31 dicembre 2012

Cosmopolis (David Cronenberg, 2012) 3/4: Mark Rothko


Il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa.  Il denaro parla a se stesso.(1)
Nella forma di pittura del Color Field (2) il colore prende il sopravvento a scapito degli altri aspetti artistici, non subordinato a “riempire” le forme o modellare i paesaggi ma proiettato a emergere per manifestare soltanto la sua stessa presenza. Nero, viola, blu sono i colori dominanti delle opere presenti nella  Cappella Rothko, un edificio a base ottagonale illuminato da una luce naturale dall’alto. Pertanto gli oscuri rettangoli della cappella acquisiscono connotazioni differenti a seconda del mutare della luce che entra all’interno. L’emozione non sorge dal quadro in sé, dall’opera di Rothko estrapolata dall’ambiente, perché l’ambiente stesso è un’opera d’arte. Questa cappella prende il sopravvento su qualsiasi esplicitazione o interpretazione artistica, afferma se stessa come luogo in cui ognuno può contemplare la propria intimità. Il colore, oltre a dominare come valore incondizionato, proietta all’interno della cappella l’assoluto dell’eternità e dell’infinito (Dio, Universo, Materia, Spiritualità) nell’intimità del fruitore, nella singolare finitezza del corpo umano, nella creativa riflessione della mente per cui ognuno può interpretare il proprio personale bisogno di trascendenza: in pratica è come un’opera filmica, una struttura cangiante che muta in base al mondo (la luce esterna) e all’estetica della visione (come la mente “ricostruisce” il bisogno di Dio). L’emozione scaturita dal pianto inonda l’ambiente trasformato ogni volta dalla personale esperienza del fruitore. Acquistare questa cappella ad ogni costo, come Eric chiede a Didi Fancher, per poterla inserire all’interno della propria abitazione (“… nel mio appartamento. C’è abbastanza spazio. E comunque posso aumentarlo.”) e non mostrala più a nessuno, non è una forma di egoismo. A Eric non importa annullare la fruibilità in quanto nel mondo attuale ogni oggetto è diventato autoreferenziale. L’arte non rappresenta più un mondo, non intesse una storia o analizza eventi. Adesso il segno ha preso il sopravvento, il colore, uscito dalla forma per farsi oggetto informale (o meglio in questo caso “spaziale”) racconta solamente la sua incontenibile affermazione. Così come asserisce Vija Kinski ad Eric nella limousine, accostando l’arte al denaro, anche il denaro come la pittura “parla a se stesso”. Eric non vuole comprare oggetti, case, quadri, ma solo il valore del denaro per affermare la sua illusoria convinzione di possedere lo spazio (la cappella Rotkho) e il tempo (il lavoro dell’artista). Ma le fluttuazioni naturali della luce, che a Houston contribuiscono a completare l’opera, in casa di Eric sarebbero attenuate, se non annullate; la cappella non sarebbe la stessa cosa. Quest’opera è stata creata per essere di tutti e quindi di nessuno. Il problema per Eric è l’incapacità di comprendere il senso della negazione. Non comprende perché lo yuan non perda valore, non comprende perché Shiner non desideri salire in albergo per fare l’amore con lui. Tutto ciò che non riesce ad acquisire (ed acquistare) gli è sconosciuto. La fonte del potere (il denaro) invece è come una rassicurante alcova. Mi interessa adesso analizzare la capacità, prendendo spunto da un ragionamento del grande pittore lettone, per cui  “[…] un oggetto specifico è ricondotto a una categoria geometrica d’astrazione, e l’aspetto effettivo di una stagione a un’astrazione emotiva, ma queste due astrazioni possono servire a nuovi fini e a determinare idee ulteriori. È in questo modo che procede l’astrazione […] L’unica volta in cui si può sostenere che un’astrazione non si è servita del contenuto si verifica quando questa non ha niente da dire su alcunché.”(3). Cosmopolis, in quanto film che distoglie dalla “realtà istantanea” ossia da quel mondo che impedisce di separare il particolare dall’universale (in cui domina l’idea di una progressione del quotidiano come centro di gravità), è un’opera astratta, proprio come la pittura di Rothko e come tale ha la presunzione (o meglio… “dovrebbe avere”) di essere una realtà a sé, separata, differente, opposta o comunque non identica alla realtà dell’esperienza quotidiana, che approssimativamente definirei newtoniana (nel senso che le leggi della fisica sono sperimentate dal nostro corpo “naturalmente” per cui ci sembra ovvio che il tempo e lo spazio siano dimensioni forti e inespugnabili). Lo spazio pertanto nel film viene “astratto” dal mondo dell’esperienza e le azioni (con conseguenti reazioni) non avvengono uniformemente e linearmente seguendo una cronologia. Definirei due aspetti che corrono paralleli ma anche s’intersecano scambiandosi ruolo a vicenda.
1. Oggetto depotenziato. Bandita una cronologia spaziale (evitata l’illusione di sincronia tramite montaggi paralleli o diacronia tramite flash-back) il film non si dipana seguendo una linearità spazio-temporale newtoniana. Gli oggetti sono continuamente astratti dal mondo che li circonda. Così le opere d’arte, i monitor, la stessa limousine. La super pistola a identificazione vocale di Torval, il capo della sicurezza, è un oggetto costruito per mostrasi, non per uccidere. Torval si gratifica nel raccontare ad Eric l’alta tecnologia del revolver fabbricato in Austria. In sostanza il revolver esiste per porsi nel primo piano, per occupare uno spazio virtuale in quanto oggetto straniante che deve determinarsi come rappresentazione di una categoria (le pistole migliori sono quelle tecnologiche perché sicure in quanto attivabili solo con password vocale e solo il possessore può pronunciare la password). Eppure questa astrazione, (l’oggetto viene mostrato rimpiccolito nel primo piano di Eric e Torval) è appena accennata. In fondo si tratta solo di una pistola: sul piano del contenuto il suo scopo è uccidere (infatti Eric la impugnerà per uccidere la sua guardia del corpo). Ma nel processo dell’astrazione l’oggetto deve prima occupare il dettaglio (nel film un dettaglio virtuale o meglio verbale) per perdere “la sua qualità narrativa” (solo una pistola che uccide) e diventare “puro” colore (Rothko) oppure tecnologia fine a se stessa (Cronenberg). La pistola rappresenta la follia del mondo moderno, è una macchia di colore scuro che emerge da un punto della giacca di Torval. L’idea poi di relegare l’oggetto di cui si parla miniaturizzato nel primo piano (Cronenberg avrebbe potuto dedicarci un PPP) contribuisce a definire l’oggetto (in questo caso il revolver ma anche il sughero addirittura nemmeno mostrato) un’astrazione depotenziata in quanto ogni cosa ormai parla a se stessa. La città (in questo caso New York), gli eventi (ad esempio le scopate, gli uomini-topo, il pasticciere terrorista), la violenza, il mondo intero non fanno che mostrarsi, eccepire, evidenziarsi. In un luogo in cui tutto è straniante, in cui il gioco riduce ogni cosa ad astrazione, cosa può fare l’arte? È sempre valido l’assioma di Viktor Šklovskij (4) per cui l’opera d’arte deve straniare l’oggetto? (“Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto come «visione» e non come «riconoscimento» e ancora “[…] l’arte è una maniera di «sentire» il divenire dell’oggetto, mentre «il già compiuto» non ha importanza nell’arte.”). Quali sono le idee ulteriori richiamate da Rothko?
2. Emozioni come status symbol. Ma l’aspetto più interessante della poetica rothkiana è l’astrazione emotiva. La geometria del colore (il colore “oscuro” della Cappella) che inonda lo schermo (nel caso di Cosmopolis oggetti o attanti depotenziati) interrompe il flusso di una diegesi ormai controllata dalla nostra routine quotidiana per cui certi contesti densi di contenuto (ormai blocchi decodificati di strutture che permangono indelebili da “sempre” nella nostra mente)  si indeboliscono lasciando trasparire la struttura sottostante, l’impalcatura. In altri termini, l’emozione non è più un meccanismo automatico che scatta dopo input schematici ma anche efficaci (ad esempio due innamorati che nell’incipit litigano e sembrano odiarsi per poi, di solito in pochi fotogrammi a metà film, risalire la china esternando nell’epilogo il proprio intenso incredibile amore). L’emozione si sviluppa nella ricerca di una conoscenza che ripudia i luoghi comuni e le frasi fatte (per il cinema direi le sequenze standard acchiappa emozioni) seguendo un percorso difficoltoso e complesso che conduce alla sperimentazione di un tipo differente di emozione: la scoperta di una verità ctonia celata e nascosta da meccanismi creati per accreditare solo sterile consenso. L’astrazione emotiva in Cosmopolis è un’emozione che sorge dall’indebolimento dei contenuti standardizzati, delle azioni collaudate che comunque tendono a creare blocchi di emozioni standard. La diegesi poi fa il resto in quanto  certi contenuti fanno leva sui desideri inconsci (e nemmeno tanto) dello spettatore che ad ogni sequenza proietta nella sequenza successiva le sue aspettative, verificando immagine dopo immagine se il film ottempera ai suoi bisogni. In altri termini come afferma Aumont la diegesi sarebbe“[…] anche la storia presa nella dinamica della lettura del racconto, vale a dire in quanto essa si elabora nello spirito dello spettatore nel corso dello scorrimento filmico. In questo caso, dunque, non si tratta più della storia così come la si può ricostruire una volta terminata la lettura  del racconto (la visione del film), ma della storia così come io la formo, la costruisco a partire dagli elementi che il film mi fornisce «goccia dopo goccia», e anche così come i miei fantasmi del momento o  gli elementi trattenuti da film visti in precedenza mi permettono di immaginarla”(5). Astrarre non significa respingere un contenuto (anche se standard e collaudato) ma utilizzarlo per spingersi sotto la superficie e verificare al contrario che la diegesi deve essere continuamente rinnovata nel senso che non sempre la verifica, sequenza dopo sequenza da parte dello spettatore, deve forzatamente condurre al godimento appagante di certe condizioni di partenza. L’emozione “astratta” nasce in Cosmopolis dallo smarrimento provato per il fallimento della contestuale verifica diegetica. Ad esempio come la pistola serve a integrare il percorso di Eric verso la montagna del suo Purgatorio, al di là delle Colonne di Ercole, così la Cappella Rothko (vista al monitor della Limousine) può essere anche un desiderio fine a se stesso da circondare con il proprio appartamento, il barbiere non deve completare il proprio lavoro per formare un’altra asimmetria, l’odore di sesso non è un tradimento ma una forma poetica sulla bocca di Shiner e Shiner stessa non una moglie gelosa ma una poesia erotica, mentre la morte traspare in ogni inquadratura non in quanto termine, fine di una vita, di una città o di un’epoca ma come unico contenuto da affrontare, cercare,trattare, occultata da certa cultura di massa per esorcizzarla e mai conosciuta o intesa in quanto interfacciata con la vita. Seguendo una visione che si lascia imbrigliare dalle trappole delle abitudini di uno sguardo logoro, la vita rimane sigillata nella fiction come stereotipo e non come opportunità di conoscenza.
1. Don DeLillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2005, p. 67.
2. http://it.wikipedia.org/wiki/Color_field
3. Mark Rothko, L’artista e la sua realtà, Skira editore, Milano, 2007, p. 145.
4. Viktor Šklovskij, L’arte come procedimento, in I formalisti russi, a cura di Tzvetan Todorov, Einaudi, Torino 1968, pp.75-94.
5. J. Aumont, A. Bergala, M. Marie, M. Vernet, Estetica del film, Lindau, Torino 1995, pp.79-80.

