18 febbraio 2012

The Artist (Michel Hazanavicius, 2011)

Non è possibile raccontare una storia romantica e appassionante senza recuperare con essa il cinema delle origini, in bianco e nero e muto. Anzi, la storia chiarisce ancora una volta quanto la struttura e i materiali siano importanti e predominanti per la sua costruzione, formandola, arricchendola, lasciandola crescere, plasmandosi in essa. Girare un film muto e in b/n non è solo un percorso obbligato per recuperare un modo di raccontare superato, ma anche per attraversare il passaggio, fondamentale nella storia del cinema, dal muto al sonoro, quando le regole e gli stili (soprattutto la recitazione) vennero rivisti. Ciò che pochi anni prima catturava l’attenzione (l’espressività esagerata dei volti e dei corpi) divenne antiquato e macchiettistico, incomprensibile ai più. Ciò che poco prima era una perfetta macchina del consenso (gli stilemi e la grammatica del muto) diventò obsoleto e superato. Ebbene, The Artist, pur essendo un omaggio al vecchio cinema muto, lo rappresenta come fosse cinema contemporaneo: la struttura, il susseguirsi delle sequenze, le immagini ricordano più certo cinema attuale di intrattenimento. D’altronde lo sguardo si “abitua” presto alla “novità” del bianco e nero lasciando la mente libera di ricostruire i colori. Hazanavicius, utilizzando un modo di ripresa da cinema classico, cattura l’attenzione per una storia altrimenti usurata innestando il plot in una struttura solo in parte d’altri tempi. Il film non è un salto all’indietro, il recupero di una scrittura superata per rinverdire una crisi di idee che assiepa sempre più il cinema contemporaneo. Il plot nel suo dipanarsi indica costantemente il “prevedibile” epilogo, il risultato di un evento che ha ormai perso la sua forza emotiva. È una sorta di divertissement, un intrattenersi nel mezzo, un adagiarsi nel ribollimento costante delle immagini nuove, sempre, in ogni momento, scena dopo scena, obbligatoriamente paragonabili alle medesime scene e sequenze di un film muto girato negli anni venti. Un film a colori.
The Artist è il tentativo (purtroppo solo accennato) di inserire il cinema in una decrescita globale al fine di recuperare la capacità di appassionarsi al profumo intenso e coinvolgente della celluloide. Quando il cinema parlava una sola lingua (quella delle immagini) e non c’era bisogno di “rovinare” i dialoghi con il doppiaggio o tramite la lettura, la passione di raccontare era immensa perché il mondo era pronto ad aprirsi a tutte le storie. L’avvento del sonoro concluse quest’epoca d’oro e pose dei “limiti” all’immaginazione. Infatti i dialoghi erano  più che altro immaginati e regolati da qualche didascalia. Poche frasi in mezzo a un mare infinito di immagini. I pensieri poi, le sensazioni, i sapori, gli stati d’animo venivano spesso mostrati tramite trucchi oggi considerati obsoleti (es.: comparazione visiva tra stato d’animo e ppp). Nel film qualcosa resuscita anche se la struttura fondamentale è tipicamente post-classica, adattata pertanto al gusto contemporaneo. Ma ci sono dei segnali. A parte il bianco e nero, colori ideali per “ricostruire” il ricordo di epoche passate, è l’espressività del muto ad attrarre l’attenzione, la capacità di rendersi conto come sia possibile ancora oggi lasciarsi trascinare nel flusso degli eventi pur non udendo un dialogo. Magia del cinema, consapevolezza di quanto ancora il cinema sia in grado di donarci. Un mondo senza suoni (che sopraggiungono solo nell’incubo di Valentin o nell’ultima sequenza) viene percepito come “reale” in modo che lo stile da film muto, i suoi colori e i suoi suoni insonorizzati, riescano a stupirci e meravigliarci. Una sensazione gradevole: “ascoltare” il dolore di Valentin per una carriera stroncata dal nuovo cinema sonoro e vedere crescere l’amore tenero e materno di Peppy per un uomo che ha sempre amato. Nessuna frase, nessun discorso avrebbe potuto maggiormente riportare alla luce questa “vecchia storia” romantica. Eppure intravedo un limite a tutto questo, un limite che si palesa nell’evidente fragore delle scene mute, in quanto The Artist sfrutta l’artificiosità del plot per innestarsi nel mutismo delle sequenza. In altri termini: girare un film “muto” con un plot tanto usurato è la logica conseguenza di una scelta obbligata. Anzi, proprio perché la narrazione e l’usurato epilogo sono decisamente precostituiti nella mente dello spettatore e di noi tutti, il film diventa stranamente rumoroso. Cinema sonoro.


