1 agosto 2011

The Tree of Life (Terrence Malick, 2011): 1/4 Ogni cosa infinite cose

«[…] perché sai che gli animali e piante son vivi effetti di natura, la qual natura (come devi sapere) non è altro che dio nelle cose» (1)

Un film ambizioso in quanto proiezione di una istanza narrante (un “io” decaduto?) nel tempo e/o nella ricerca della morte dell’entropia, nel senso che se l’aumento dell’entropia è ineluttabile per ogni forma e materia (animali, natura, galassie), la sua negazione (o recupero di un’entropia nulla) potrebbe garantire percorsi nuovi, gallerie, anfratti in cui la mente (il ricordo, la passione, la voglia di far esplodere la propria anima nel mondo) potrebbe cercare rifugio dalla invalidità del mondo. Ma anche un film semplice nonostante possa sembrare “difficile” e ostico per una certa predisposizione mentale che si ostina (mi riferisco anche al mio modo stereotipato di vedere un film) a opporre resistenza, poiché lo sguardo tende per abitudine a proiettare se stesso in avanti, sempre un po’ oltre l’immagine (cercando di anticipare gli eventi ancora da vedere), nella speranza di vedere realizzate, sequenza dopo sequenza, quelle maledette aspettative diegetiche in grado di garantire una parziale identificazione con un personaggio o una serie di attanti. Ma è un discorso vecchio che ho affrontato molte volte e che in questo contesto non interessa ribadire. The Tree of Life segue un cammino diverso che va oltre la ricerca di un connubio, o meglio, di una comunione tra lo sguardo e l’attante, tra lo spettatore e il personaggio-divo. L’opera di Malick mescola le carte allentando le fondamenta stesse del linguaggio cinematografico così come riportate su ogni abbecedario propedeutico. Lo spazio, il tempo del film e dello spettatore si annullano in un flusso eteromorfo in cui l’immagine assume una centralità mai vista proprio a causa della sua tendenza a permanere anche dopo il suo “passaggio”, assumendo altre forme. Cerco di spiegarmi meglio. Se Deleuze fosse ancora vivo come definirebbe le immagini di questo film? Immagine-tempo? Immagine-sogno? Non è possibile saperlo ma mi piacerebbe pensare a un saggio mai scritto dal grande filosofo interamente dedicato all’ultima fatica di Malick. Immagine-dio? Non intendo ovviamente riferirmi all’immagine di Dio bensì a un’immagine che superi i limiti dello spazio e del tempo imposti dal film (pena lo smembramento del suo stesso status) per introdurre lo sguardo in una dimensione ulteriore in cui persino l’entropia perde consistenza perché la tendenza al disordine della natura (un profumo tende a evaporare, una montagna a sgretolarsi) si resetta dopo ogni immagine (il figlio morto è “un” dopo mentre adesso vive con la famiglia, le immagini tendono a ricadere sempre verso il loro centro di gravità, ossia la “tipica” famiglia anni cinquanta) . Non è una questione di narrazione (quante volte abbiamo visto soprattutto nei film di fantascienza e fantasy il ritorno a condizioni di partenza?). Si tratta piuttosto di decostruire la stessa struttura del film. Per usare una metafora banale e consumata, è come se l’ordito del tappeto non sia stato intrecciato con la trama per costruire un tappeto, ma per rappresentare il suo stesso deterioramento (nuovo→consunto) già accaduto ma allo stesso “tempo” da accadere (consunto→nuovo). La narrazione esce dal film come il colore di un tappeto persiano esce dal suo disegno per debordare in altri disegni contigui (e viceversa). Per questo il Jack cresciuto non rappresenta l’uomo maturo che compila un rendiconto della sua vita ripensando al padre, alla madre e alla vita di una famiglia americana della fine degli anni cinquanta. Il mondo del Jack adulto è ormai tramontato, è andato incontro alla sua morte termica. Le trasparenze delle architetture (grattacieli, hall, ecc.) contrastano con l’ordinata cittadina texana degli anni cinquanta (casette con giardini non