21 dicembre 2012

Cosmopolis (David Cronenberg, 2012) 2/4: Asimmetrie simmetriche: tre esempi


… il tempo breve è la più capricciosa, la più ingannevole delle durate (1)

Le asimmetrie. La prostata. I capelli tagliati solo da un lato. La speculare asimmetria alla prostata di Eric e Benno. Contribuiscono a delineare un percorso che non conduce da nessuna parte. La ricerca non consiste nell’eseguire un’operazione, strutturare un racconto, ma nell’indebolire le funzioni dominanti del racconto, in altri termini, usando una terminologia cara a Greimas (2), la sanzione (giudizio del Destinante sui compiti svolti dal Soggetto) si è dilatata occupando l’intero film, ingloba la manipolazione, la competenza e la performanza, in quanto la valutazione, l’analisi e il verdetto sono già presenti nell’incipit, sono il film, rappresentano coppie di opposti-identici (marito e moglie, stalker e vittima, amanti, artista e mecenate) per cui l’attante si configura come gruppo di soggetti. Cosmopolis ci racconta la formazione di una istanza narrativa, la storia ripiegata su se stessa, e come il cinema sia un inganno continuo, una impossibilità a raccontare se privato della sua fittizia realtà. Il cinema non fa che raccontare se stesso. È doveroso pertanto allontanare il cliché o meglio disabilitare la parola chiave, l’idea di verosimiglianza. Non è semplice cercare una asimmetria perché la geometria dei percorsi, la fantasia della mente, cuce sempre nuove simmetrie, lega storie a immagini. La mente si orienta. Questo non vuol dire negare un contenuto. Quando sogno so di vivere una istanza indefinibile. Non sono in un racconto. Nonostante percepisca come reale una situazione onirica, non percepisco né il tempo né lo spazio né le regole degli eventi. Invece è da sveglio, nel ricordare il sogno, che le coordinate spazio temporali si aggiungono all’evento e il sogno diventa non un sogno ricordato ma una storia onirica. Come allentare questi legami che allontanano dall’essenza delle situazioni, degli oggetti, dei rapporti? Asimmetrie, materia (sughero), arte (Rotko), sesso (odore di sesso, moglie), morte (revolver). Rompendo i legami tra gli eventi è possibile annichilire il surplus, l’apparenza, per arrivare a comprendere (o almeno a tentare di comprendere) il fatto in sé, ossia l’assenza di senso del mondo. In Cosmopolis Cronenberg chiede allo sguardo di farsi critico, “ […] richiede uno sguardo riflessivo, che invita a prendere coscienza di sé e del reale: esso rivela che il vedere è un’attività complessa in cui si compenetrano oggettività e soggettività, realtà e percezione, esperienza e linguaggio […] (3). Mi limito per brevità a indicare alcune situazioni esemplari.
1. Shiner. Il rapporto tra Shiner ed Eric non è il tipico rapporto marito-moglie. Si dirà dell’incomunicabilità. I loro dialoghi sono incoerenti, non rispondenti a delineare la crisi” di coppia, ecc. ecc., seppure la coppia si sia formata da poco e così via. Non mi interessa mettere in evidenza questi aspetti in quanto il vero rapporto di coppia riguarda Eric e Benno. Eppure qualcosa di fondamentale si deforma (nel senso che coltiva un’altra forma). Supponiamo per un attimo di abbandonare la linea rassicurante dell’intreccio e assumere altri modelli di indagine. Ad esempio la funzione poetica. Nel plot Shiner si rifiuta di fare l’amore con Eric perché questo per lei sarebbe uno spreco di energie utili invece a scrivere poesie. Shiner è una fantomatica poetessa miliardaria o meglio una vaneggiante miliardaria che si addossa il titolo di poetessa. Nel plot Shiner uccide la poesia in quanto, rifiutando di fare l’amore con Eric in nome della poesia stessa, non fa che negare i presupposti fondanti dell’arte che richiedono al contrario di provare almeno declamare esperienze, sensazioni, emozioni. Tutto questo accade nella narrazione. Dimentichiamo per un attimo queste tendenze. Se nel plot Shiner (supponiamo) uccide la poesia, questo non accade nella struttura, nel discorso, nel modello. Nel film in sé, nel cinema, nel lavoro intitolato “Cosmopolis”, la risposta di Shiner tende a destabilizzare il rapporto marito-moglie. Lei si rifiuta di fare l’amore per mantenere energie utili alla poesia. Il fatto poi di rifiutarsi mantenendo un certo aplomb, senza drammatizzare il rifiuto (e neppure Eric drammatizza o si scandalizza per una moglie che vorrebbe vivere in una “purezza” arcadica), contribuisce a formare una struttura antinormativa o, meglio, come direbbe Mukařovský(4), una struttura poetica in quanto capace di violentare una norma (la norma è il rapporto drammatico della coppia qui assente e lacerato da digressioni inconcludenti: il cibo, l’odore, il pasto al bar, l’incontro in biblioteca). Al contrario la poesia sta lavorando fuori dall’intreccio per destabilizzare la norma e la risposta di Shiner alle avances di Eric è una vera e propria funzione poetica. In Cosmopolis la poesia sorge da un’azione metalinguista: la poesia non è lo status di una moglie miliardaria, ma la funzione stessa della moglie atta a destrutturare un rapporto (qui neppure avviato) per creare un andamento armonico (rime, allitterazioni, ecc.). L’andamento prosastico del film assume nei dialoghi dei consorti un andamento ossimorico, nel senso che, ad esempio nella sequenza del pranzo al bar, traspare dalle parole di Shiner una volontà che contrasta con il suo atteggiamento. Mentre la sua grammatica è pudica e frigida e cerca di contrastare le avances di Eric evidenziando anche una connotazione che lascia trasparire una certa gelosia, la sua pragmatica, o meglio, i suoi atti illocutori(5) evidenziano una donna che sta letteralmente facendo sesso nel bar col marito. I movimenti, lo sguardo, il tono della voce danno la sensazione di una donna che ha traslato la scopata dal fatto in sé (scopare) al desiderio (l’orgasmo è già il desiderio stesso). Se sul piano del racconto siamo in un contesto classico (l’uomo che ci prova e la donna che “deve” mostrare per convenzione una certa resistenza), sul piano del discorso la funzione poetica comincia a essere predominante evidenziando il desiderio di Shiner che  sta già provando un illocutorio orgasmo.