6 febbraio 2012

Shame (Steve McQueen, 2011)

Utilizzo del corpo come fulcro indispensabile per proiettare la carne nel baratro della visione. Shame spinge ad assaporare la crudeltà del sesso vissuto come apogeo inarrivabile, la stessa pulsione che induce a seguire il desiderio o la volontà del piacere ponendo il limite sempre oltre. Dove è collocato però il culmine della parabola oltre il quale inizia la discesa negli abissi? E quando arriva il momento di porre termine alla propria libidine? Sia che si tratti di cibo, di gioco, di sesso, di appagamento in generale, qual è il punto preciso in cui il piacere comincia a diventare dolore? Shame non mostra unicamente la sofferenza di una dipendenza, un corpo separato dall’anima, diviso dal flusso degli appetiti anche se a volte dipendenti da una certa aridità intellettuale (la naturalezza con cui  David tradisce la moglie). L’aspetto più interessante del film concerne la forza gravitazionale dell’abisso che occupa l’intero spazio visivo attraendo l’occhio nei suoi meandri, come un buco nero che fagocita luce senza speranza di fuga. L’occhio pertanto si sente trascinato, inghiottito in una metafora che impone a Brandon di penetrare orifizi di carne per perdersi nel gorgo e vivere direttamente la propria “stagione all’inferno”. Perdersi per estrarre l’anima del poeta, lo sguardo penetrante di chi trasforma corpi in opere d’arte. La bramosia di conoscenza di Brandon lo porta a cercare un limite nel fondersi costantemente con altri corpi, perché poco chiaro il suo rapporto con il corpo che abbandona continuamente, stante la propria incapacità di correlarsi alle altre figure. Quando il vedere non è preparato all’urto diretto con il proprio oggetto della visione (ad esempio le gambe della ragazza seduta nella carrozza della metropolitana), il risultato non è un atto di conoscenza,  ma una immagine preesistente già formata dalla mente, un diaframma che s’interpone tra la nostra fabbrica delle emozioni e il materiale amorfo della visione. In altri termini anche il filmico non è mai completamente assimilabile perché ri-strutturato sempre dalla nostra mente, mentre la ragazza, che sembra desiderare uno sviluppo allo sguardo posato su di lei, in realtà mostra il suo lato imprevedibile nella fuga sulla scala mobile della metropolitana. L’occhio ha manifestato il desiderio di penetrare un corpo senza curarsi di trapassare il baratro che lo separa dallo stesso corpo. La credenza in un sapere preordinato (pregiudizio)  in questo caso ha impedito allo sguardo di penetrare il corpo, mentre il corpo non si è trasformato (almeno isolando l’incipit dal cortometraggio) in arte. Solo a ciclo concluso (dopo l’esperienza amara di una consapevolezza ineluttabile consacrata dal pianto di Brandon nella pioggia di un porto desolato) la ricerca di un approccio alla conoscenza sorge alla vista della stessa “diversa” ragazza: la consacrazione di un evento che s’accresce nell’epanadiplosi (inizio/fine) ove tutto ricomincia ma ove tutto è già terminato.

