31 ottobre 2011

Melancholia (Lars Von Trier, 2011): 1/2 Justine

Sperimentare un percorso in una pittura che si apre mostrando immagini in movimento lento ma dinamico, spezzoni di storie, sensazioni, emozioni, visioni che vediamo nei musei o sui cataloghi da “sempre” (o quasi), è un’esperienza esaltante. Animare i dipinti, aprirli sull’universo cercando di sviluppare il simbolo in un senso conclusivo (per Trier forse assoluto) allo scopo di aprirsi al disturbo mentale e sociale in un mondo già colliso con Melancholia, sembra un fattore prioritario. Capire, subire, amare l’attimo dell’urto: quando è avvenuto, come ci si è arrivati. La vita mondana innanzitutto non è quella dell’incipit. Gli invitati che partecipano ai festeggiamenti di un classico matrimonio, i genitori della sposa, i parenti, i colleghi di lavoro non sono la mondanità. La vita esteriore, sociale, viene presto espulsa dal plot o il  paese in cui fuggire non è mostrato, le auto non partono, le gambe affondano nel terreno. L’incipit è come una fuga dal mondo e dai suoi drammi o meglio rappresenta la volontà di conoscere la malattia isolandola dal brusio della vita (certamente fondamentale ma in questo momento della ricerca, provvisoriamente trascurabile). Pertanto la catastrofe non è naturalistica. La prima parte del film è la storia di un mondo frantumato, è il dopo, e Justine non sopporta la mondanità artificiosa, l’inconcludenza degli altri, il cinismo della madre Gaby che equivale a una sconfitta. Meglio, molto meglio la goliardia di un padre “stupido” (Dexter) anch’esso però capace di fuggire. Ma ugualmente non c’è più una consistenza, una materia dura da curare o che possa rassicurarci. La vita fluida non lascia speranze. Justine non sopporta questo “male” imperante (che non è solo violenza ma anche ignavia e buonismo di circostanza). L’arte ha già raccontato il mondo, è arrivata a spiegare e motivare la frantumazione, adesso è una geometria delle forme astratte che offre allo sguardo i frantumi di un pianeta perduto. La pittura figurativa ha già raccontato il limite estremo dell’agire umano e la disperazione di una natura giunta al limite della sua performance. Il mondo non è cattivo. Malvagio è l’uso che ne viene fatto. E inoltre non possiamo razionalmente affermare di essere soli nel cosmo, ma possiamo razionalmente affermare di esserlo, nel senso che siamo comunque soli; ogni uomo è solo, soprattutto nell’attimo della morte. Mentre una volta almeno ogni cosa sembrava più chiara, c’era  un universo semplificato disteso ai nostri piedi, una natura creata per noi. La cattiveria della natura affermata da Justine alla sorella Claire è già stata espressa e mostrata dalla pittura figurativa che giunge fino ai preraffaelliti e al simbolismo: un pessimismo cosmico che conduce addirittura a Leopardi. Aprire