Shiner. Non sono sicura di avere fame.
Eric. Lo scoprirai mangiando. Parliamo di sesso.
Shiner. Siamo spossati da qualche settimana. Poche settimane.
Eric. Tutto è poche settimane. È fatta di minuti la vita.
Shiner. Non vorrai contare le volte, vero? O discutere seriamente dell’argomento.
Eric. No, bisogna farlo.
Shiner. E si farà… si farà
Eric. Bisogna farlo.
Shiner. (con sensualità) Il sesso.
Pertanto la poesia non è una forma trascritta in un libro trovato in una biblioteca sottoterra (Shiner rappresenta il concetto stereotipato di come la società si pone davanti alla poesia), ma un progetto di ricerca in grado di mettere in tensione persone e fatti per creare esperienze altrimenti insondabili. Shiner è poetessa non perché scrive poesie. La sua azione induce ad assimilarla a una funzione poetica del film, un momento di poesia: i dialoghi stessi e il rapporto tra i coniugi trasmettono un andamento “poetico” (messaggio incentrato su se stesso) . Cronenberg ci sta dicendo che il cinema è  atto antinormativo bisognoso di energie e impossibilitato a flirtare con il pubblico (ma in grado di penetrare nella coscienza). Pertanto l’assetto normativo non è individuabile nel rapporto marito-moglie lungo la linea che unisce Eric a Shiner, ma nell’automatizzazione degli eventi, negli atti usurati, nelle strutture stereotipate che raccontano ogni volta la stessa storia. Il momento in cui Shiner dice ad Eric che non può fare sesso perché ciò gli toglierebbe energie preziose per scrivere poesie rompe con la convenzione della “coppia” che deve essere litigiosa o innamorata e deve fare sesso, aprendo la porta su un mondo indefinito e non comprensibile.
2. Benno. Il rapporto di coppia si trasferisce nel dialogo dell’epilogo tra Benno ed Eric. Si puntano a vicenda le pistole addosso. Vogliono uccidersi. Discutono psicoanalizzandosi a turno. Ognuno crea nell’atto dei movimenti, in un loculo immerso nei rifiuti della modernità, una danza d’amore nel loro continuo spostarsi, alzarsi sedersi avvicinarsi. Si odiano proprio come una coppia che esprime il rancore di una vita vissuta insieme. Eppure si amano perché condividono la stessa disillusione e se è vero come dice Eric a Shiner “il sesso è l’antidoto alla disillusione, è il contravveleno”, allora i movimenti stessi diventano movenze di due disillusi che sperano di “raccontare” il loro destino e la loro provenienza, inquadrandosi e fermandosi in un nome: “il nome dice tutto”. I due non sono nemici e neppure amici; sono l’imperscrutabile alternarsi del giorno e della notte, una camminata nel flusso del tempo che si chiude implacabile alle proprie spalle. Se si vogliono apprendere i segreti di un matrimonio che sta per tramontare bisogna soffermarsi un po’ nel pied-a-terre di Levin e osservare la passionalità dei due uomini. Pertanto qui si consuma la frattura tra significato (l’immagine mentale di un matrimonio, di una coppia, del sesso) e significante (la scrittura, ossia i corpi, i soggetti, l’attante in sé) per cui il segno “matrimonio” (significante/matrimonio vs significato/coppia che si sposa, vive insieme, fa sesso, crea figli, ecc.) in Cosmopolis si disarticola, scivola via, si disunisce, tendendo a una esangue infinita evaporazione. Sul piano del significante il matrimonio di Eric e Shiner non è un matrimonio, mentre lo è quello tra Benno ed Eric. Pertanto il segno vacilla mostrando la debolezza e la disarticolazione continua del mondo postmoderno.
3. Il sughero. Ciò che conta pertanto non è il pericolo (action movie), l’amore (quanti film d’amore sembrano lo stesso identico film?), la limousine blindata e superaccessoriata. Conta il sughero. Nascosto nell’intercapedine della limousine, posato per non fare entrare i rumori del mondo, il sughero, solo citato e mai visibile, è causa ed effetto allo stesso tempo del desiderio di emarginazione, perché isola ma anche informa. Il sughero in realtà non  lascia i rumori all’esterno e si mostra (pur non mostrandosi) attraverso il “racconto” di Eric come status sociale. Vale come sughero in sé, come oggetto che ingigantisce e conquista il primo piano. La forza creativa dell’oggetto quando viene disallineato dal particolare, dalla banalità del quotidiano e diventa funzione straniante, oggetto in sé non utile, non seriale, non  informante, pertanto opera d’arte invisibile, rappresenta in quanto oggetto straniante, speciale (come un quadro una scultura), ma anche in quanto non visto e relegato nel dialogo, concetto, idea, rappresenta un breve saggio di arte concettuale.  Il racconto non è mostrato come concentrato di grandi eventi, nuclei e indizi che definiscono il plot. Si manifesta al contrario come una congerie di micro avvenimenti isolati, frammenti di catalisi inspiegabilmente disuniti, inseriti nel breve termine, che nessun montaggio potrà mai trasformare in film.
1 Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Arnolfo Mondadori Editore, Milano, 1973, p. 61.
2. cfr. Greimas, Del senso 2: narrativa, modalità, passioni , 1983
3. Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci editore, Roma, 2010, p. 143.
4. cfr. Jan Mukařovský  La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali. Semiologia e sociologia dell’arte, Torino, Einaudi, 1971.
5. cfr. John R. Searle, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

16 dicembre 2012

Cosmopolis (David Cronenberg, 2012) 1/4:Potlatch postmoderno

… le città si son sviluppate nella storia come delle fortezze, delle gabbie sicure. La natura era da qualche parte là fuori, nel deserto, nella campagna, nelle foreste, nelle montagne; le città erano luoghi in cui la gente cercava riparo da questi pericoli. Oggi, paradossalmente, la situazione si è ribaltata,  perché le minacce che noi percepiamo provengono dall’interno della città (1).

