29 dicembre 2011

Midnight in Paris (WoodyAllen, 2011)

Poter incontrare e discutere con alcuni artisti che hanno forgiato la pittura e la letteratura del novecento è un sogno che un po’ tutti noi vorremmo veder realizzato.  Questa fortuna capita a Gil in una Parigi anni venti vista con gli occhi del sognatore ancor prima di essere ricostruita utilizzando elementi concreti dell’epoca. I luoghi che visitiamo attraverso gli occhi di Woody Allen risultano così l’aspetto esteriore e interiore di un sogno poetico in cui presentare i più grandi artisti che frequentarono la Parigi dei mitici anni venti, gli anni della definitiva consacrazione dell’âge d'or . Vediamo quindi i “miti” della letteratura americana (Fitzgerald, Hemingway) e della pittura europea (Picasso, Dalì) nonché del cinema franco-spagnolo (Buñuel). Per Gil il sogno si concretizza nel frequentare i salotti di una Parigi mitica e nel riuscire a fare leggere il proprio romanzo a Gertrude Stein. Mentre la realtà ci circonda con pedanteria (Paul) e routine (Inez) e il mondo non ha più tempo per soffermarsi sotto la pioggia di Parigi, nel “sogno” a occhi aperti la “realtà artistica di un passato glorioso” gratifica le speranze facendo desiderare all’artista moderno un’immersione totale in un tempo ormai andato. Mentre il presente produce noia a causa della totale mancanza di controllo che abbiamo su di esso, il passato, ormai codificato e relegato su libri e audiovisivi, studiato e osannato, risulta talmente condizionato dai nostri sensi da risultare “abitabile”. Il suo fascino poi deriva dall’idea di conoscerne ogni minimo aspetto illudendoci di poterlo regolare solo per il fatto di conoscerne gli sviluppi futuri. Ma l’età dell’oro è un frutto bunueliano di atrocità e impossibilità. Quando Gil descrive la “nuova” sceneggiatura a Buñuel, non fa che affermare il gioco mentale di un probabile visitatore dal futuro in grado di conoscere il film che trenta’anni dopo il grande maestro del cinema girerà. La trama dell’Angelo sterminatore non ha un senso per molti e nel contesto dell’âge d'or non lo ha  neppure per Buñuel che basito continua a domandare a Gil quale sia il motivo per cui nessuno riesce a uscire dalla casa senza che vi siano ostacoli apparenti a impedirlo. Non potremo mai sapere se questo diverso Buñuel avesse già nella sua mente (ma secondo me sì) una villa di borghesi incapaci di uscire fuori dopo una cena.  Questa forse (oltre ai rinoceronti di Dalì) è la migliore citazione del film in quanto “riduce” in uno sketch l’angoscia per un futuro (il presente di Gil) che non riesce a connettersi con un passato solo apparentemente sperimentato. Buñuel non può conoscere i motivi che inducono i suoi futuri personaggi a rimanere reclusi nella casa perché è solo un Buñuel immaginario. Il sogno di Woody Allen pertanto risulta gradevole e interessante anche se presenta alcuni limiti che per brevità mi limito a individuare in due sbrigativi approcci.
Gradevolezza dello spazio. Le immagini di una Parigi coloratissima del lungo incipit indugiano sulla bellezza della città “attuale” mostrando e anticipando la meraviglia di Gil, scrittore americano giunto nella ville lumière da turista ma poi interessato ad assorbirne l’arte e la poesia. Prendo per buona la teoria che l’incipit sia soprattutto un’immagine mentale di Gil, un’insistenza nel rimarcare la plasticità della città romantica per antonomasia. Eppure, nonostante la Parigi attuale sia la solita pedante, bellissima città che conosciamo, lo spazio aumenta la sua gradevolezza nei locali e nelle case di una Parigi che fu. Le immagini di questa Parigi storico-mentale perdono colore per assumere la fumosità di un passato glorioso: i bar, i ritrovi, la festa da ballo risultano intensi e interessanti, diventando ancora più pregnanti, forse perché passeggiare col pedante Paul, che spiega l’arte nei musei come la mia insegnante di storia dell’Arte me la spiegava al liceo, diventa una tortura insopportabile. La noia è tutta qui. Nonostante la luce, i