quella pittura, mostrarla proprio perché racconta quello che eravamo prima del disastro quando ancora potevamo salvarci è l’obiettivo di Justine. De-formalizzare le nuove geometrie, assemblare i frammenti magari per accettare l’implosione o per ricordare il  fatto che una volta eravamo dentro la natura (Justine orina e fa sesso nel prato). Erano segnali da decifrare – immagini anticipate proprio come l’incipit al ralenti del film anticipa la storia che si dipanerà nei due tempi dedicati a Justine e a Claire – segni che raccontavano ancora di una società giunta sull’orlo della frantumazione. Quando Justine toglie dalla bacheca i volumi di arte astratta per sostituirli con libri di arte rinascimentale e dei preraffaelliti, non fa altro che evidenziare la scelta di un’epoca in cui era ancora possibile riformare il mondo.  L’astrattismo geometrico,  il suprematismo, il neoplasticismo, il cubismo vengono dopo lo scontro tra la Terra e Melancholia, sono il milieu di Claire non quello di Justine. La scienza può anche essere fallace, imparare dagli errori, ma l’urto con un astro non permette errori e lo sbaglio diventa assoluto. L’assoluto stesso offerto a Ophelia-Justine che galleggia sulle acque vestita da sposa o, nuda, mentre prende la tintarella di Melancholia. Il suo bagno d’acqua e di luce la impone come modella assoluta, ossia sciolta da ogni legame in quanto sposa, figlia, donna e soprattutto artista e quindi veggente che non deve contare i fagioli perché nel sogno sa quanti sono. Justine sostituisce la geometria con l’associazione libera di pensieri parole e azioni, col procedimento automatico dell’inconscio – il surrealismo – cercando di superare il principio dell’arte per l’arte. L’incipit pertanto diventa l’urlo disperato prima della fine, il rimpianto sereno per  un mondo al suo tramonto che ancora invia lampi romantici (i cavalli, il lago, la nebbia, il prato) e surreali (la villa e il parco sembrano usciti da un quadro di Magritte). La donna non si trova a suo agio in una società informale, geometrica, dove le regole fumose e illusorie cambiano in continuazione, universo in cui il potere decide e impone persino i valori etici o il significato dell’esperienza (il nuovo collega di Tim a cui è affidato il compito di seguire Justine solo per avere da lei uno slogan pubblicitario). Unico valore forse la melanconia che lascia ruggire l’inconscio e conduce al rigetto di un’apparenza geometrica, matematica (la natura, gli uomini sono numeri al servizio di un calcolo economico globale, la globalizzazione fagocita l’energia creativa). Scambiare i libri nella bacheca significa desiderare un tempo in cui l’arte illudeva ancora, significa risentire il lamento d’amore di Tristano e Isotta nella loro lunga notte wagneriana immersi in un'armonia ancestrale preludio di morte.