La limousine come una guscio, un involucro, una comoda capsula inglobante che protegge dal mondo, garantisce sicurezza, isola dai rumori e dal caos del reale. Ma non dalla violenza, perché questo guscio è comunque interconnesso con gli eventi, anzi dal suo interno Eric può controllare, gestire, spostare capitali enormi. E l’attacco alla sicurezza del suo software può penetrare virtualmente le insonorizzate pareti della comoda limousine. Come un Ulisse postmoderno, Eric accetta di navigare nelle strade di una New York aliena eppure allo stesso tempo così familiare, con le sue proteste, i suoi funerali, i bar, le biblioteche, gli attivisti, gli intellettuali, i manager, in altri termini la solita New York conosciuta. L’approdo, la sua Itaca, è il suo barbiere di una volta. Tagliarsi i capelli dall’altra parte della città affrontando pericoli e insidie è il proposito da realizzare. Non valgono il percorso, il viaggio. Importano il proposito, la differenza, il gesto di raggiungere un altro traguardo, constatata l’impossibilità di oltrepassare l’imprevedibile. Infatti meraviglia che un giovane manager come lui, in grado di eseguire ogni giorno transazioni miliardarie analizzando sofisticati algoritmi economici pur di decodificare la complessità della finanza contemporanea, non riesca a capire il  motivo per cui lo yuan continui a salire nonostante ogni calcolo indichi l’opposto. Perché tutto questo? Vorrei partire dalla fine. La fine di un’economia, di uno stile, di un modo di pensare, di un mondo, l’epilogo di Cosmopolis, l’ultima emozionante, fulminante sequenza: l’incontro scontro con Benno Levis il cui arrivo è stato annunciato sin dall’incipit. Durante il dialogo decostruente tra i due  nella “capsula” povera di Benno (una sorta di magazzino di oggetti e mobilio dismessi), il terrorista psicologo, riferendosi al desiderio di Eric di essere il primo in ogni cosa   (...vuoi sbagliare, andare in rovina. Vuoi avere più degli altri, puzzare più degli altri…”), afferma: “Nelle antiche tribù il capo che distruggeva la maggior quantità dei suoi beni era il più potente”. Questa parte del dialogo (durante la quale i due si puntano a vicenda le pistole contro) mi ricorda la cerimonia del potlatch (2)  che si svolgeva in alcune tribù di nativi americani residenti sulla costa americana e canadese all’incirca negli attuali stati di Washington negli Stati Uniti e della Columbia Britannica in Canada. Molto interessante era il potlatch dei Kwakiutl o Kwakwaka’wakw che praticavano festeggiamenti per cui la “[..] popolazione era infatti presa nell’ingranaggio di un sistema di scambio che conferiva il massimo prestigio al singolo individuo che distribuisse la maggior quantità di beni di maggior valore […]. Non si trattava […] della semplice donazione di beni: in certe occasioni questo impulso di auto glorificazione diventava tanto travolgente che si strappavano coperte, si dava fuoco a prezioso olio di pesce, si incendiavano interi villaggi, e si gettavano in mare «schiavi» per annegarli”(3). Il “viaggio” di Eric all’interno del suo tepee corrazzato è il suo personale potlatch, ma allo stesso tempo è il potlatch di un mondo che sembra avere “raggiunto” lo stesso standard delle antiche tribù native dell’America che stupirono Franz Boas (5), poiché il comportamento dei Kwakwaka’wakw sembrava ai loro occhi la contrapposizione a un capitalismo che mirava ad accumulare beni e il cui prestigio era conferito dall’ostentazione della ricchezza. Questo atteggiamento dei nativi invece, per cui al contrario l’apice del prestigio consisteva nel donare o distruggere i propri beni, sembra allinearsi all’evoluzione matura di un’economia che, lungi dall’essere una scienza esatta, somiglia sempre più a una puntuale follia. Questa follia che contribuisce a cercare l’ulteriore vetta oltre la vetta, ossia la caduta nell’abisso. Eric, multi miliardario e super protetto dalle guardie del corpo e dalla sua auto veste blindata, non sembra preoccupato dall’accumulo, vuole sempre di più, si ostina a puntare sul crollo dello yuan, vuole acquistare la cappella Rothko,  vuole “puzzare” più degli altri, vuole essere terrorista più del terrorista, buttare il suo mondo per elevarsi ancora più in alto, distinguersi allo scopo di incollare i pezzi di una sua asimmetrica personalità. Il capitalismo postmoderno tende a somigliare alla apparente follia delle cerimonie dei Kwakiutl immolandosi in un potlatch oltre un secolo dopo i festeggiamenti distruttivi di una tribù di nativi. Cronenberg, che conosce bene la storia del suo paese (i Kwakiutl erano una tribù canadese) inserisce nel plot un cerchio stilistico che collega simbolicamente il percorso “asimmetrico” di Eric (andata senza ritorno dalla casa auto al tugurio di Benno, i capelli tagliati da un lato, la prostata) al percorso altrettanto asimmetrico di un’economia ormai globalizzata e collassata, protesa verso un limite oltre il quale persiste una autofagia (nel senso di riciclo del proprio contenuto) senza speranza già sperimentata alcuni secoli fa da una tribù di nativi. Le guerre, le carestie non bastano più; per sopravvivere conta scomporre e ricomporre le merci e i capitali senza soluzione di continuità. E Cronenberg, nel percorrere questa strada, delinea la sua analisi antropologica di un cinema che “deve” tracimare invadendo altri alvei, perché il cinema non può essere (imbrigliato da una narrazione che non riesce più a stare dietro alla mancanza di senso di un mondo imprevedibile e da tempo ormai non più classificabile secondo i canoni di  algoritmi narrativi) sempre più spesso e inequivocabilmente legato a strutture che esaltano il bisogno di legarsi a dei punti di riferimento; in altri termini mi riferisco alla deriva di una  narratività che diventa giorno dopo giorno qualcosa che assume vita autonoma, che esiste a prescindere dalla Storia (con la esse maiuscola) e dal mezzo (arte, letteratura, cinema, ecc.). Il percorso della sceneggiatura (dialoghi molto somiglianti al romanzo di DeLillo) conduce all’interno di un cul de sac (la casa dello stalker) in cui non conta la “storia” personale (le frasi di Eric e Benno non sono racconti o descrizioni, ma sintomi di una malattia), ma la Storia profonda, antropologica, di una smarrita umanità, diventata il metro di paragone futuro di una vecchia ricerca di un antropologo intento a studiare un’antica tribù di nativi. Se, sintetizzando e correndo il rischio di essere banale, il cinema classico e post-classico è prettamente narrativo, quello di Lynch ipernarrativo, di Godard  cinema-saggio e di Greenaway pittura, quello di Cronenberg somiglia sempre più a un cinema perso, ingrassato nell’alveo fluviale di una carnosità putrescente e poi tracimato nell’attesa di trasformarsi in animale terrestre: un linguaggio non più fluido che specifica, definisce ed enuclea, ma un linguaggio “deponente” (nel senso di un linguaggio che detiene solo una forma passiva), incapace di definire un evento eppure straordinariamente in grado di formare o per lo meno fare intuire l’essenza di un contenuto inglobata all’interno di uno stile che si sta definendo sempre di più come un clic, un soffio, un flusso vitale.

1) Zygmunt Bauman, Il buio del postmoderno, Aliberti editore, Roma 2011, pp. 30-31.
2) Potlatch. Da Wikipedia: Il potlatch assume la forma di una cerimonia rituale, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati "di prestigio" (http://it.wikipedia.org/wiki/Potlatch)
3) Marvin Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, Il Mulino, Bologna, 1971 p. 411.
4) Franz Boas (1858-1942). Antropologo tedesco tra i fondatori dell’antropologia moderna. Suo lavoro più importante: L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl (1897) in cui analizza la cerimonia del potlatch.
 


29 ottobre 2012

Prometheus (Ridley Scott, 2012)