recintati, strade che si incrociano formando sempre angoli retti, erbetta da curare e annaffiare). La città del Jack adulto è un ambiente in cui dio deve ancora entrare oppure ne è già uscito. Non è sufficiente cercare una soluzione (la mente purtroppo s’illude ogni volta di ricreare un ordine) regolando il tempo (siamo disposti ad accettare ellissi, flashback, analessi, ecc.) perché il Jack maturo non deve fare proprio niente, né farci capire nulla della sua vita ordinaria; non frequenta un ambiente post-moderno per riflettere sul passato e mostrare il suo debole presente, ma “esiste” soltanto perché l’entropia si annida in ogni bambino; vivendo in un mondo morto (il dopo) non può che ripensare a un epoca in cui, nel bene o nel male, ancora era presente una certa energia vitale. Sarà il futuro (il presente) di un ragazzino che vive le sue contraddizioni e vorrebbe come Edipo uccidere il padre per amare la madre. L’entropia definirebbe un prima o un dopo non tramite il flusso temporale (che è soggettivo) ma tramite la decadenza (1. Il corpo che invecchia; 2. La città che si allunga verso l’alto), mentre in The Tree of Life l’entropia non funziona e la sua nullità riparte e si rigenera fondando vita in ogni inquadratura. Il prima e il dopo non esistono. Il prima è talmente distante persino dall’umanità (formazione dei pianeti, Giurassico) da perdere senso in quanto le già fragili radici degli O’Brien non arrivano ad affondare fino agli strati sedimentari del Triassico, mentre il futuro è talmente magmatico (non conosciamo niente del Jack adulto) da non avere importanza, perché in fondo il senso del termine, della perdita (il figlio morto, le certezze del padre, la spensieratezza dei figli, la grazia della madre), a causa della limitata prospettiva umana, non può proiettarsi oltre qualche mese o anno. Resta solo il passato ormai compresso in un presente insuperabile, noioso (2), apparentemente senza termine, che limita l’orizzonte dell’uomo e che potrebbe essere distrutto dall’entropia del mondo fisico se l’entropia di Malick non fosse “minata” dal dio-nelle cose. Pertanto l’era dei dinosauri, la nascita delle stelle, le architetture vetrose e i “piccoli” eventi di una famiglia, nascondono comunque un proprio valore. Ogni minuzioso gesto, ogni insignificante azione, è un dio, per cui sentimenti (o effetti dell’anti-entropia?) definiti “umani” sono in realtà qualità stesse della materia (pietas(3) – o assenza di fame? – del dinosauro che risparmia il dinosauro ferito), qualità eterne, incommensurabili e inattaccabili . Materiale non entropico proprio perché la materia (Dio, il Mito, la Mitologia, la Storia, ecc.) racchiude in sé la vita, comunque sia, al di là della nostra stessa impalpabile esistenza, delle nostre speranze. Le sequenze del film presentano la sinfonia di questa impraticabilità (l’assenza di ogni futuro che sia al di fuori delle nostre proiezioni) nell’assecondare la disperazione che costruisce mondi geometrici solo in sé ma non al di fuori di sé (gli “ideali” del padre che risultano fallimentari). Mentre il diapason della musica emerge con forza dalle cose (il padre pianista che ama Brahms e Bach), accompagnando come un urlo le scelte “inutili” o non indispensabili per gli uomini (la protezione dei genitori non salverà il figlio, la beatitudine della madre-santa non otterrà il rispetto dei figli, come la durezza del padre non farà di Jack un uomo di successo), la delicatezza della Grazia, il dono, la capacità di vedere dio nelle cose, ossia di osservare il mondo di per sé scollegato dal tempo e dalla contingenza come insieme di creature, il dono di legarsi all’oggetto (creato, materia, uomini, animali, pietre, natura, ecc.), permette di abbracciare il valore e l’unicità dell’attimo, luogo che fonde il tempo in un unico punto, un Aleph (4) che racchiude in sé la comunione con il cosmo e nel caso di questo film, con il cinema.

