando tentiamo di imbrigliarlo, già si è trasformato sotto i nostri occhi; la mente si rassegna a seguirne la scia, il suo inutile ectoplasma, per costruire un tutto coordinato e logico, coerente e appagante. Lo spettro che impedisce di trasformarci  in pietra è dunque lo schermo stesso?  L’ectoplasma,  la scia del senso inafferrabile, che si rinnova attimo dopo attimo, immagine dopo immagine. Allora non è la durezza del corpo che tocchiamo, non è il mondo che comprendiamo, è soltanto la sua proiezione, la durata del corpo, un surrogato di mondo. Non vedremo mai il fondo del pozzo che è dentro l’immagine, e per cercarlo ce lo immaginiamo dentro un’altra immagine.
C’è soltanto il linguaggio allora, visto che il mondo è troppo distante e troppo interiore per essere interpretato? C’è soltanto il linguaggio e c’è soltanto l’interpretazione?
Questi rapporti intertestuali servono a misurare la potenza del tempo, ossia servono a evidenziare l’impossibilità della nostra coscienza di esperire un tempo se non in maniera indiretta (cinema classico), servono a mostrare il non mostrabile: un tempo di cui siamo contenuto e contenenti, che non attraversiamo con la nostra coscienza secondo le dimensioni usuali. Altre forze sprigionano questa potenza. È come se vivessimo sulle due dimensioni di un foglio di carta e cercassimo di capire quale forza abbia potuto “creare” quel foro che improvvisamente è apparso, bucando il foglio. Privati della terza dimensione non possiamo capire il gesto semplice di una matita troppo appuntita che ha bucato il foglio. Privati della capacità di vedere, ci limitiamo ad osservare con lo scudo l’immagine della Medusa. Forse gli uomini di pietra, che hanno affrontato lo sguardo diretto, sono gli unici vedenti: pietrificati dall’orrore, accecati dal bagliore dello schermo bianco che ha aperto la sua palpebra. Perseo non ha sconfitto la Medusa. La Medusa si è decapitata. Perseo col suo specchio vedeva ciò che voleva vedere,  non vedeva il buco nero che fagocita la luce,  ma lo scorrimento prospettico della luce, vedeva i piani, le linee, l’illusione della tridimensionalità. Lo sguardo della Medusa vede invece la quadridimensionalità, entra dentro il buco dove è imprigionata la luce, si lascia accecare dal nero assoluto, assorbente. Lasciarsi assorbire dall’immagine invece che lasciarsi riflettere. La citazione aiuta anche a smontare questa credenza: il senso non si spiega mai del tutto (crediamo solo nella sua scia luminosa), perché il suo corpo sopravvive dentro il buco, assorbito dal nero profondo della luce, che è il suo mistero.


(3) Ferdinand, Virginie sono personaggi del romanzo di Louis-Ferdinand Céline: Guignol’s band, mentre Pierrot e Yvonne sono personaggi del romanzo di Raymond Queneau: Pierrot amico mio.
(4) M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), Torino, Einaudi 1977, p. 221.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.

27 marzo 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Lo spettro (parte prima) 2/5