Dal liquido bevuto nell’incipit da un Ingegnere genetico simile al virus del vampiro che scorre nelle vene di Bella in Breaking Dawn 1, al cliché della donna intellettuale (l’archeologa Elizabeth Shaw) capace anche di trasformarsi in una guerrigliera super addestrata; dal “mostro” partorito da Elizabeth, che ricorda uno dei tanti calamari giganti visti in un secolo di cinema del terrore, fino alle solite consuete esplosioni, lacerazioni, ustioni, ecc., il film ci conduce in un labirinto di luoghi comuni che potrebbero sfociare in un generico appagamento. Infatti, poiché il titolo intende volutamente ricordare il mito di Prometeo (amico di un genere umano forgiato dal fango) forse Ridley Scott avrebbe dovuto estendere lo spazio dedicato agli ingegneri, i “titani” in un primo momento “amici” degli uomini (come Prometeo) poi (nel film) loro acerrimi nemici. Da questo raffazzonato e forse stanco modo di procedere si organizza una forma artefatta, troppo debole per sorreggere e giocare con le origini dell’Universo, quella Genesi che meriterebbe (credente o non credente) una maggiore eleganza. Dalla sempre eterna domanda sulla creazione (da dove veniamo), allo scopo ultimo della nostra esistenza (dove dobbiamo arrivare) mi sarei atteso una risposta più approfondita, magari anche una non-risposta. Senza scomodare il monolite di 2001 Odissea nello spazio, avrei preferito almeno un’assenza alla impressionante presenza di alieni (od ologrammi) che vagano in una astronave immersa nella roccia. Un’assenza che avrebbe dato maggior peso al film. Neppure è possibile giustificare l’operazione col pretesto di offrire un prequel allo splendido Alien, ossia mostrando quella sorta di ponte, quel tenero Xenomorfo che esce dal corpo dell’ingegnere appena fecondato e che dovrebbe spaventare in quanto capostipite dei mostri di acciaio che crescono nelle viscere di una futura umanità. Se metafora deve essere – i nostri ingegneri creatori ci odiano, ossia la Natura (oppure Dio) è una madre stanca di un’umanità che non riesce a trovare un equilibrio per un’impronta ecologica sempre più debordante – allora che la neo-vetero-formazione di “brodo primordiale” giunga sulla terra e riveli il vero volto di questa post-umanità. Invece il film galleggia tra cliché e deja vu, propinandoci immagini “grandiose” di una carta olografica dell’Universo commutata da Google Earth, guerrieri olografici che sembrano più sottoprodotti dell’immagine proiettata del viceré Nute Gunray della Federazione dei Mercanti in Star Wars – La minaccia fantasma, nonché esplosioni, urti e crolli ormai ripetutamente propinatici da certo logoro cinema. Peccato perché un prequel di Alien (senza pretendere di raggiungerne la qualità) avrebbe potuto stimolare suggestioni, suggerire propositi, indicare un modo diverso di approcciarsi alla sci-fi. La grandiosità dell’operazione (Genesi, origini dell’umanità) avrebbe meritato maggiore cura e minori certezze. Senza voler affrontare temi che riguardano la religione forse sarebbe stato più interessante mostrare una meteorite pregna di aminoacidi che cade sulla Terra oppure ricordare che Prometeo amava talmente l’umanità da inimicarsi Zeus, vero nemico degli uomini poiché ne temeva l’intelligenza e la loro capacità di apprendimento.

29 settembre 2012

La donna del tenente francese (Karel Reisz, 1981): 3/3 Pinter, il film

La sceneggiatura di Pinter, tratta dall’omonimo romanzo di John Fowles, è stato un ottimo punto di partenza per girare un film di grande qualità seguendone quasi fedelmente il percorso pur presentando alcune differenze. L’idea originale di prevedere due piani di narrazione (Sarah e Charles, i personaggi principali del film e i due attori che interpretano i protagonisti: Anna e Mike) ha contribuito a dare prospettiva e profondità all’opera. La condizione femminile dell’età vittoriana (per cui una donna ricca doveva solo sposarsi mentre una povera trovava spesso davanti a sé la strada della prostituzione) si allinea alla società inglese degli anni sessanta con la donna protagonista pronta a rivendicare il diritto di scegliere come vivere senza limiti e impedimenti. Sarah, la donna abbandonata da un tenente, non ha speranze nell’Inghilterra vittoriana, né d’altronde pretende di affermare la propria diversità. Si limita soltanto a rifugiarsi in passeggiate solitarie sul Cobb (il molo in pietra del porto di Lyme) in attesa di un fantomatico tenente francese che l’avrebbe sedotta e abbandonata. Mentre Charles, un ricco gentleman esperto di fossili in procinto di sposarsi con una donna ricca, rimane folgorato da Sarah, rinunciando al matrimonio con la benestante Ernestina. Non sto a soffermarmi sul film che presenta sequenze di grande impatto emotivo rese mirabilmente da Reisz grazie anche a due grandi attori come Jeremy Irons e Maryl Streep. Le sequenze dell’epoca vittoriana inoltre sono “interrotte” con efficacia dalle sequenze degli anni “ottanta”. Nella prima parte del film  il plot si sofferma spesso sul rapporto tra Sarah e la signora Poulteney (la sua “padrona”), tra Charles e il padre di Ernestina e sulle scene in cui di due protagonisti si incontrano. Mentre le sequenze degli anni “ottanta” tendono a prendere il sopravvento nella parte finale del film per cui sembra che il tempo “moderno”, in cui ogni cosa è stata messa in discussione e i valori di un’epoca sono già stati assorbiti e superati, stia fagocitando un’epoca stessa. Il film inoltre trasferisce nelle sequenze “moderne” il sapore e il profumo dell’epoca vittoriana o per lo meno lo trasferisce nella mente di Mike che si innamora del personaggio (Sarah) interpretato dalla sua amante (Anna). Come nella “storia” (la trama del film) il limite di Mike-Charles tende verso Sarah, rinunciando al benessere e alla sicurezza (sposando Ernestina), così nel presente il suo limite non tende ad Anna, ma alla efficace interpretazione di Sarah da parte della donna. In altri termini Mike è come un cinefilo che sogna l’amore di un personaggio interpretando la sua realtà,  trasferendo pertanto la “purezza” di un amore rappresentato nei confronti della sua attrice-amante Anna. Mentre la storia si propaga nell’oggi (gli echi dell’era vittoriana che si trascinano nei “giorni  nostri” - vedi gli attori ancora vestiti in costume che partecipano alla festa dell’epilogo), così il discorso (la fiction, la struttura, i ciack, i deittici del cinema mostrati nelle sequenze del presente) non è capace di assorbire in pieno la storia, pur avendola plasmata, lasciando trasparire l’efficacia e la capacità del racconto di sussumere in sé la “realtà”. Charles infatti non è più in grado di distinguere la sua storia d’amore con Anna o con Sarah, trasformando il suo mondo in un plot. Il doppio finale che nel “film” è rappresentato dal ritrovamento romantico (dopo tre anni di assenza) della cara Sarah (i due amanti salpano con una barca), nella “realtà” si esaurisce con la “fuga” di Anna, si unifica nella frase gridata da Mike alla finestra (nel vedere l’auto di Anna che se ne va): “Sarah”. La definizione di realtà riferita al mondo di Mike è ovviamente una convenzione che utilizzo per distinguere i due piani, ma i due aspetti del plot sono le due facce di un’unica storia. Pinter ha inteso trasporre nella sceneggiatura gli aspetti postmoderni del romanzo di Fowles per lasciare respirare due piani di realtà, due mondi distanti ma allo stesso tempo coinvolti, intersecati. L’età vittoriana con la sua rigidezza e l’epoca in cui le certezze dell’uomo sono tramontate, per cui il mondo non appare più una montagna da scalare, coincidono in un mix eccezionale. Da qui traspare nell’efficace “costruzione” del racconto la forza imponente decostruttiva ottenuta sovrapponendo altri piani narrativi in contrasto o per lo meno in fase di probabile urto. È come trovarsi davanti a un crash test. La ricerca di Reisz consiste nel mettere a dura prova un corpo umano in rotta di collisione con un altro piano narrativo. La forza destabilizzante del film affonda le radici nella sceneggiatura del premio nobel 2005, il grande drammaturgo Harold Pinter. La sceneggiatura propone l’intersezione-scontro dei due mondi seppure strutturandoli diversamente: mentre l’epoca vittoriana acquisisce (secondo me però accentuata dal découpage di Reisz) una trasparenza illusoria di grande impatto, l’epoca “contemporanea” mostra il cinema stesso in azione (attori ancora vestiti in costume, attrezzatura, ciack., ecc.). questa differenza sembrerebbe dare maggiore risalto alle condizione femminile della donna in una società inglese ormai tramontata e al crescere di una storia d’amore non compresa all’epoca. Eppure Pinter ci racconta soprattutto una storia moderna, attuale, in cui l’uomo non riesce a trovare, nel bene o nel male, quei punti di riferimento (regole di comportamento, sociali, convenienze, rapporti tra ricchi e servitori, ecc.) che sono  stati inevitabilmente rimescolati e/o annullati. Nonostante ciò nell’oggi non ci può essere lieto fine, non tanto perché le condizioni dell’uomo moderno siano peggiorate, quanto perché  la perdita di ogni riferimento toglie senso persino al concetto di lieto fine. Forse per Anna anche la storia moderna finisce bene (in fondo vuole solo liberarsi di Mike?) mentre nell’epoca vittoriana Ernestina non gradisce l’epilogo (ma qui il suo compito si riduce a essere personaggio secondario e pertanto non interessante secondo le regole dell’happy end). La sceneggiatura di Pinter mi ricorda molto la sua commedia Vecchi tempi anche se ritengo che nella Donna del tenente francese sia stato fatto un ulteriore salto in avanti. Mentre in Vecchi tempi il passato non era che ricostruzione del ricordo e pertanto soggetto a imprecisioni e imperfezioni, nella Donna del tenente francese il passato occupa e invade il presente, quasi assorbendolo. La storia presente cresce e si sviluppa emergendo alla superficie con maggiore veemenza verso l’epilogo non come “luogo” distaccato dalla rappresentazione (l’autore onnisciente che racconta una storia) quanto come creazione e risultato di un tempo che non c’è più (il presente non può influenzare ma solo essere influenzato dal suo passato). Stupendo il modo in cui Pinter riesce a far emergere questi aspetti (1):

23. Interno. Serra
[…]
Charles In questo caso… avrai pietà di un vecchio scienziato intrattabile che ti ha molto cara… e mi sposerai?
Ernestina (scoppia in lacrime)  Oh Charles! Ho atteso così a lungo questo momento.
Charles le prende le mani.