(1) Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (1583)
(2) Ritengo sarebbe interessante approfondire il discorso sui tre tipi di noia heideggeriana.
(3) Uso “pietas” sia nel significato latino (pio, devoto) che in quello attuale (pietà), in quanto mi chiedo: il Dinosauro prova pietà per l’animale ferito o il suo comportamento rappresenta la devozione della natura verso se stessa, verso il dio che è in ogni essere vivente? Penso più a un gesto simbolico nel senso che Malick ha voluto sottolineare il rispetto per la natura e quindi, nonostante tutto, per lo stesso uomo.
(4) “[…] il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di via Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”. Jorge Luis Borges, L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1975(2), pp. 165-167.

6 commenti:

Alex ha detto...

Nel farvi i miei complimenti per l'ottima esegesi del film di Malick, desidero ricordare ancora Gilles Deleuze e la sua conferenza 'Che cos'è l'atto di creazione', guarda caso rivolta a studenti di cinema (Cronopio edizioni).
Deleuze dice alcune cose fondamentali per l'arte quanto per il cinema, e specialmente insiste sul fatto (che qui nell'articolo si ricordava) che il tempo del cinema non è il presente, ma una commistione di temporalità differenti - proprio ciò che Malick sembra averci voluto, almeno in parte, proporre. Una volta tanto, insomma, "quelle maledette aspettative diegetiche", che sono poi lo specchio del consumo ma non delle potenzialità dello sguardo, vanno a farsi benedire.

Luciano ha detto...

Grazie Alex, sei gentilissimo. Purtroppo non ho ancora letto il lavoro di Deleuze anche se ho visto su youtube la conferenza in questione. Deleuze riesce sempre a stupire. Senz'altro un maestro. Infatti(non mi stancherò mai di dirlo anche se le mie affermazioni non sono certo originali) il cinema nasce narrativo ma non è questa la sua vocazione più alta. Questo non vuol dire che un film deve essere criptico, ma insomma le strade da percorrere sono ancora tante e tutte molto interessanti. Ho appena intravisto il tuo blog che mi sembra molto interessante. Appena possibile ricambierò la visita. Grazie^^

Anonimo ha detto...

Immagine-dio mi sembra una definizione azzeccatissima, così come poi la analizzi nel seguito del pezzo. Come sempre molto profondo e interessantissimo.

Ale55andra

franz ha detto...

vero che si guarda un film pensando a troppe cose, penso a quando ero bambino, i film si godevano perché era il primo livello, "il piacere della visione", per parafrasare Barthes. bisognerebbe vedere il film, quelli che meritano, almeno due volte, nella prima per lasciarsi prendere e cullare dalla storia, dal regista, e dopo per interpretare.
mica facile, però.

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Sono rimasto profondamente emozionato, nel vedere questo film, soprattutto da una sensazione di "immensità", nel senso che ogni aspetto della vita e in particolare ogni essere vivente (uomini, fiori, animali), anche il più insignificante, viene messo al centro della scena. Il dio nelle cose insomma che mi ha fatto ricordare l'opera di Giordano Bruno. Grazie^^

Luciano ha detto...

@Franz. È vero, bisognerebbe vederli due,tre, infinite volte o riuscire a vederli lasciandosi prendere dal piacere della visione e assorbire il cinema in quanto opera d’arte. E in effetti non è affatto facile e se fosse possibile fare tutto questo l’opera d’arte sarà sempre sfuggente, indefinibile. Quando mi capita di rivedere un film dopo anni mi accorgo spesso di aver visto un film diverso da quello che ricordavo. Una sensazione stupenda.