2. LO SPETTRO
 
Il cinema rispecchiando la realtà,  o meglio restituendoci un fantasma del materiale “astratto” dal reale, permette di vedere l’invisibile, il quotidiano che il nostro sguardo non sopporterebbe, e che soltanto “il lucido scudo di Atena” può restituirci per decapitare l’orribile testa della Medusa. Sembrerebbe un atto di sapere. Perseo sa che per sconfiggere Medusa deve decapitarla, quindi lo spettatore potrebbe sopportare l’orribile visione soltanto attraverso il lucido scudo di Atena, lo schermo cinematografico, per decapitare la testa mostruosa, per “sapere”. Kracauer stesso ci dice però che nel  «[…] mito stesso la decapitazione  di Atena non significa ancora la fine del suo regno. Ci dicono che Atena fissò la terribile testa sul suo scudo per gettare il terrore tra i nemici. Perseo, che ne aveva vista l’immagine, non riuscì a distruggerne completamente lo spettro»(2).
 Lo spettro dunque. Attraversa le immagini concatenandole l’una all’altra, creando rapporti di associazione; coordina, forma, crea il contesto, dà corpo ad una situazione in cui l’elemento si inserisce interagendo con e nella situazione, sì da dare l’impressione di un meccanismo che si muove da solo, dove tutto accade precisamente adesso, “presentificato” per lo spettatore, dallo spettatore. Allora il significato diviene l’accadimento accaduto (le leggi della narrazione che sono al passato) e accadente (il presente dell’immagine che dà l’illusione di realtà, ci trasporta “dentro” il film, ci dice: “tu stai vivendo questa storia”).
L’invisibile che scorre da un’immagine all’altra è il collante di immagini e significato. Illude di incollare pezzi diversi, frammenti anche microscopici; illude la nostra credenza in un “tutto” dove c’è posto per le nostre storie i nostri sogni la nostra verità. Ma Godard non può ancora liberare il referente dal suo spettro; può invece utilizzare la citazione che non è un referente qualsiasi, ma un testo con un suo mondo, un suo contesto, sempre uguale a se stesso e sempre differente. Con la citazione la trasparenza vacilla. Il blu di Picasso è sempre diverso, vaga nel contesto. Non posso sostituire il blu di Picasso del volto di Pierrot con il quadro Jacqueline coi fiori inquadrato mentre Ferdinand viene torturato (sentiamo le grida e vediamo Jacqueline) o almeno se posso farlo (il colore che scorre lungo la trasversale di tutti i sensi) devo accettare una trasformazione nel valore della verità, ossia devo accettare che la verità non sia il risultato a cui tendono i referenti e il contesto che li lega nell’invisibile (ricostruito dalla nostra mente); devo accettare che il limite di ogni citazione venga superato nel contesto di altre citazioni, in altri termini che l’opacità del contesto venga misurata dalla potenza del falso. È un legame non concatenato dove non c’è nessuna verità da cercare da qualche parte, che sia presupposto per determinare gli eventi.
Godard cerca di impedire che la verità offuschi la sua ricerca, che il concatenamento azione-reazione, immagine che presuppone un’altra immagine, riporti a galla le leggi classiche della narrazione. Il tradimento, l’amore, la morte sono possibilità che danno potenza al nostro pensiero, ossia contribuiscono alla formazione dell’immagine nella nostra mente, della “nostra” immagine in cui il “nostro” pensiero crea delle aspettative. Si uccide per gelosia, per danaro. Marianne ha usato Ferdinand per i suoi scopi. Fugge in un’isola con il suo amante-fratello con i soldi. Metafora della fuga nei mari assolati dei tropici, ma questo soltanto in un evento dove azione e reazione si compenetrano a vicenda; qui invece domina la distanza, la differenza tra immagini e tra eventi. Domina l’indiscernibile. Immagine di immagine, la citazione diventa potenza al quadrato; non è come nell’azione-reazione dove prevale il divenire orizzontale, un punto che segue un altro punto, una linea che incontra oggetti, situazioni, eventi in uno spazio verticale (i fotogrammi che scorrono e la prospettiva bidimensionale che ci illude delle tre dimensioni). È piuttosto una frattura del mondo che raccoglie tutto questo, che contiene tutte le storie, tutte le prospettive, che contiene il “tutto”, ma che è pur sempre esterna alle nostre aspettative, non è pertinente con le nostre costruzioni mentali se non come smarrimento, consapevolezza di un qualcosa di nuovo che sorge in noi proprio perché fuori dal pensabile. L’isola dove fugge Marianne è appena davanti alle spiagge della Francia del sud; Marianne fugge inspiegabilmente verso lo stesso luogo da dove è fuggita proprio perché non sa più cosa fare. E Ferdinand la uccide allo stesso modo, proprio perché non riesce a trasformare la fuga di Marianne in linguaggio.


(2) S. Kracauer, Ritorno alla realtà fisica (1960), Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 435.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.