24. Interno. Cucina.
Sam Il signore è a letto.

25. Interno. Stanza da letto dei Ernestina.
La signora Tranter che osserva, deliziata, la mano alla bocca.

26. Interno. Serra.
Charles (di sotto un ramo sovrastante)  Non è vischio ma andrà bene ugualmente.
Ernestina Oh Charles…
Si baciano castamente…

27. Stanza d’albergo. Mattino presto. La nostra epoca. 1979.
Penombra. Un uomo e una donna a letto addormentati. È subito chiaro che sono l’uomo e la donna ch impersonano Charles e Sarah, ma non si percepisce immediatamente che non si tratta del presente. Suona il telefono.
Mike (si gira solleva il microtelefono) Si? (pausa) Chi parla? Sì, è così (pausa). Glielo dirò. (Riaggancia il microtelefono, accende la luce, sveglia Anna). Anna.
Anna  Mmmn?
Mike  Sei in ritardo. Ti stanno aspettando
Anna  Oh cielo! (Si mette a sedere) Che è successo con la sveglia telefonica?
Mike  Non lo so.
Anna (sbadigliando) Chi ha chiamato?
Mike Jack.
Anna (lo guarda) E tu hai risposto?
Mike Sì.
Anna Ma allora… sapranno che sei in camera mia, lo sapranno tutti.
Mike. Nel tuo letto. (La bacia). Voglio che lo sappiano.
Anna Cristo, guarda l’ora. (Lui la trattiene). Mi licenzieranno per immoralità. (Lui l’abbraccia). Penseranno che sono una puttana.
Mike Lo sei.


Il legame che nasce e si sviluppa tra Charles e Sarah riesce sempre più a fare breccia nel rapporto del 1979 tra i due attori Anna e Mike:


72. Esterno. La sottoscogliera.
Sarah che cammina.
Charles che la segue. La raggiunge.
Charles Signora! (Sarah si ferma, si volta verso di lui. Lui sorride) Mi spiace molto avervi disturbata poco fa. (Lei china il  capo, prosegue. Lui procede con lei) Mi par di capire che siete da poco diventata… segretaria della signora Poulteney. Posso accompagnarvi. Giacché andiamo nella stessa direzione?
Sarah (si ferma) Preferisco camminare da sola.
Sostano
Charles Permettete che mi presenti.
Sarah So chi siete.
Charles Ah… allora.
Sarah Vi prego permettetemi di proseguire per la mia strada da sola. (Pausa). E vi prego non dite a nessuno di avermi vista qui.
Lei si incammina.
Lui immobile, guardandola allontanarsi.

73. Interno. Roulotte. Al giorno d’oggi. Giorno.
Anna nella sua roulotte. Bussano alla porta.
Anna Ciao!
Mike (entra) Posso presentarmi?
Anna So chi sei.
Sorridono. Lui chiude la porta.
Mike Dunque preferisci camminare da sola?
Anna Io? Io no. Lei.
Mike Mi è piaciuta la cosa.
Anna Che cosa?
Mike Il nostro scambio. Laggiù.
Anna Davvero? Non so mai…
Mike Cosa non sai mai?
Anna Se va bene o no.
Mike Senti. Mi trovi?...
Anna Che cosa?
Mike Simpatico.
Anna Mmn. Indubbiamente.
Mike Non intendo me. Intendo lui.
Anna Indubbiamente.
Mike Ma preferisci tuttora camminare da sola?
Anna Chi? Io… o lei?
Mike Lei. La compagnia ti piace. (Le accarezza il collo). Non è così?
Anna (sorridendo). Non sempre. Talvolta preferisco camminare da sola.
Mike Dimmi, quando hai detto così – là fuori  - hai fatto vibrare la gonna – molto provocante. L’hai inteso veramente?
Anna Beh, ha funzionato. Non è cosi?
Il volto del terzo assistente alla regia sulla porta.
Terzo assistente. Si ricomincia.


Fin quando i due personaggi sovrastano “occupando” la stessa prova degli attori:


102. Esterno. Giorno. Spiaggia. Ai giorni nostri.
Mike ed Anna sdraiati l’uno accanto all’altra. Lei ha gli occhi chiusi. Lui la guarda.
Al di sopra di loro, le voci di Sarah e Charles.
Sarah (voce fuori campo)  Varguennes guarì. Mi chiese di tornare con lui in Francia. Mi offrì…
Charles (voce fuori campo) Di sposarvi?
Anna apre gli occhi e guarda Mike.


Ormai per anche per Anna la “sua” realtà è diventata irreale.


165. Interno. Bar a Londra. Ai giorni nostri
Anna Come stai. Come va?
Mike Bene. È terribilmente dura. Sono sfinito. Morivo dalla voglia di te.
Anna Mmmn.
Mike Come è andata? Hai trascorso delle ore piacevoli?
Anna Non lo so… è tutto così irreale…
Mike Che vuoi dire?
Anna Il mondo non è reale… qui.
Mike E il tuo amico? Non è reale lui?
Anna Sento la mancanza di Sarah. Non vedo l’ora d’essere di nuovo là. Non vedo l’ora di essere a Exeter.
Mike Tu sai cosa accadrà a Exeter? A Exeter ti avrò.
Anna Davvero?
Mike Sì. (Sorride). Davvero.

1) Harold Pinter La donna del tenente francese, Einaudi, Torino, 2005 (tutti i brani riportati sono stati ripresi dal sopra citato volume)