18 ottobre 2011

Drive (Nicolas Winding Refn, 2011)

Drive è l’altra parte dello specchio, il riflesso di tante trame stereotipate consegnateci da action movie con eroi solitari, duri ma “buoni” che amano le cose semplici, che sono diventati assassini malgrado loro e che “risolvono” sempre (o quasi) il caso. L’eroe non è un angelo decaduto, un cacciatore di taglie tenebroso dal passato avvolto nel mistero (immancabilmente rivelato nell’epilogo), un duro che nasconde sotto la scorza una polpa buona e gustosa. Mi rendo conto che non è semplice offrire un prodotto senza il marchio DOCG di un cinema che riesce a vendere bene. Ancora più complesso coniugare un plot “atipico” con una regia che organizza le inquadrature in modo da non cadere nel solito look di certo cinema seriale. Innanzi tutto l’eroe presenta un guscio tenero o meglio una maschera per gli altri indossata per nascondere il proprio inferno, un’apparenza rassicurante ma allo stesso tempo sconcertante (sin dall’incipit viene chiarito chi sia veramente il pilota) e una parte interna più dura non gustabile (la freddezza e il cinismo con cui uccide i suoi antagonisti). Niente e nessuno potrà cambiare il suo status: lui è così e per questo tornerà nello stesso indefinito limbo da cui è venuto. Di solito l’eroe viene educato e trasformato da una donna spesso bellissima, mentre in Drive la donna non è l’oggetto del desiderio. Ciò che muove la storia, che manda avanti il piano narrativo è la famiglia: Standard che esce dal carcere, sua moglie Irene e il figlio. La stessa famiglia che per un eroe “americano” non ha poi molta importanza ma ne ha per un eroe che definirei europeizzato. La famiglia che forse il nostro autista non ha mai avuto o forse è già tramontata in un passato imperscrutabile. Il bacio stesso dato a Irene nell’ascensore, oltre a stigmatizzare la classica notte d’amore (che nel film non c’è), è soprattutto un indice, un avvertimento. Il pilota ha visto la pistola sotto la giacca del gorilla incaricato di ucciderlo e il senso di quel bacio congelato nel tempo, nell’eterna attesa di sferrare il colpo mortale allo scagnozzo per difendere se stesso e Irene, è il limite massimo che può offrirci un albero ormai avvizzito, forse il sogno di un’epoca eroica in cui i baci riempivano lo schermo mentre adesso sono solo orpelli, spesso inutili e impropriamente mostrati, di un cinema dalla corteccia soffice ma dal legno buono solo per ravvivare il falò di un camino. Il bacio ci racconta l’impossibilità di accostare amore a violenza, due aspetti del mondo che possono essere evidenziati nelle loro rispettive dimensioni: la velocità della violenza che aiuta a sperare di uscire indenni da uno scontro con una persona armata e il ralenti di una carezza o di un amore (ma il bacio rubato e dilatato dal ralenti è diegeticamente più veloce della “morte in azione”). Anche il sangue perde la sua funzione portante assumendo valenze ulteriori: relegato spesso in un fuori campo o evidenziato come icona della violenza (il volto insanguinato del pilota) lascia al sonoro o alla “luce” il compito di “mostrare” l’orrore dell’omicidio, il momento in cui il nostro a-eroe sfoga gli istinti più bassi; non è solo sangue ma un liquido rosso che sottolinea la potenza dell’immagine anche vista in sé come pittura e simbolo capace di “mettere in moto” la memoria, per non dimenticare mai. La violenza d’altronde è sempre presente anche quando sembra in parte occultata (il sangue che emerge dai riflessi di uno specchio nel bagno o mostrato per un attimo come nell’omicidio del killer infilzato sopra il wc) o allontanata nella distanza di un campo lungo (l’omicidio per annegamento tra le onde sulla battigia percorsa dalla luce del faro), oppure vista sia attraverso ombre cinesi che ci riportano alle origini remote del cinema, come per allontanare ancora il momento della morte nella distanza temporale (le ombre sull’asfalto dei due uomini che si accoltellano a vicenda), sia tramite la scelta di relegarla nel “fuori” (i calci in testa al killer nell’ascensore). Sembra a momenti di vedere (tenendo conto dell’abisso sia temporale che culturale che separa i due film) Travis Bickle (1) nel momento in cui tenta vanamente di uccidere durante un comizio il senatore Palantine e in seguito di salvare Iris Steensma, una ragazzina di dodici anni e mezzo, da una banda di magnaccia nella memorabile sparatoria dell’epilogo. Il taxi driver e il drive(r) in fondo sono e saranno sempre due uomini soli che non hanno niente da chiedere a nessuno. Possono solo annichilirsi, annullarsi nell’anonimato. Mi piace però pensare a un ipotetico e improbabile dialogo tra i due:
DRIVE(R): «Qualunque cosa accada in quei cinque minuti ci penso io […] ma qualunque cosa accada un minuto prima e un minuto dopo, te la cavi da solo».
TRAVIS: «Ma dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Non ci sono che io qui».

