22 novembre 2011

This Must Be the Place (Paolo Sorrentino, 2011)

Metafore, metonimie e sineddochi. L’eroe percorre un’America confinata a una distanza di sicurezza nella sua intermittenza di personaggi brevemente abbozzati ma intensi che avrebbe potuto anche incontrare durante una passeggiata a Dublino come Leopold Bloom dell’Ulisse di Joyce, limitandosi a testare il suo disagio di bambino ancora bisognoso di giocattoli e verità. In sintesi: sapere di essere invecchiato. Il taglio dei capelli dell’epilogo mi sembra più che altro una castrazione, un cliché (per fortuna anestetizzato dal talento di Sorrentino) per cui l’iter formativo dell’eroe deve sempre risolversi in una crescita (e la crescita forse è l’acquisita consapevolezza della scoperta di un mondo di personaggi con problemi e paure da affrontare proprio come capita a lui). Il percorso seguito è la ricerca di un mondo interiore proiettato sugli altri per scoprire che l’altro è anche un po’ come ce lo immaginiamo. Cheyenne non si taglia i capelli per mostrare un nuovo look, perché la metafora impone un risultato iconico di grande effetto. L’arrivo a casa, quando per un attimo la madre di Mary si illude di vedere il ritorno del figlio (o volendo, sempre metaforicamente, figlio e madre si ricongiungono), corrisponde all’affermazione di un cambiamento. Eppure quel taglio, sintesi di un tragitto che porta dal parrucchiere facendo prima un giro in lungo e in largo per l’America, poteva essere un epilogo di grande effetto se fosse stato trattato come una metonimia, se non addirittura una sineddoche (ad esempio capelli che cadono come parte del corpo di Cheyenne) senza mostrare il prevedibile riscontro di un esame sostenuto. Questo procedimento occupa molte sequenze del film (ad esempio il figlio di Rachel che entra nella piscina superando la sua fobia per l’acqua, la sigaretta che Cheyenne fuma all’aeroporto, il ritorno come uomo “normalizzato” che riesce a camminare senza la sua “terza gamba). Aspetti forse poco importanti ma questi “effetti modello” purtroppo nell’insieme lasciano un retrogusto da deja vu di tanto cinema americano di genere.


Tragedie e vendette. L’Olocausto non è cosa da poco. Affrontarlo è sempre stato un compito complesso e chi lo ha trattato nell’arte ha spesso corso il rischio di semplificare e banalizzare un dramma di proporzioni immani. Sorrentino ha senz’altro il merito di non averlo volgarizzato mantenendo un basso profilo, sostituendo alla morte l’umiliazione subita dal padre (farsela nei pantaloni) e alla vendetta sul carnefice un’altra umiliazione (il vecchio gerarca nudo sulla neve). Questo non vuol dire che il dramma sia sminuito, perché il padre è pur sempre stato in un lager, un luogo in cui gli internati trovavano la morte (le diapositive proiettate da Mordecai Midler sottolineano il rispetto per il dramma di un popolo) e ha dedicato la vita a cercare il suo aguzzino. Ho gradito molto questo “abbassamento” di livello che lega l’olocausto alla coscienza, emozionando lo spettatore con numerosi episodi minori e senz’altro insignificanti ma pur sempre piccoli drammi che inducono empatia con i sopravvissuti. Nonostante ciò la nudità di Lange, di un vecchio ormai al tramonto, debole, inutile, non sottolinea a sufficienza la sofferenza di un mondo, di un uomo, della carne che si decompone, dello stomaco che svanisce per assenza di cibo, dell’animo che si inaridisce per mancanza di amore. Forse una presenza-assenza del criminale nazista (nel senso di mostrarcelo da lontano o non mostrarcelo) o una sua “dichiarazione” (magari simile a quella dell’epilogo) attraverso le parole di Dorothy Shore (per me uno dei personaggi più belli del film), al fine di evidenziare una ricerca non concretizzata, avrebbe lasciato sospeso il senso amaro che evoca la vendetta. Magari tutti quei carrelli (della spesa), trolley e deambulatori (quello della vecchia accompagnata da Dorothy), simboli di una debolezza, di una frattura dell’anima che in qualche modo deve risanarsi, sarebbero potuti diventare metafore in costante crescita (gonfiarle fino a farle esplodere o svanire) come i leoni di Ėjzenštejn nella Corrazzata Potëmkin.