29 agosto 2012

Proust. Una sceneggiatura (Harold Pinter, 1977): 2/3 Pinter, la sceneggiatura

Vecchi tempi è già la sceneggiatura di un film e non c’è da meravigliarsi perché Pinter è stato anche un grande sceneggiatore e molti screenplay portano la sua firma (il servo, L’incidente, Messaggio d’amore, La donna del tenente francese, Sleuth –  Gli insospettabili). Ho trovato molto interessante rileggere nello stesso giorno  Vecchi tempi e la sceneggiatura sulla Recherche scritta da Pinter per un film di Joseph Losey mai realizzato. Quel passato “riformato” dal ricordo (o addirittura inventato o accomodato per giungere a un’epifania che illumini tutta la massa informe di dati) lega a modo con la capacità del cinema di comunicare un senso compiuto da una giustapposizione parcellizzata di sequenze e quadri di per sé informi, incoerenti. Così come il ricordo serve a dare un senso al passato (senza la ricostruzione della memoria sarebbe un mondo vuoto), il cinema si adopra per conferire l’illusione di un organismo unitario dalla giustapposizione di dati incompleti e pieni di buchi (ellissi, campi e piani).  La falsità dell’evento è palese, eppure l’arte (il cinema) agisce profondamente come la memoria involontaria, deve cogliere quel movimento “intermittente” diretto “verso la rivelazione” da veder crescere “verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato per sempre nell’arte” (1). Questo movimento intermittente deve contrastare con un altro principio primario, un “movimento, essenzialmente narrativo, verso la disillusione” (2). Questi i propositi di Pinter per ridurre quella mole infinita di descrizioni, storie, riflessioni, illuminazioni qual è “La Recherche” (3). Confesso di aver compreso meglio il senso di Vecchi tempi dopo aver letto la riduzione scritta per il lungometraggio di Losey. Se si legge Vecchi tempi come una sceneggiatura risulta chiaro il motivo per cui Pinter abbia contestato con tutte le sue forze l’operazione portata avanti da Visconti nel 1976. Il lavoro del drammaturgo inglese si compone e ricompone andando a formare un plot uniforme solo se si accetta l’ incertezza dei dati, l’impalpabile leggerezza degli eventi che non devono essere recepiti come dati dominanti (non sono interessato alle gambe di Anna che si baciano sul divano oppure a “rivedere” la biancheria intima di Kate indossata anche da Anna), ma presi come componenti del mondo, tali e quali a dati sibillini che l’arte recupera per fissare come testo simbolo al fine di definire nuove reminiscenze (il lettore che si immedesima e/o ricostruisce tutto un suo mondo più o meno reale, più o meno immaginario). Questa passione cara a Pinter non poteva che animarlo e indurlo a leggere tutta la Recherche per ridurre l’opera di Proust in una sceneggiatura di poche pagine, un lavoro immane durato un anno, tanto appassionante da indurlo a scrivere: “L’anno in cui ho lavorato Alla ricerca del tempo perduto è stato il miglior anno di lavoro della mia vita” (4). Leggendo  Proust. Una sceneggiatura si rimane affascinati dai continui salti temporali che vanno dall’infanzia di Marcel al 1921, quando il narratore della Recherche è ormai più che quarantenne. Questo modo di procedere che ci mostra Marcel bambino, poi adulto, poi adolescente, e così via, era forse il modo migliore per affrontare un’opera immensa e sicuramente molto complessa da trasformare in un film. La sceneggiatura è molto frammentata e di non facile comprensione per chi non conosca la Recherche, ma al tempo stesso originale base di lancio per un film che avrebbe dovuto portare il peso scomodo di rappresentare un’opera di tali proporzioni. Ritengo che Pinter abbia deciso di “affidare” un ruolo preponderante alle continue e numerose analessi e prolessi, trasportando il lettore in un viaggio che definirei ipertestuale. La fabula (inquadrature viste in ordine logico e cronologico) non è ordinata cronologicamente (mi si scusi la tautologia)  ma è senz’altro organizzata con coerenza dal punto di vista della “disillusione”; la tensione drammatica raggiunge la punta massima via via che il cammino di conoscenza di Marcel diventa pressante e non importa se questo avviene nell’adolescenza o in piena maturità. Ciò che importa è che il “ricordo” (il soggetto dell’opera insieme al Tempo) segua il suo percorso di accrescimento evidenziando la sensazione di un vuoto totale per cui il tempo perduto per sempre e irrecuperabile non viene comunque smarrito ma rivelato. Ebbene, come afferma Pinter, è l’intermittenza di questo movimento ad approdare alla rivelazione, alla conoscenza del tempo perduto “ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Sarebbe stato interessante notare gli sviluppi di questa idea nelle immagini in movimento, se fosse stato possibile realizzare il film. Certamente poi Losey avrebbe imposto il suo ruolo di regista individuando nella sceneggiatura pinteriana le riprese da effettuare, le inquadrature, i campi ecc, ossia costruendo il suo découpage. Ma comunque, anche se l’opera non è stata realizzata, rimane questo lavoro che lascia ammirati per la chiarezza e la semplicità con cui è stata ridotta la saga dei vari Guermantes, Swann e Verdurin. Questa “uscita dal tempo” (il profumo delle madeleine, il pavimento irregolare, il rumore causato da un cucchiaio posato sul piatto), questa sensazione di tempo ritrovato e fissato dall’arte per sempre accomuna i due lavori di Pinter: emerge pertanto l’idea che il ricordo frammentario restituisca in un’epifania improvvisa il sapore di un tempo passato ritrovato nel presente, formando una sorta di limbo extratemporale. A questo proposito risulta illuminante la sequenza della morte di Albertine. Nel romanzo Marcel, tornato a Parigi con Albertine per aver saputo dei rapporti omosessuali della sua amata con la signorina Vinteuil (Sodoma e Gomorra), diventa preda della gelosia e accusa la ragazza di avere avuto relazioni omosessuali impedendole di uscire di casa. Albertine, non sopportando più la reclusione, abbandona Marcel (La prigioniera), ma fuggendo muore in un incidente a cavallo (La fuggitiva). Ecco una sintesi di come Pinter ha trascritto l’evento nella sua sceneggiatura:

290. Interno. Scale.
Marcel Sale le scale con i fiori. Alza lo sguardo. Andrée esce dalla porta dell’appartamento.
Marcel Come, già di ritorno?
Andrée Siamo appena arrivate. Albertine voleva scrivere una lettera, e così l’ho lasciata sola.
Marcel Una lettera? A chi?
Andrée A sua zia
Marcel Peccato che abbiate chiuso la porta. Ho dimenticato la mia chiave. Françoise è in casa?
André È andata a fare la spesa. È lillà, vero?
Marcel Sì.
Andrée Albertine detesta il lillà. Per via del profumo. Troppo forte.
Marcel Davvero? Non lo sapevo.
Andrée Il profumo è opprimente. Beh, arrivederci.
Scende le scale
Marcel suona il campanello.
La porta è aperta immediatamente, da Albertine.
L’ingresso è buio.
Albertine Lillà! Oh! (Fugge nell’ingresso).
Marcel Li porterò in cucina
[…]
292. Interno. Camera da letto di Marcel
Albertine è sdraiata sul letto.
Marcel Scusami. Non sapevo che detestassi i lillà.
Albertine È il profumo, nient’altro. È troppo forte. Probabilmente ti è rimasto addosso. Non avvicinarti troppo, finché non è svanito.
[…]
294. Interno. Camera di Albertine. Notte.
Albertine sta dormendo, mormorando.
Marcel, accanto a lei, cerca di captare le sue parole.
Albertine Oh, cara!
Marcel si acciglia.
[…]
301. Interno. Il corridoio. Notte
Il corridoio è buio.
La porta di Marcel si apre. Egli esce e risale il corridoio dirigendosi verso la porta della camera di Albertine. Rimane immobile, in ascolto.
Silenzio
304. Interno. Stanza di Marcel. Sera.
Marcel Andrée.
Voce di Andrée Oh! Salve.
Marcel Tu e Albertine dovete andare dai Verdurin domani pomeriggio?
Andrée Esatto.
Marcel Perché?
Andrée Perché?
Marcel Perché Albertine ci vuole andare?
Andrée La signora Verdurin ci ha invitate per il tè. Nient’altro. Una cosa assolutamente innocente.
Marcel Sei sicura che…
[…]
Andrée Pronto?
Marcel Sì… sì… scusami… (Françoise esce). Sei sicura che non ci sia qualcuno che desidera incontrare?
Andrée Non saprei davvero chi.
Marcel Potrei venire con voi.
Pausa
Andrée Ah.
[…]
338 Interno. Salottino. Notte.
[…]
Marcel Sapevi che questo pomeriggio dai Verdurin doveva esserci anche la signorina Vinteuil, vero?
Albertine Oh, quante domande! (Alza le spalle) Sì, lo sapevo.
Marcel Puoi giurarmi che non volevi andarci per rinnovare la tua relazione con lei?
Albertine Non ho mai avuto nessuna relazione con lei.
Marcel Puoi giurarmi che il piacere di rivederla non aveva niente a che fare col tuo desiderio di andarci?
Albertine No, questo non posso giurarlo. Mi avrebbe fatto molto piacere rivederla.
[…]
Marcel Sciocchezze. Io ho denaro. Se vuoi, puoi dare una festa in onore dei Verdurin, per esempio, in qualunque momento tu lo desideri.
Albertine Oh Dio! Grazie tante. Una festa per quelle barbe! (Mormora rapidamente) Preferirei che mi lasciassi in pace per una volta tanto, in modo da poter andarmene a farmi… (Si ferma di colpo).
Marcel Che cosa hai detto?
Albertine Niente… I Verdurin… la festa.
Marcel No. Stavi dicendo qualcos’altro. Ti sei fermata. Perché ti sei fermata?
[…]
Marcel Non ho capito cosa stavi dicendo. Non ho afferrato esattamente le tue parole. Volevi farti…
Albertine Oh, lasciami stare, ti prego!
[…]
341 Interno. Camera da letto di Albertine.
Si sta specchiando.
Entra Marcel.
Marcel Albertine, credo che dovremmo separarci. Voglio che te ne vada, domattina presto.
Albertine Domattina?
Marcel Siamo stati felici. Ora non lo siamo più. È semplicissimo.
Albertine Io non sono infelice.
Marcel Non cercarmi più. È meglio.
Albertine Tu sei l’unico che mi stia a cuore.
Marcel Ho sempre desiderato andare a Venezia. Ora ci andrò. Da solo. (Silenzio). Quante volte mi hai mentito?
[…]
Marcel Dove andrai?
Albertine Non lo so. Ci devo pensare. Tornerò da mia zia. Suppongo.
Marcel Vuoi che… tentiamo ancora… per qualche settimana?
Albertine Sì.
Marcel Qualche altra settimana.
Albertine Sì credo che dovremmo.

