10 settembre 2011

The Tree of Life (Terence Malick, 2011): nell’abisso 4/4

[…] tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo. (1)

In una scena di vita familiare, mentre un giradischi suona la quarta sinfonia di Bramhs, il sig. O’Brien chiede ai figli e alla moglie il nome del compositore, rivelando l’autore con aria soddisfatta e mostrando nel contempo la copertina del long playing. Questa sequenza mi ha ricordato la musica che amavo sentire da ragazzo, fra le quali la tromba di Chet Baker o il Sax di Sonny Rollins oppure, per la musica classica, i madrigali di Giulio Caccini o il Canone di Johann Pachelbel, arie che mi estasiavano ma che forse, guardando indietro, non ascoltavo per armonizzarmi col mio albero della vita. Le ascoltavo per lo stesso motivo per cui O’Brien vorrebbe imporre al figlio regole di vita che lui stesso ha seguito e che in fondo gli hanno impedito di essere un grande pianista. Nel tempo mi sono reso conto che ascoltavo con la testa e non con il cuore, usavo le orecchie mentre il cervello registrava suoni purtroppo non amati da tutti, anzi spesso respinti, e, per questo adirato con il mondo, rinfacciavo ai non appassionati le loro lacune. Ostentavo la raffinatezza dei miei gusti come una spada che doveva affondare nella carne dell’ignoranza. Non mi rendevo conto che la vera ignoranza risiedeva nel mio animo e non in quello di persone che volevano soltanto “possedere” i loro “piaceri”. Anche se la signora O’Brien ha fatto vibrare le corde della mia anima, e per un attimo mi ha illuminato d’immenso (2), suo marito mi ha portato nell’abisso mostrandomi i miei personali mostri. Il rimpianto per ciò che non è stato e non ho ottenuto, nostalgia per i colori del passato, disperazione per una cultura che non ho mai assorbito. Mentre infatti la Signora O’Brien danza nel giardino del tempo con i figli e Malick ci mostra la cadenza dei giorni che trascorrono al suono della Moldava di Bedřich Smetana, il marito rompe l’idillio. Quando la musica del compositore ceco si dissolve nelle immagini, il padre riesce con una comunicazione didascalica a manipolare sia la bellezza di un’opera che ha cavalcato il tempo (appunto La Moldava come musica extradiegetica), sia l’incanto suscitato dalla quarta sinfonia di Bramhs, musica diegetica ridotta a pretesto per esibire la propria “cultura”. L’uomo ha fallito non tanto perché non è diventato un pianista famoso (come sapremo al contrario dalla sua voce over) quanto perché sembra stigmatizzare l’angoscia dell’esistenza rifugiandosi nel tempo virtuale della musica scambiandolo per sapienza (3). La colonna sonora è un inno all’armonia, non alla tecnica, una ricerca di conoscenza, non una esposizione di teoremi da scienza esatta. Il fallimento è provocato dall’illusione di possedere i codici matematici per ribadire l’esatta funzione del mondo, o dall’arroganza di trasformare in dottrina qualsiasi teoria o regola. Pertanto mentre la signora O’Brien mi ha estratto l’anima lasciandola “frollare” nel limo dell’inesprimibile, nella casa dove ogni cosa diventa magica facendosi simbolo di una condizione (la vita non come messaggio da decifrare ma come mistero da conoscere) (4), suo marito mi ha al contrario mostrato l’impossibilità per un “comune mortale” di vivere in un limbo, in quanto contaminato da una società piena di luoghi comuni e regole che obbligano a fare scelte in grado di limitare l’intima essenza dell’animo. Il padre è insoddisfatto della propria vita e, anche se ha educato i figli all’adorazione del successo ottenibile col duro lavoro, il coraggio, ecc., scopre che nessun episodio della sua esistenza è stato mitico: solo falsi valori a uso e consumo di un potere ctonio. Due aspetti quindi apparentemente opposti, non integrabili, che amalgamati potrebbero provocare un composto instabile. Eppure ritengo che i due blocchi tematici più importanti del film (il potere, il verbo, la legge, la forza dell’imperio vs l’armonia, l’arte, la conoscenza, la debolezza del pensiero) rappresentino la miscela esplosiva della mente: l’immensa