riflessi, i colori pastello, la densità dei quadri, il mondo attuale è noioso e faticoso. Lo spazio pertanto, pur riducendosi nel passato dei Caffè e dei Salotti mondani, ha bisogno del tempo per acquisire il suo fascino. La bellezza di questi locali è il  tempo stesso che si presenta in primo piano portandoci un elenco di artisti formidabili. Purtroppo questi due “spazi” risultano troppo separati. Gil li attraversa con semplicità come si attraversa il giorno e la notte, ma sarebbe stato interesante vederli affiorare uno dentro l’altro come proiezioni dirette del personaggio, come passaggi tra mondi (esterno vs interno) strettamente intrecciati l’uno nell’altro.
Debolezza del tempo.  Il tempo potrebbe pertanto prendere il sopravvento e occupare intere sequenze trascinandoci fino all’epilogo. Quando ho visto Hemingway apparire davanti allo sguardo dell’incredulo Gil e ho visto la storia d’amore che stava per nascere tra Adriana e Gil, le mie aspettative sono aumentate. Mi sembrava di trovarmi nuovamente ai tempi della Rosa purpurea del Cairo o di Zelig. Una trasformazione spazio-temporale in atto, come uscire dai confini del corpo e assistere alla nascita di un pensiero. Purtroppo così non è stato e il film si è lentamente sgonfiato trascinandosi appresso anche quello che poteva essere un incipit diverso. Tanto per chiarire: le mie aspettative subito dopo l’incipit erano molto basse (immagini-cartolina) poi invece sono salite (la sequenza come spazio mentale di Gil turista in cerca di emozioni artistiche) poi nuovamente si sono sgonfiate (la sequenza troppo pedante se non sorretta da un epilogo altrettanto luminoso). In altri termini le sequenze finali hanno in parte ridotto il film che rimane sempre un ottimo lavoro per almeno due motivi: Amnesia temporale e Gli anni d’oro del cinema.
La passione di Gil per Adriana lo tiene aggrappato al tempo, se l’amore non segue spazio e tempo (e per esso siamo disposti a camminare sotto la pioggia) la Belle Époque di Adriana potrebbe essere un rifugio appropriato. La fiducia nel progresso e la sensazione di avere il mondo fra le dita, la certezza che la scienza possa spiegare ogni cosa e l’arte penetrare nei labirinti delle coscienze appartengono al mondo sognato da Adriana. Wody Allen invece lascia uscire dal magma temporale un Gil consapevole di rientrare nella sua epoca abbandonando l’amore. Si direbbe quindi un’infatuazione per Adriana e per gli anni venti. Ognuno deve vivere il proprio tempo: è vero. Ma trascorrendo la vita con Adriana nella Belle Époque e annoiandosi in essa il  tempo avrebbe definitivamente annichilito lo spazio e l’incipit pastello di una Parigi da turisti avrebbe acquistato maggiore senso. Dopo tutto Adriana (se mi è permesso identificarla nell’amante italiana di Ernest Hemingway: Adriana Ivancich nata nel 1930 e morta suicida nel 1983) si trova già fuori dal suo tempo. Gli anni venti non le appartengono almeno che non si intenda identificarla nelle tante donne amate da questi straordinari artisti. Potrebbe essere Ol'ga Chochlova, Marie-Thérèse Walter, Jeanne Hébuterne o Gala. Per questo la sintonia tra i due (Gil e Adriana) diventa un collante che li unisce: entrambi sono profughi temporali, sono artisti estromessi dal proprio tempo in cerca di un’altra epoca o di tante storie diverse. Semmai li divide la scelta di un tempo. Non basta infatti evidenziare il proprio disappunto ma bisogna pure esternare la scelta come momento fondamentale di un cambiamento. La Belle Époque non è né migliore né peggiore dell’âge d'or (la prima sfociò nella prima guerra mondiale, la seconda nella grande depressione). In cosa sfocerà questa epoca attuale? Sufficiente una passeggiata con un’altra anima gemella (forse spaziale e non temporale) per “ordinare” il plot?   L’epilogo sotto la pioggia ri-spazializza il film lasciandosi sfuggire la forza di gravità di un tempo ripiegato su se stesso, di un passato troppo spesso dimenticato utile per afferrare il senso profondo di una società alla deriva.