Una serie di sequenze molto frammentate in cui crescono in Marcel la gelosia e il sospetto di essere tradito da Albertine con una donna, in particolare con la signorina Vinteuil. Poi il momento più drammatico con climax: un frammento che s’incastona agli altri frammenti dipingendo un quadro unitario di sensazioni e sapori, la fuga di Albertine…

342. Interno. Camera da letto di Marcel
Marcel solo nella sua camera, seduto immobile.
Improvvisamente dalla stanza di Albertine il rumore di una finestra aperta violentemente.
Egli riguarda attorno, rapidamente.
343. Interno. Corridoio. Notte.
(Stessa inquadratura del n. 301)
Corridoio buio. La porta di Marcel si apre. Egli avanza nel corridoio. Si ferma fuori dalla stanza di Albertine, e ascolta.
Silenzio.
344.Interno.camera da letto di Marcel. Mattino.
Marcel a letto. Entra Françoise.
Françoise Non sapevo cosa fare . la signorina Albertine mi ha chiesto i suoi bauli – stamattina alle sette. Lei dormiva. Non volevo svegliarla. Lei dice che non devo mai svegliarla. Ha fatto i bauli. Se n’è andata.
Marcel la guarda.
Marcel Hai fatto bene a non svegliarmi.
345. Occhi di Marcel.
346. Gli occhi di Gilberte a Tansonville
347. Gli occhi della Duchessa di Guermantes, per la strada.
348. Gli occhi di Odette nel viale delle Acacie.
349. Gli occhi della Madre nella camera da letto a Combray.
350. Gli occhi di Marcel nel gabinetto a Combray.
351. Gli occhi di Marcel.

… e la sua morte…

352. Interno. Camera da letto di Marcel. Parigi 1902.
Françoise gli porge un telegramma
Marce lo apre, legge.
Lo lascia cadere.
Françoise lo raccoglie, lo legge.
Ha un sussulto, si porta la mano alla bocca.
Guarda Marcel.
Posa il telegramma sul tavolo e lentamente esce dalla stanza.
La macchina da presa indugia su Marcel che rimane immobile, col volto assente.
353. Esterno. Campagna. Giorno.
Un cavallo senza cavaliere si allontana al galoppo dalla macchina da presa.
La macchina da presa retrocede lentamente fino a suggerire l’idea di un corpo inerte di ragazza.
354. Interno. Appartamento di Marcel. L’ingresso. Giorno.
L’ingresso vuoto.
355. Interno. La sala da pranzo. Sera.
La sala da pranzo. Vuota.
356. Interno. Camera di Marcel. Notte.
Marcel seduto, col volto assente.
357. Interno, l’ingresso. Notte.
La porta della camera di Albertine. Socchiusa.
L’ingresso è vuoto.
Silenzio.
358. Interno. Camera di Marcel. Giorno.
Marcel seduto, col volto assente.
359. Primo piano. Andrée.
Voce di Marcel, fuori campo.
Marcel (voce fuori campo) Adesso che è morta… posso chiedertelo francamente… A te piacciono le donne, vero?
Andrée (Sorride) Sì. È vero.
360. Interno. Camera di Marcel. Due inquadrature. Giorno. 1902.
Marcel Conoscevi la signorina Vinteuil… bene, vero?
Andrée No, non lei, per la verità. La sua amica.
Pausa.
Marcel Sapevo da anni, ovviamente, le cose che facevi con Albertine.
Andrée Non ho mai fatto niente con Albertine.

Dall’inquadratura n. 345 alla n. 351 mi immagino un passato che affiora nel ricordo di un attimo. Una sensazione vivida che cristallizza nel presente assumendone l’aspetto, vestendosi di esso; un brivido che rievoca tutti gli abbandoni, tutte le fughe, le passioni, i litigi, i pianti e i rimpianti. Così la sofferenza che cresce nel vuoto di una stanza (da inquadratura 353 a 358) fino ad assumere proporzioni insopportabili con l’inquadratura della porta socchiusa della camera di Albertine. E mentre apprendiamo dalle didascalie che l’ingresso è vuoto, la sala da pranzo è vuota (vedo già le puntuali riprese di Losey) non ci è permesso di vedere la camera da letto (vuota) di Albertine, come se Albertine sia appena uscita o sia ancora in camera, un’Albertine dei tempi andati che abbiamo già visto e che adesso una sensazione forte, quasi amara, fa riemergere dal tempo ritrovato in un pensiero, in un oggetto, qui in una porta socchiusa.
Poi il ricordo, il racconto del passato, contraddittorio, quel passato della memoria volontaria con le situazioni ambigue, impalpabili, la disillusione; racconto che ricorda tanto alcuni passi di Vecchi tempi:

361. Interno. Stanza di Marcel notte.
Marcel e Andrée siedono in punti diversi della stanza. Andrée indossa un abito diverso.
Marcel Provo una grande attrazione per te. Forse per via delle cose che hai fatto con Albertine. Voglio quello che ha avuto lei.
Andrée. È impossibile. Tu sei un uomo (Pausa). Era così passionale. Ricordi quel giorno che perdesti la chiave, quando portasti a casa i lillà? Ci avevi quasi sorprese. Era molto pericoloso, sapevamo che potevi rientrare da un momento all’altro, ma lei ne aveva bisogno, a tutti i costi. Ricordi, feci finta che lei non sopportasse il profumo dei lillà. Lei era dietro la porta. Disse la stessa cosa per tenerti lontano da lei, perché tu non potessi avvertire il mio odore su di lei.

Il rispetto degli eventi descritti da Proust limita in parte l’enucleazione della poetica pinteriana così come in Vecchi tempi (5), ove l’ambiguità del passato è ancora più eclatante e il tempo ritrovato, fissato nella scrittura, restituisce il senso profondo di una vita sempre più liquida:

ATTO I
[…]
Deeley Non sapevo che tu avessi così pochi amici.
Kate Nessuno. Neppure uno. Tranne lei.
Deeley. Perché lei?
Kate Non lo so (Pausa). Era una ladra. Aveva l’abitudine di rubare.
Deeley A chi?
Kate A me.
Deeley Che cosa rubava?
Kate Un po’ di tutto. Biancheria intima.
[…]
ATTO II
[..]
Anna Mi ero messa della sua biancheria intima, per andare ad una festa. Più tardi quella notte glielo confessai. Era stato sconveniente da parte mia. Lei sgranò gli occhi su di me, sconcertata, è la parola. Ma aggiunsi che ero stata punita del mio peccato perché un uomo alla festa non aveva fatto altro che guardarmi sotto la gonna tutta la sera.
[…]
Deeley Guardava sotto la sua gonna, nella biancheria intima di lei. Mmmnn.
Anna Ma da quella notte ogni tanto insisteva perché usassi la sua biancheria – lei ne aveva molta più di me e tanto più varia – ed ogni volta che me lo proponeva arrossiva, ma continuava a propormelo, nonostante tutto.


(1) Harold Pinter “Proust. Una sceneggiatura. Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino, 2005 P.185 (tutti i brani riportati sono stati ripresi dal sopra citato volume)
(2) Ibid.
(3) Riporto la frase ripresa pari pari dal testo di Pinter: “Decidemmo che l’architettura del film dovesse basarsi su due principi primari e contrastanti: uno,un movimento,essenzialmente narrativo, verso la disillusione, e l’altro, più intermittente,verso la rivelazione,che crescesse verso un punto in cui il tempo perduto è ritrovato e fissato per sempre nell’arte”. Ibid.
(4) Ivi, p. 186
(5) Tutte le citazioni sono tratte da: Harold Pinter, Vecchi tempi, Einaudi, Torino 1976(3)