Senso profondo del già accaduto come rinnegata disperazione per non ammettere l’avvento della carne: l’arte è la forza di resuscitare il rimosso. L’incesto tra Sissy e Brandon è già avvenuto. Il rapporto conflittuale tra i due fratelli nasconde il motivo che “obbliga” Brandon a ripudiare la sorella: il terrore di penetrare un corpo fraterno come ultimo limite insuperabile. L’immagine bellissima del corpo bianco di Sissy colorato dal rosso del sangue, arreda un desiderio latente, un terrore. La consapevolezza di amare teneramente, forse come non mai, quel corpo dolce (consapevolezza che si illumina nella scena in cui Sissy sorprende il fratello intento a masturbarsi davanti allo specchio dicendogli: “Chiudi a chiave quella cazzo di porta”) si accende come un faro nell’oscurità quando Brandon cerca di impedire al sangue di sgorgare sporcando e dipingendo il corpo esanime della sorella. Ma quel sangue non è soltanto indice di una disperazione. Il rosso che colora la bellissima sequenza, ma anche l’intero film, è anche simbolo di un’avvenuta deflorazione, nascosta nelle parti più profonde della mente di Brandon, ma esemplarmente gestita da McQueen come illuminazione sulla devastazione di una società predata dall’usa e getta. Tutto il film del resto rappresenta questo momento clou (e forse il climax si esaurisce proprio qui, nella sequenza del tentato suicidio di Sissy). Infatti non è tanto la dipendenza che interessa, quanto il racconto di un percorso già avvenuto, la descrizione di un mondo già collassato. Il limite, i limiti, il portale oltre il quale non è possibile andare (pena la perdita di ogni dignità o riconoscimento sociale) o il portale che rappresenta il passaggio in una dimensione ulteriore dove definire una Weltanschauung, in Shame non prende forza in quanto ci troviamo già oltre la visione di una norma. La norma è saltata, la regola, gli spartiti, i posti da occupare, sono annichiliti, non esistono nell’al di qua e infatti Brandon è anch’egli uno spettatore, un voyeur, un osservatore che si muove, guarda, osserva, acquisendo esperienza, sorseggiando visioni. E anche se cerca disperatamente di allontanare l’amore per la sorella, di fugare il suo più grande desiderio (scopare Sissy), nell’al di qua ciò è già avvenuto. Il sangue sul corpo di Sissy è allo stesso tempo il risultato di una tragedia ma anche l’espressione della perdita di una verginità; è una luce, un colore che illumina l’oscurità, una dichiarazione d’amore per l’arte cantata allo spettatore.

La reciprocità dell’amore può produrre l’impotenza, o l’incapacità di violare il corpo amato. Il cinema non andrebbe violentato eppure il rischio opposto presuppone una crisi autoriale. Alcune sequenze di Shame, ricordano un cinema più “facile”, un modo di descrivere la nascita di una storia d’amore: magari due colleghi (Brandon e Marianne), lui bianco, lei di colore, che si frequentano, entrano in sintonia, possiedono un qualcosa che li accomuna. L’amore probabilmente nasce. Brandon si sente felice, riesce a sorridere. La storia d’amore prosegue. I due si perdono poi si riprendono: l’emozione di un cliché. Invece Marianne rappresenta una possibilità non sfruttata, la possibilità di relazionarsi e di affrontare la “fatica” di un rapporto, la profondità di una conoscenza. Brandon ha bisogno di “volare alto”, rimanere a distanza, non essere coinvolto. McQueen non può dare seguito a una storia simile: la relazione sarebbe un altro film. Marianne è un attante che potrebbe aiutare l’eroe, ma che si eclissa immediatamente per non compromettere l’avvento della carne, l’urlo di una gangbang autoriale: la magnifica sequenza dell’orgia, luogo di perdizione in cui Brandon si immerge per superare i limiti della visione. In altri termini se Brandon avesse potuto consumare il rapporto su quel letto con vista su una New York evanescente, pallida, il sub-plot avrebbe potuto distrarre lo spettatore e forse non avrebbe avuto senso mostrare una delle più belle sequenze di questa stagione: la danza orgiastica di corpi che si penetrano si scontrano si fondono per formare un ingranaggio di carne, una fotografia da adottare come logo di un presente che ha scelto, nella paura e nella solitudine, il PIL come unico pene obbligato a crescere. Per questo non c’è tempo per fermarsi ad amare, impegnarsi in una storia. Molto meglio avere fretta e proiettarsi già nel prossimo futuro orgasmo.