23 marzo 2012

Pierrot le fou di Jean-Luc Godard(*): Citazione e testo seriale 1/5


1. CITAZIONE E TESTO SERIALE

In Pierrot le fou di Jean-Luc Godard la storia degli ultimi due eroi romantici è ancora intatta, il sapere è un problema da risolvere in maniera classica. L’immagine non è ancora saltata, ma c’è un tentativo di scardinare il focolaio ottico, il pensiero come interiorità, la metafora come soluzione indiretta, il monologo interiore. La citazione diventa un relais, un ponte tra ciò che era (la narratività) e ciò che dovrebbe essere (l’interstizio, la differenza, l’irriducibilità del mondo alla storia). La citazione tenta di dare un valore al divenire, all’impossibilità di determinare il testo, la sua metamorfosi; costruisce un labirinto aperto, che si allarga all’infinito, sopra orizzonti sempre più ampi ed insostenibili per lo sguardo abituato a storie rassicuranti, apparentemente concluse. Come dice Antoine Compagnon, il testo seriale (fatto di citazioni stratificate) «[…] appiattisce, schiaccia tutti livelli del discorso, tutti i metalinguaggi, su una medesima superficie di proiezione. Con ciò abolisce l’opposizione fondamentale  della citazione e dell’uso, sopprime la differenza tra ciò di cui parla, il linguaggio-oggetto, e ciò con cui parla, il metalinguaggio. […Il testo seriale] diventa una superficie dove i livelli di discorso premono uno sull’altro e si fondono, invece di proiettarvisi uno alla volta: si sovrappongono, si attraversano, si avviluppano. […] Ci si deve introdurre fra gli strati del testo, si deve farli emergere, perché il livellamento non annulla del tutto i gradi del discorso. Al contrario, questi, sovrapponendosi più strettamente, proliferano all’infinito: slittano gli uni sugli altri, configurandosi come una geologia di faglie dove tutti gli strati di terreno si urtano tra di loro»(1). La visione moderna della realtà pertanto  non si accontenta del sapere prodotto dalla diegesi, ma vuole trovare nella metamorfosi, nella trasformazione, nel regime delle possibilità, nella “geologia di faglie”, quella chimera (cosa irreale fatta di pezzi reali) essenziale per la ricerca della conoscenza.
E così il soggetto di Pierrot le fou è il senso colto nel suo divenire, che si forma momentaneamente per certi accostamenti, grazie a certi collages di citazioni o di colori o di suoni, oppure si spezza e si ricompone casualmente per via di certi frammenti che vagano espulsi dai lori universi, ma con le loro ricchezze, le loro differenze. Questo rapporto non è ancora ben definito. È solo l’inizio. La citazione è uno dei tanti mezzi utilizzabili per destabilizzare il sistema, per renderlo prioritario, per far vedere che un sistema c’è ed è quello che va tirato fuori, messo in mostra, ma è sfuggente, tende a ripiegarsi su se stesso per ricostruire la trasparenza, l’illusione della non esistenza. Qui domina ancora il romanzesco, perché Pierrot è pur sempre un film di viaggi e di sognatori, che contiene ancora una storia; e il sapere oscilla tra questi due tempi: da una parte potrebbe espandersi fuori (e a tratti lo fa), ma viene sempre in un certo modo recuperato nel flusso della storia, fugge ma ritorna. Eppure Pierrot le fou rimane fondamentale proprio per questo motivo. Il film è la fine di un periodo  e  l’inizio  di uno nuovo  dove  il romanzesco  tenderà a  scomparire, la “storia” ad eclissarsi.

(1) Ho ripreso questa citazione di Antoine Compagnon da: S.Liandrat-Guigues-J.L.Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, Genova, Le Mani, 1998, pp. 43-44.

(*) Luciano Orlandini, Pierrot le fou di Jean-Luc Godard, in Annali del Dipartimento di Storia delle arti e dello spettacolo, Università Firenze, Anno II, 2001, pp. 141-150.

20 marzo 2012

Viaggio nella Luna (Georges Méliès, 1902)