Concetto vs consenso? Pur essendo nell’insieme un lavoro di buona qualità ho avuto la sensazione di un film che ha sparato le frecce senza colpire il bersaglio o colpendolo in maniera marginale. Nel senso che, facendo un paragone improprio con l’arte concettuale, il confine tra l’innovazione del concetto e il suo graduale decadimento verso il consenso (il consenso è un valore legittimo ma non la sua artificiosa realizzazione) a volte si misura sui piccoli sintomi. Per spiegare il mio lieve disappunto voglio concludere con un esempio forse non pertinente ma che ritengo in grado di chiarire le mie annotazioni. Nel 2004 si tenne una mostra al Palazzo dei Diamanti di Ferrara su Raushenberg, un autore poliedrico, forse impropriamente collocabile nel movimento new dada ma anche a suo modo grande artista concettuale. Durante il percorso espositivo, camminando tra le sue opere combinatorie (Cardboards, Hoarfrosts, Jammers, Spreads, Scales, Gluts, ecc.), intrattenendomi in una sala di cardboards, rimasi incuriosito dal fatto che quasi tutti i visitatori si soffermavano davanti a un piccola scatola di cartone grezzo piegata e attaccata al muro, mentre ignoravano un’altra scatola dello stesso materiale molto più grande attaccata nelle vicinanze. Incuriosito mi soffermai a guardare i due lavori: il cardboard più grande era di normale cellulosa, un qualsiasi scatolone da imballaggio aperto, piegato su se stesso e incollato, mentre quello più piccolo era una perfetta riproduzione in terracotta di una scatola ripiegata e incollata. La curiosità dei visitatori era dovuta alla grande capacità dell’artista di ingannare l’occhio facendo credere vero ciò che invece era un falso. I visitatori preferivano dedicare il loro tempo più alla materia, alle capacità tecniche dell’artista, ossia alla copia, al falso, anziché alla “vera”, concreta, “vissuta” scatola di cartone. Nel caso specifico si perdeva l’idea del valore di quella scatola come oggetto semplice di uso quotidiano ma frutto del lavoro della manovalanza, prodotto uscito da una lunga catena produttiva: dal taglio del bosco, alla produzione di cellulosa, all’impasto della carta fino al prodotto finale. Quel cartone evitato e abbandonato sulla parete rappresentava in realtà l’affermazione dell’importanza dell’idea che prende il sopravvento sul risultato estetico e percettivo della stessa opera d’arte. A prescindere dal giudizio e dal gusto personale sul movimento in oggetto, ho voluto portare questo esempio per chiarire come il film di Sorrentino sia più vicino al piccolo cartone perfetto, curato, ma accostato a quello “reale” per catturare l’attenzione del pubblico. Niente in contrario ma io preferii soffermarmi molto più a lungo sul vile cartone prodotto dalle cartiere e sapientemente accostato dal grande Rauschenberg alla scultura che lo imitava.


10 commenti:

Babol ha detto...

Complimenti per l'analisi, assolutamente accurata!
Io l'ho trovato un film assai godibile, anche se a tratti un po' ingenuo e "semplicistico" forse. Comunque qualcosa che, purtroppo, nel cinema italiano moderno si vede troppo poco spesso.

Anonimo ha detto...

Bellissimo il paragone finale! Forse anche fin troppo calzante!

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Babol. Grazie per la visita, molto gentile^^ Certamente un film di buona qualità e, visto il panorama attuale del cinema italiano, da tenere in grande considerazione. Per me solo alcuni "difetti" e qualche appunto. Per il resto senz'altro un film godibile. Appena possibile conto di ricambiare la visita. Grazie ancora.

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Ti ringrazio però potrei definire il paragone come improprio. Ma mi sono ricordato di quel giorno a Ferrara (tra l'altro una bellissima giornata di sole) e delle emozioni provate al Palazzo dei Diamanti e avrei sperato in un "gioco" simile da parte di Sorrentino nel suo lavoro americano, gioco stimolante (quello di Rauschenberg) che qui non ho visto. Comunque sempre un film di qualità.

Christian ha detto...

Concordo con il tuo (lieve) disappunto. Nulla da dire sulla forma (come tecnica Sorrentino è forse il miglior regista italiano), ma come contenuti questo film non non sembra offrire molto di nuovo, o di particolarmente entusiasmante, rispetto a tanti altri film on the road visti negli ultimi decenni.

Luigi87 ha detto...

ottima analisi e condivisibile, in parte.
saluti

Luciano ha detto...

@Christian. Infatti. Una tecnica notevole ma il film tende purtroppo a imitare in parte (come giustamente mi fai osservare) tanti on the road americani. Peccato, secondo me con qualche "accorgimento" avrebbe potuto realizzare un grande film.

Luciano ha detto...

@Luigi87. Grazie Luigi. Un saluto^^

Alessandro G. Fuso ha detto...

Concordo con te!
Pur essendo un buon film, resta un'opera con grandi ambizioni che non riesce a centrare l'obiettivo.
Ho apprezzato di più l'originalità delle storie raccontate nei film precedenti di Sorrentino.

Ti aspetto sul mio nuovo blog.
A presto!

Luciano ha detto...

@Afush. Il film in effetti è di buona qualità, ma da Sorrentino mi sarei aspettato molto di più. Rimane ai limiti di un'America da luogo comune. Ma, ci tengo a sottolinearlo, resta comunque un film godibile.
Ho già linkato con piacere il tuo nuovo blog^^
A presto.