profondità dell’inconscio, del sogno, e della conoscenza che imperano sotto la labile superficie della coscienza. Un mondo onirico, magico, ineffabile, in cui l’anima riesce a sopraelevarsi contro le esigenze di un’economia che limita e riduce la mente, sebbene fondamentale per una società costruita così come noi la conosciamo. I due coniugi rappresentano le due tendenze del cervello, parti integrate, non opposte ma giustapposte, montate per formare il film della vita. Queste certezze, questa divisione unita, che ha retto finché la metafisica non è entrata in crisi (5), per l’uomo che vive nel palazzo di vetro non bastano più. Era inevitabile e adesso il Jack adulto può solo “ricordare” il tempo e lo spazio (la sua Waco dell’infanzia) e sognare un limbo, una spiaggia dove camminare insieme a un popolo: tante altre anime che ti passano accanto non perché devono correre da tutte le parti (una folla) ma perché camminano insieme per andare dove vai tu (un popolo). Il film è un cervello con i suoi sogni e i suoi limiti, perduto in un luogo dove l’egemonia della metafisica è finita (per Nietzsche e per Vattimo non esistono certezze o fatti, ma solo interpretazione) e unica possibilità di sopravvivenza in un mondo a cui fornire senso è ripercorre un tempo e ritrascorrere uno spazio per affrontare la fatica di una “traduzione”. Ripensare al tempo che fu come a uno spazio percorribile (Jack adulto che entra nella stanza della madre) e allo spazio che fu come a un tempo ricostruibile (i ragazzi che giocano, corrono, percorrono le strade di Waco). Cercare un punto di riferimento, un fulcro, se non per una stabilità personale, almeno per controllare storie non più praticabili (niente, assolutamente niente potrà cambiare il passato almeno nel ricordo controllato sulla superficie della coscienza). Questo tentativo di ricostruzione, di giustapposizione (sorretto da certezze poggiate sull’illusione) può solo ingannare lo sguardo. Perché “scavare” nella vita di Jack adulto quando Jack adulto può essere lo stesso film? Un giorno un uomo si alza dal letto di un matrimonio in crisi, va in ufficio e si rende conto del disastro personale che è solo espressione del disastro globale, e ripensa alla propria infanzia, ricorda i due genitori e i loro precetti. La sua mente vacilla, non ricorda bene, vuole solo capire, dividere i ruoli. Le madri del dopoguerra erano fenomenali, i padri invece uomini duri, sicuri interpreti del mondo. Ma tutto è stato spazzato via. Una sinfonia del cosmo orchestrata dai quattro elementi naturali (il lungo incipit del film) e coadiuvata da una radiazione di fondo musicale (i suoni della natura resi da Alexandre Desplat come suoni comunque distanti dallo stile new-age) è l’unica forza dominante; una cosmogonia che comprende la storia dell’uomo, di una famiglia, materia stessa dell’es (6) pulsione inconscia incontrollabile ma anche influenzata di volta in volta da funzioni strutturali differenti (concetti, idee, culture, regole, gusti). In The Tree of Life il punto di vista di un personaggio o attante è scomparso, la robusta struttura del film (basta analizzare la successione delle sequenze, inserti cosmogonici che mettono in rapporto i vari elementi naturali, il senso della legge che crea i “confini” e i “limiti”, i rapporti di forza tra padre e madre, la sintesi post-moderna del figlio, ecc. ecc.) – come pure i movimenti di macchina con i suoi contre-plongée, dal movimento fluido – ci introduce in una terra senza tempo o nelle ime vallate dell’inconscio, luoghi in cui gli spazi (paesi, vulcani, cascate) e i tempi (preistoria, l’oggi, il passato) perdono consistenza e si annullano. Pertanto dissolvimento dello spazio-tempo, dissolvimento del punto di vista e del senso della durata resi con un montaggio destabilizzante (tutti i piani delle inquadrature allo stesso livello di valore, voci over slegate dal plot) fattori che impediscono alla mente di creare significati, di formulare piani narrativi, di identificarsi nelle peripezie di un personaggio, in altre parole di essere appagata.