Pur avendo sentito dire di mirabolanti rappresentazioni magiche di immagini in movimento è la prima volta che ho l’occasione di assistere a uno spettacolo cinematografico del famoso illusionista Méliès. L’ansia del pubblico in sala è tangibile. Vedo allo stesso tempo il desiderio di farsi coinvolgere nel gioco e il timore per le cose straordinarie che saranno mostrate. Si inizia. Una féerie barocca. La prima stanza si apre sul consesso degli astronomi riuniti dal Professeur Barbenfouillis impegnato ad illustrare, disegnando sulla lavagna il percorso della navicella, il viaggio nella Luna; ma un astronomo in disparte si alza e raggiunge il decano per manifestare le proprie obiezioni. La scena corale è stupenda, sembra di essere trascinati nel XV secolo al cospetto di Nostradamus o ad Avalon. Suggestivo l’insieme della folla che si muove, il parapiglia, la fluidità dei movimenti. È come se gli eventi accadano davanti a i miei occhi. Potrei salutare il presidente-mago o camminare nella sala insieme agli astronomi o dialogare con le tre ragazze sedute davanti alla cattedra del decano. Bellissimo il momento in cui alcuni astronomi, tra cui Barbenfouillis, cambiano gli abiti portati dalle ragazze assistenti, spogliandosi dalle divise di scienziati-maghi e indossando quelle di scienziati-turisti. Il cambio di scena è sconvolgente, sembra di assistere ad una pièce che scivola fluida davanti a i miei occhi senza pause, sipari che si chiudono, intervalli alla buvette. Tutto è talmente veloce da far scorrere adrenalina nelle vene. Adesso siamo nell’officina dove si costruisce la capsula spaziale. Qui fervono i preparativi per la missione sulla Luna. Gli astronomi più che altro disturbano e vengono invitati a salire su una scala per…oh, incredibile! La scena cambia ancora, un’altra stanza e adesso si gode la vista dall’alto di una Parigi dipinta; rimango colpito in particolare dal fumo che esce dalle ciminiere e da quello prodotto dalla fusione dell’acciaio che cola nel bacino sottostante; vedo le nebbie che si formano istantaneamente davanti ai miei occhi. Il mio animo riesce a percepire il senso stesso della creazione e della tecnologia forgiata dall’uomo adesso in grado di imbrigliare la natura. Tutto accade talmente in fretta da convincermi di essere in grado di dominare gli eventi e di poter controllare l’assetto delle cose. Ma non è finita, ci siamo! L’avventura inizia. La cosa che mi affascina di più è il miracolo che si forma continuamente davanti ai miei occhi, l’avanspettacolo è iniziato con le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet che ci salutano sventolando il cappello dopo che i viaggiatori hanno ringraziato il pubblico… eh… un’altra stanza ancora. La lunghezza del cannone è incredibile … e sta puntando la Luna, alta nel cielo. Appena un artificiere attiva l’innesco e le ballerine stanno allineate accanto al cannone … ancora una incredibile repentina trasformazione! La luna si avvicina… e.. adesso… Ma questa è magia! È il volto di un uomo! Signori, questo non è più teatro! Méliès è riuscito ad incantarci con questa nuova tecnica che riesce a farci cavalcare l’onda del tempo! Adesso una discrepanza temporale, il paesaggio lunare, l’arrivo della navicella, gli scienziati che escono e… ancora magia... la navicella sparisce. L’emozione è troppo intensa. No, non riesco proprio a seguire questi caleidoscopici movimenti di oggetti, apparizioni, sparizioni. Non avevo ancora visto dall’esterno il sorgere del nostro meraviglioso pianeta… poi il fumo, le fiamme, gli scienziati si addormentano mentre compaiono nel cielo astri, pianeti con facce umane e due donne abbracciate con una stella in mano e un’altra gradevole fanciulla seduta su una falce di pianeta come su un’altalena. Qui l’arte nuova, questo “stile floreale”, che domina il nostro nuovo secolo, si mostra in tutta la sua luminosità: è la creazione di un quadro, la pittura che si forma direttamente davanti ai miei occhi! Ancora un altro cambio di scena. L’interno della Luna e l’ombrello di Barbenfouillis che si trasforma in fungo e cresce! Arriva un selvaggio, un selenita che si muove come un acrobata, salta, fa capriole. Barbenfouillis lo colpisce e… incredibile, il selenita scompare in una nube di fumo! Ne arrivano altri. Gli astronomi vengono catturati. La corte dei seleniti è bellissima, somiglia all’interno di una moschea, oppure ricorda un luogo di meraviglie, una sorta di Alhambra; vedo le stelle dell’Orsa (sempre le ballerine) che stanno intorno al re, ma Barbenfouillis prende il re come fosse un manichino (e forse lo è ma non riesco a capire come abbia fatto Méliès a trasformare il re in un mucchio di stoffa) poi lo sbatte a terra facendolo svanire in una nuvola di fumo. A questo punto gli astronomi fuggono: ancora un cambio di scena con seleniti che vengono colpiti e svaniscono non prima di avere fatto mirabolanti capriole (a proposito: bravissimi gli Acrobati delle Folies-Bergère) e ancora un’altra scena: la capsula sull’orlo di un precipizio, gli scienziati che entrano nella navicella. Il presidente non è riuscito a entrare. Riuscirà a salvarsi? Eccolo però che si aggrappa alla fune attaccata alla navicella, un selenita li raggiunge e salta sulla poppa della nave. Poi precipitano… nell’abisso del cielo fin sulla Terra. Ancora: l’entrata in mare della capsula, la visione del fondale marino, l’arrivo al porto di una nave che trascina la capsula. Un'altra “stanza”: l’accoglienza trionfale con la fanfara, le ballerine, gli scienziati che vengono incoronati. Infine una statua viene inaugurata per celebrare l’impresa degli eroi e inizia il girotondo delle ballerine. Che dire. Non avevo mai assistito a tanti avvenimenti, immagini, magie, tutti concentrati in così pochi minuti. Capacità di meravigliare e stupire con la sintesi. Méliès è riuscito a imbrigliare il tempo e lo spazio!