(1) Martin Scorsese, Taxi Driver (1976)

9 ottobre 2011

Carnage (Roman Polanski, 2011)

Come nell’Angelo sterminatore di Bunuel (1) i personaggi sostano in un’unica sala mentre una potenza irresistibile impedisce loro di uscire. Una densa forza gravitazionale li tiene legati al soggiorno dotato di una massa considerevole da cui non è possibile fuggire senza una rilevante energia cinetica. Nonostante gli attori “ruotino” attorno alla parte centrale della sala (mentre la mdp si limita a registrare con vari campi il moto di rivoluzione) o le inquadrature talvolta mostrino un “fuori” ineluttabile ma distante come le due immagini dei figli nel parco, un chiasmo incipit-epilogo, due sipari che impacchettano l’opera introducendo (e congedando poi) lo spettatore sul palco arredato di un atto unico, la forza che li inchioda nella sala potrebbe essere facilmente spezzata; basterebbe ai Cowan entrare nell’ascensore e il dramma sarebbe interrotto, le forze coesive dissolte, la storia lacerata. Il soggiorno è un po’ il divano di Freud, luogo in cui ognuno sente il bisogno di liberare pulsioni troppo a lungo chiuse in un cassettino custodito dell’es. Un banale motivo (non tanto per via del bisogno di proteggere e giustificare sempre e comunque la carne della propria carne) segna l’abbrivo della performance. I quattro protagonisti seguono pertanto una sorta di terapia di gruppo che li conduce a comportamenti liberatori lasciando uscire dal proprio corpo (oltre ai fluidi e alle grida) una sorta di “urlo” munchiano (follia o disperazione? "Crudeltà e splendore.” e “Caos. Equilibrio.” dicono Nancy e Penelope sfogliando un libro su Bacon). Queste “premesse” sono molto interessanti perché Polanski mette in campo una serie di relazioni che definirei proporzionali tese a giustificare l’intera operazione: la terapia è anche il momento della registrazione, i quattro attori stanno al regista come le due coppie stanno allo psichiatra e come nella fiction lo psichiatra non è presente così il regista non è visibile. Altro aspetto che impedisce allo spazio di espandersi nel fuori è l’opera teatrale. L’atto unico con unica chiusura di sipario non può liberare spazi “ulteriori”. Già il pianerottolo, luogo di confine, indebolisce la visione e mette a rischio la pièce (mentre il bagno è una falsa via di fuga), ma la maestria di un regista consumato qual è Polanski utilizza questi momenti di rischio per dare la sensazione di uno strappo che non avverrà mai. Lo spettatore si sente di conseguenza ricacciato nel plot quasi desiderando che il massacro abbia termine, “obbligato” a vedere come le persone possano farsi del male o desiderino vincere una battaglia già persa in partenza. Il film non è solo teatro filmato: è anche questo (e che ottimo teatro!) ed è anche trascinare il teatro all’interno del set. Riprendere i personaggi non è solo avvicinare lo sguardo di uno spettatore salito sul palco per osservare le espressioni degli attori, è soprattutto raccontare e recuperare il piacere di girare un film nel proprio spazio originale (teatro di posa), presentando il set e i suoi arredi ad un pubblico da tempo abituato a volare in alto o addentrarsi nei meandri degli eventi con lo sguardo di un dio. Qui al contrario si recupera lo sguardo limitato di un uomo e la possibilità di scoprire i sottili rapporti tra gli esistenti e i loro oggetti. Il meccanismo segue il desiderio di “uscire”, implica la pazienza di rientrare nel nucleo narrativo della recitazione attirando satelliti in orbita costante (i quattro personaggi) che interagiscono con i loro orpelli o protuberanze: rassicuranti coperte di Linus che danno lustro a un personaggio (il cellulare di Alan, i libri d’arte di Penelope, i cosmetici di Nancy e il whisky-phon di Michael). L’oggetto in questo caso determina un modo di essere, o meglio, amplifica lo status emotivo-sociale del personaggio fino a rappresentarlo (se non nell’incipit perlomeno durante lo splendido spannung). Quando l’oggetto viene depotenziato con esso se ne va l’artificio che offusca e nasconde la violenza intrinseca lasciando emergere alla superficie le pulsioni più recondite, poco prima soffocate e controllate dall’esigenza di un riconoscimento sociale (maschera). Il teatro toglie la maschera alle maschere, mostrando il carattere e la passione. D’altronde come non apprezzare i momenti della massima tensione drammatica di ogni personaggio quando ognuno degli esistenti lascia fuoriuscire la propria piccola quotidiana violenza? Penelope Longstreet quando percuote il marito, Alan Cowan quando si accascia sul pavimento perché con la distruzione del cellulare vede demolito tutto un mondo a cui si era aggrappato, Nancy Cowan quando si mette a piangere per le sue scatoline di maquillage cadute sul pavimento. In queste quattro mura respira un mondo.


(1) Il film è tratto dall’opera teatrale Il Dio del massacro di Yasmina Reza e in entrambi i “titoli” sono indicati un massacro e un’entità superiore.

2 ottobre 2011

Super 8 (Jeffrey Jacob Abrams, 2011)