(1) Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (1964), Il Saggiatore, Milano, 2004, p. 32
(2) Giuseppe Ungaretti:
Mattina
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
M'illumino
d'immenso
(3) «La musica non è solo l’arte dell’ineffabile e dell’indicibile, ma è anche il linguaggio che più di tutti rende il tempo udibile nella sua continuità, tramuta il tempo grezzo, diacronico e irreversibile dell’ascoltare in una unità sincronica […]». Cristina Cano, La musica nel cinema, Gremese, Roma, 2002, p171
(4) Un messaggio anche se codificato può essere conosciuto con una chiave (matematica o fisica) che permette di “aprire” il cassetto in cui è contenuto, rilasciando pertanto una informazione sciatta proprio perché illude il fruitore di avere tagliato un traguardo. Il mistero non è “fatto” per essere decifrato, ma solo per essere “intuito”, assorbito, conosciuto, mai del tutto chiarito, rilasciando quindi una sensazione di incompletezza ma anche di consapevolezza: nessun traguardo da tagliare ma un percorso da seguire.
(5) «Prese nel gioco fantasmagorico […] della società del mercato e dei media tecnologici, le arti hanno vissuto senza più nessuna mascheratura metafisica (la ricerca di un preteso fondo autentico dell’esistenza) l’esperienza del valore del nuovo come tale – in un modo più puro e visibile che non le scienze e le tecniche, sempre ancora, in certa misura, legate al valore di verità o al valore d’uso; in tale esperienza, il valore del nuovo, radicalmente svelato, ha anche perso ogni fondatezza e possibilità di valere ancora. La crisi del futuro, che investe tutta la cultura e la vita sociale tardo-moderna, ha nell’esperienza dell’arte un suo luogo privilegiato di espressione. Tale crisi […] implica un mutamento radicale nel modo di esperire la storia e il tempo […]». Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1999(3), p. 115.
(6) Intendo l’es così come definito da Freud in L'Io e l'Es (1923)

4 commenti:

Ismaele ha detto...

dopo quello che ho letto qui, i tuoi quattro capitoli, mi sembra di poter scrivere solo cose banali, ma mi metto l'abito d'incosciente e ci provo.

intanto rivedrò il film, sicuro.

la madre ha un ruolo animale, istintivo, laterale, irrazionale, il padre un ruolo razionale, crudele, riflette il mondo che vive e vuole trasmettere ai figli istruzioni per cavarsela nella vita.

c'è la magia dell'infanzia, custodita e amplificata dalla madre, poi si entrerà nel mondo dove c'è la legge del più forte, nel senso di Darwin.

nel passaggio molti si perdono, guerra, competizione idolatria del successo.

forse Malick giustappone il mondo che potrebbe essere e quello che è, dolorosamente.

il padre ha un ruolo che adempie, cinghia di trasmissione dei valori sociali, che sono dati nel tempo storico, mica immutabili.
anche lui ha dei nascondigli in cui si rifugia, la musica, per esempio, ma è infelice, mi sembra.
chissà se gli passa per la testa l'idea di disertare.

Luciano ha detto...

@Ismaele. Riflessioni molto interessanti e poste in modo originale. Per me hai sintetizzato benissimo certi rapporti che intercorrono tra i personaggi e tra il cinema e i ricordi, le nostalgie i dissapori. Un film che è tutto questo e che è anche rappresentazione della bellezza dell’indefinibile. Ancora una volta devo scusarmi per il ritardo della risposta. Un saluto.

cinemaleo ha detto...

L’arte cinematografica del XXI secolo ha trovato il suo "2001 Odissea nello spazio".

Luciano ha detto...

@cinemaleo. Mi piace pensarlo e spero sia così. Secondo me è un film che sarà ricordato al pari di 2001. Chissà tra mezzo secolo... :)