5 marzo 2012

Hugo Cabret (Martin Scorsese, 2011)

Recuperare il cinema di Méliès, omaggiandolo nel resuscitare una sorta di magia stratificata, è l’aspetto che più mi ha affascinato. Scorsese è riuscito a “espandere” la magia dei primi film “fantastici” nel suo stesso lavoro, ricostruendo l’aria respirata negli anni centrali della Belle. Époque (in particolare i giorni di “Viaggio nella Luna” del 1902) . Il gioco continuo di Méliès, teso a far divertire lo spettatore senza coinvolgerlo troppo nelle storie, trascinandolo in un mondo in cui le leggi della fisica sono sconvolte e le regole scombinate, non è però sufficiente per definire la ricerca dell’ordinario annidato nello straordinario (1). Se l’inventore del montaggio e il creatore del primo film di fantascienza, con il suo passato da prestigiatore, ha trasferito i suoi giochi di prestigio nel cinema e ha capito, a differenza dei Lumière, le potenzialità di questo nuovo fantastico mezzo artistico, la sua magia però rischia di restare relegata dentro i suoi stessi film. Quelle proiezioni di oltre un secolo fa non erano solo rappresentazioni filmate di un prestigiatore, ma il risultato di un lavoro tecnico di alta perfezione. Far uscire l’alone magico, l’effervescenza di una “stazione” (ossia le inquadrature fisse che componevano i suoi film), per alimentare stupore (come in uno spettacolo di illusionismo) deve forzatamente comportate una conoscenza del mezzo. La creatività non è tanto (o per lo meno non solo) l’ideazione e la creazione di una storia fantastica o di un mondo luminescente, quanto (o anche) la formazione di una tecnologia di supporto, di un meccanismo che alimenti e sorregga il prodotto finito. Così come gli spettacoli del Teatro Robert-Houdin si svolgevano grazie alle “regole” della prestidigitazione, il “viaggio nell’impossibile” si basa sulla conoscenza di un meccanismo impeccabile che coinvolga un teatro di posa ma che utilizzi soprattutto una cinepresa. Questo meccanismo, peraltro mostrato da Scorsese nel lungo flashback del racconto degli anni d’oro del grande regista francese, non è sufficiente a giustificare quell’alone magico che invece esalta ogni fotogramma di Hugo Cabret. Certamente la sceneggiatura (basata sul romanzo di Selznick) ha contribuito non poco a “decongestionare” il film dal pericolo di una sovraesposizione di meraviglia tipica di certi blockbuster, ma ritengo che il merito di tanta fascinazione sia da ricercare nel trasferimento di quei magici trucchi mélièsiani nella struttura del film.