Si direbbe nostalgico e citazionista. Ormai il citazionismo è nel dna (o quasi) del cinema odierno e riproporre i “miti” del passato evidenzia la trasformazione del cinema visto come un creatore di mondi che percorre la propria storia, mostrando un’epoca in cui sperava di cambiarlo (il mondo). Niente di particolare quindi: si dirà Spielberg anni ottanta e il suo cinema, un cinema di intrattenimento ma non solo. Quando nel 1982 uscì E.T. (grande film, ovviamente, e sei premi oscar) uscì anche l’altra faccia della medaglia: Blade Runner (capolavoro e nessun oscar). Viene da pensare che l’edonismo reganiano prediligesse edulcorati alieni vegetariani e non l’oscuro mondo post-nucleare di Deckard e dei replicanti. Questo Super 8 non è soltanto un film spielberghiano perché risucchiando dalle pieghe del tempo una cittadina con ragazzi ed extraterrestri ha finito col recuperare la parte oscura dell’illusione: una debole allusione che non era in grado di  neutralizzare la visione anacronistica del mondo di un pretenzioso neo-positivismo teso a spiegare tutto a tutti trascurando vaghi effetti collaterali (le città della provincia sono luoghi ameni in cui correre con le biciclette, le autorità addormentano anziché imprigionare o uccidere i curiosi per impedire loro di avere incontri del terzo tipo). Il film recupera semmai alcuni stilemi del cinema anni cinquanta (puntualmente messi in evidenza da Abrams): gli enormi “baccelli” dell’Invasione degli Ultracorpi di Don Siegel oppure il ragno-alieno che ricorda Tarantola di Jack Arnold. Lo stile fanta-horror tipico degli anni cinquanta (paura della bomba atomica e della Guerra fredda) traspare in parte nel film che rimodella il paesino dell’Ohio mostrando forze armate non certo in sintonia con i cittadini (mentre in E.T. i militari sono incredibilmente ingenui), e poliziotti stranamente innocui (in molti film sci-fi anni cinquanta sovente i poliziotti sono i primi ad essere catturati e sottomessi dagli alieni). Ma nell’ E.T. del 2011 il mondo ha subito un ulteriore frazionamento: gli oggetti le persone i rapporti padre figlio il dolore della perdita hanno perso il diritto di essere mostrati in primo piano: sono fattori importanti ma appunto per questo contribuiscono a completare la complessità di una materia ormai irrimediabilmente disassemblata. La frammentazione del film (e in questo risiede l’originalità del lavoro e la genialità di Abrams) si amplifica sequenza dopo sequenza contrastando la forza gravitazionale capace di rifondare un centro intorno a cui roteare. Al contrario Super 8 diffonde ovunque pezzi di realtà e di cinema vintage apparentemente senza proporre un senso. La cittadina dell’Ohio ha perso la propria unità di luogo e di tempo sin dall’incipit quando sul cartello viene azzerato un passato felice (nessun incidente accadeva da tantissimo tempo). Da qui in avanti nessuna centralità potrà garantire illusorie certezze, ma la forza centripeta (famiglia, amicizia, coesione sociale, ecc.) viene sostituita da forze centrifughe che tendono ad aprire verso il cosmo un mondo che non può rimanere rinchiuso nel proprio guscio. Questa nuova esperienza  viene mostrata da Abrams in quanto il film deve comunque proporre altri equilibri – o volendo disequilibri – tramite armonie che suonano come rime narrative: Joe orfano di madre e un padre poliziotto ad esempio fa pendant con Alice abbandonata dalla madre e con un padre sempre sbronzo; gli amici “Goonies” di Joe vogliono solo filmare (in super 8) il terrore e non subirlo (l’avventura è il cinema il reale è solo dolorosa esperienza); il modellino del treno di Joe da distruggere per esigenze di sceneggiatura (il filmino che i ragazzi stanno girando) è paragonabile al treno deragliato ed esploso come da copione; gli stessi militari sono la controparte dei poliziotti, i militari sono i “cattivi” (ma non tutti) che fanno evacuare la città ma anche vittime (non tutti) dell’alieno e l’alieno stesso è carnefice (in quanto ragno “imbozzola” alcuni abitanti ma uccide anche chi l’ha torturato) e vittima. L’unità di luogo (il paesino) e di tempo (il montaggio dell’epilogo del filmino riassume il corso temporale degli eventi) vengono annullati dalla progressiva destrutturazione fisica del paese (la guerra e i bombardamenti che lacerano le case e gli oggetti metallici che si accumulano in alto sopra il serbatoio d’acqua). Gli oggetti stessi subiscono un cambio d’uso, da manufatti  di impiego quotidiano (un’auto, un fucile, una collana) a componenti indispensabili di un’astronave che deve partire. Il film stesso di Abrams si confronta con il cortometraggio dei ragazzi girato in condizioni incredibili (filmano nella stazione durante il deragliamento, riprendono l’alieno, girano tra i militari che occupano la città) che si ricompone (come la stessa astronave) per mostrarci un filmino sugli zombie. L’unità è solo un’apparenza. Il mondo è un miscuglio di incertezze-oggetti che definirei manufatti estetici antropomorfi (città, luoghi, case, geografia di un paesaggio artificiale), ove prolifica una fauna dai legami evanescenti, un pulviscolo che restituisce l’apparenza di un insieme. E quell’astronave che effettua il percorso inverso (particelle che si assemblano nella forma definitiva) porta via con sé (magari in un altro film di fantascienza) l’ottenuta unità che non è di questo mondo. Ed è strabiliante che sia stato un “ragno” (creatore di geometrie) a insegnarci altri modi di assemblare l’universo.