3 dicembre 2011

A Dangerous Method (David Cronenberg, 2011)

Decidere di girare un film sulle relazioni professionali, di amicizia e amorose che coinvolga i padri fondatori della psic(o)analisi significa, oltre al coraggio di affrontare un argomento molto complesso, andare alle radici della psiche umana per (ri)formare i propri mostri già espressi e analizzati compiutamente lungo una filmografia notevole. Cronenberg ci ha abituati a un cinema di grande qualità e il suo percorso sembra avere preso una strada che tenta di “domare” e dissezionare quelle escrescenze carnose dei suoi precedenti film, quei mostri cresciuti nel corpo a dismisura fino a uscirne. Il suo percorso, la sua ricerca, la sua voglia di conoscere la carnalità dell’uomo si innesta nel profondo dell’animo, nel centro nevralgico che libera la pulsione di morte e di sesso già mostrate in film come Videodrome, La mosca, Il pasto nudo. Il pensiero junghiano sospinge l’ispirazione di ogni comportamento umano fino a confessare l’autonomia della coscienza come contenitore di forme primordiali (Archetipi) prendendo le distanze dalla teoria di Freud per cui l’inconscio è contenitore di esperienze e ricordi rimossi inconsciamente. Il film in effetti si sofferma appena sulle discussioni tra i due maestri e indugia più sul rapporto tra lo stesso Jung e  la Spieltrein, sulla loro relazione adultera ma anche freudianamente compulsiva, mentre viene mostrato junghianamente un momento di crescita, di conoscenza e di creatività. Con questo non intendo entrare nel merito della moralità o immoralità del “tradimento” ma cercare di capire il punto di vista di Cronenberg  che sembra seguire l’eco delle teorie junghiane per cui la “perversione” inconscia, segno di pulsione relegata e imprigionata nell’inconscio dalla coscienza (Freud), diventa un simbolo ossia un percorso per comporre e conoscere ulteriori creazioni della psiche. Quando Cronenberg  si sofferma a mostrare Jung intento a frustare  Sabina non vuole esibire la perversione, ma la nascita di un nuovo concetto (Sabina Spielrein contribuì alla scoperta della “pulsione di morte”) e quindi a enucleare la dinamicità e l’evoluzione della psicanalisi scevra da ogni determinazione concettuale. Nel fare questo ritengo che Cronenberg  non sia tanto interessato a porre in risalto il dibattito in corso in quegli anni tra i due padri della psicanalisi, quanto a mettere alla prova l’inconscio inteso come linguaggio, seguendo in questo la teoria lacaniana del linguaggio come momento traumatizzante del soggetto. In altri termini l’inconscio è un contenitore di significanti che si riferiscono a dei significati labili, incerti, imprecisi. In questo senso è illuminante (seppure personalmente avrei preferito un altro modo di interpretare Sabina) l’esteriorizzazione della malattia di Sabina che decide di farsi curare da Jung, suo medico-amante e anche insegnante “linguistico”, il quale l’avvia allo studio della medicina per cui diventerà essa stessa medico e psichiatra, partecipando al dibattito sul ruolo della psicanalisi. Per questo il film di Cronenberg assume sequenza dopo sequenza connotazioni lacaniane, per il fatto che il linguaggio dell’inconscio, da metafora di pulsioni anche sessuali derivate da un trauma,  diventa metonimia di una conoscenza, struttura fondante di un’apertura verso nuove frontiere della ricerca. Appunto le sequenze “scandalose” (il lenzuolo insanguinato, la ferita inflitta da Sabina sul volto di Jung e la scena sadomaso) trasformano la metafora junghiana (miti e archetipi) in una metonimia lacaniana, nel senso che  ad esempio il farsi frustare non è metafora di perversione o creatività psichica, ma indice di un linguaggio inconscio che non riesce a stabilizzarsi se non tramite uno spostamento, per cui gli effetti (il sangue oppure Sabina che sembra godere dopo ogni frustata) sono essi stessi cause. Frustare Sabina può anche voler dire: il linguaggio,  significante inconscio “codificato” in immagine (culo di Sabina, frusta) invade un significato a livello conscio (depravazione) prendendo il sopravvento al fine di definire una forma di movimenti e riprese ormai assestatisi su un piano apparentemente classico (se paragonati alla filmografia precedente di Cronenberg), forse meno entusiasmanti ma si spera forieri di uno slancio ulteriore verso un cinema che  prosegua la trasformazione visiva delle pulsioni inconsce (anche quelle più pericolose e deviate) in espressioni linguistiche innovative (immagini, piani, strutture) di un cinema da venire. Non a caso la scrittura occupa un posto rilevante del film. I “mostri” di Cronenberg si sono col tempo trasformati diventando parte di noi, il nostro stesso linguaggio, l’incapacità di rivelazione ulteriore di cui abbiamo sempre bisogno ma che non riusciamo mai a esprimere: una conoscenza senza approdo.