Orologi, automi e disegni. Sin dall’incipit si notano i boulevard parigini, sorti dalla demolizione dei vecchi quartieri popolari per formare i principali assi viari della Parigi haussmanniana, svanire in una dissolvenza per collimare con i meccanismi dell’orologio della torre della stazione di Paris-Montparnasse. Da questo momento in poi il film si consolida e si sviluppa tenendo conto di un circuito di congegni (i boulevard, gli orologi della stazione, l’automa), pertanto di una tecnologia “rotatoria” che ricorda il giro della manovella della cinepresa e il giro della pellicola che lascia scorrere sullo schermo i fotogrammi sapientemente montati, come rotelline e bilancieri di un orologio, per evidenziare un effetto. La precisione delle scene montate accompagna la precisione dell’ora mostrata all’Ispettore Gustav. Tutta questa tecnologia però alla fine esplode e si concentra nella sequenza dell’automa intento a disegnare la “stazione” del “Viaggio nella Luna” ossia l’immagine più significativa del film di Méliès che mostra la superficie lunare come volto colpito dal razzo in un occhio. Tanta tecnologia “nascosta”, utilizzata per mostrare un effetto di magia, da sola non avrebbe potuto affascinare senza un certo alone poetico. La poesia informa ogni sequenza, traspare sin dall’inizio negli occhi di un bambino rimasto solo che si ostina a riparare orologi per trovare pezzi utili a recuperare un automa custode di un messaggio del padre morto in un incendio. L’avventura che Hugo e Isabelle vivono nella libreria di Monsieur Labisse è la stessa che si può avere anche all’interno di un orologio o ancora in un cinema seduti a vedere Harold Lloyd. Il disegno, in questo caso il bozzetto colorato o meno della story board che serve a ideare le scenografie di Méliès, non è solo il prodotto di una creatività slegata da ogni tecnologia, l’emanazione diretta della mente dell’artista, in quanto anche il disegno presuppone la conoscenza di una certa tecnica di esecuzione. Eppure la visione di quei disegni che lievitano e volteggiano come farfalle nell’aria di una stanza degli anni venti, mostrandosi come pezzi di pellicola che si montano giustapponendosi a “distanza”, restituisce la magia di tutte le esperienze mélièsiane. Quelle “farfalle” che galleggiano e si muovono, compongono il grande passato di Méliès, ma allo stesso tempo informano il contrasto col “presente”, un’epoca in cui il cinema è già cambiato, divenuto cinema narrativo, lo stesso a cui stiamo assistendo nel vedere Hugo Cabret, “luogo” in cui la realtà lancia le sue frecce allo spettatore.

Il naturalismo di Hugo è il catalizzatore usato per mettere in evidenza la magia degli albori della settima arte. Il ricordo del presente (gli anni venti) affonda nell’epoca d’oro del cinema (inizi secolo scorso) quando Méliès cominciava la sua fantastica avventura col cinema delle attrazioni mostrative. La grande guerra invece concluse quel periodo “magico” e il cinema seguì altre strade. Le “stazioni” lasciarono il posto al montaggio narrativo di Griffith (d’altronde già sperimentato dalla scuola di Brighton) e la mdp cominciò a “muoversi”. L’aspetto più teatrale e spettacolare del cinema di Méliès lasciò il posto al verosimile filmico. Quando Hugo Cabret si aggrappa alla lancetta dell’orologio per non cadere, è veramente in pericolo e lo spettatore non dubita affatto che Hugo potrebbe cadere, ma in questa sequenza si mette in gioco il senso stesso del “realismo” del film che non coincide col naturalismo del mondo ma con l’immaginifico del cinema, con l’influenza che ha avuto nell’immaginario dello spettatore, con la storia della crescita e del perfezionamento di una tecnica ma anche di un sentimento. L’illusione di reale che parte dall’ Uscita dalle officine Lumière emozionando i primi spettatori del Salon Indien du Grand Café (da evidenziare la scelta leggendaria voluta da Scorsese nel mostrare invece L’arrivo del Treno) fino alla sequenza in cui Harold Lloyd si aggrappa alle lancette dell’orologio in “Preferisco l’ascensore”, oltre a riportare alla mente tante altre sequenze simili (non ultima quella del film di Robert Zemeckis di Ritorno al Futuro), trasferisce direttamente in quell’alone magico mélièsiano l’effetto di reale, dato inequivocabile capace di coinvolgere lo spettatore per trascinarlo nella credenza di un mondo reale (interessante notare come il vero incidente della locomotiva che sfonda la stazione cadendo sul livello della strada nel film è inserito nel sogno di Hugo). Pertanto la magia del lavoro di Scorsese non è tanto (o solamente) riposta nella reminiscenza di un’epoca in cui il cinema era creato dai maghi (e che maghi!), quanto (e soprattutto) nella capacità di raccontare l’emozione di un’epoca in cui le difficoltà della vita erano appena agli albori, nel senso che la visione d’insieme del nuovo dio spettatore cominciò a prendere forma con il coinvolgimento totale negli eventi accadenti sullo schermo. Hugo Cabret in altri termini restituisce perfettamente questa epoca d’oro (sia gli inizi del secolo che gli anni venti) riuscendo a coinvolgerci nella magia di una stagione eccezionale. L’esperienza più profonda provata nel vedere questo film è stata determinata dalla sensazione di assistere a un film d’epoca, in bianco e nero e muto, un film silenzioso e straordinariamente colorato a mano. Un film, nonostante la proposizione dei giochi fantastici di Méliès, da prendere terribilmente sul serio.

(1) J.L.Godard, Due o tre cose che so di me, Edizioni minimum fax, Roma, 2007, p.95