25 agosto 2011

The Tree of Life (Terence Malick, 2011): emozione-pensiero 3/4

“Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria” (1)

The Tree of Life è un film sulla carne e di conseguenza sugli effetti collaterali causati dal “peso” oggettivo di sopportare questo fardello. La spiritualità che alimenta il film in ogni sua inquadratura e lo infiamma con un simbolismo interessante ma forse a momenti persino ridondante e per alcuni addirittura retorico (2) perderebbe la sua efficacia senza l’alimento fondante di ogni discorso sul “male di vivere”: emozioni e pulsioni provocate da ormoni, endorfine, monosaccaridi (cortisone, adrenalina, glucosio, ossitocina, ecc.). Mi rendo conto che queste affermazioni possono risultare banali se non altro perché qualsiasi discorso sulla spiritualità e sulla religione parte dal dolore e dalla sofferenza della carne, sopportato e controllato dall’amore per l’umanità e la redenzione dei peccatori, ecc. ecc. Non è mia intenzione entrare nel merito della trascendenza e della fede, discorso certamente fondamentale ma che non rientra nell’idea che mi sono fatto del film. L’amore, la grazia, il panismo della Sig.ra O’Brien non scaturiscono da una dimensione ulteriore, ma provengono direttamente dal tempo, trasportando le ecchimosi dell’universo, quelle bolle di vita (dolore, sangue, gioia) che possono essere metabolizzate soltanto tramite le reazioni spontanee di un corpo. La signora O’Brien è forse la figura più “elevata” e più consapevole, colei che riesce ad assorbire la “radiazione cosmica di fondo” con tutti i pori della pelle, a farsi penetrare da ogni più piccola fibrillazione della natura (aria, acqua, terra, fuoco), a compenetrarsi fino a fondersi totalmente nelle effrazioni quotidiane che il tempo e la materia operano sul corpo usurandolo. Questa carnalità sprigionata dal corpo della donna, e sottolineata da un rossetto sulle labbra che la rende sensuale, si respira in ogni sequenza, la si vede crescere nel fotogramma fino a esplodere in un effluvio di luce in grado di mostrarci la purezza dei colori . La vita riempie ogni organo della donna e ogni sensazione provata si manifesta emergendo nelle espressioni del volto e nei movimenti che si sviluppano spesso in vere e proprie danze. Se il Signor O’Brien (che al contrario limita il suo corpo quasi con soggezione, uniformandosi e facendosi condizionare dalle regole di una società severa e bigotta) dimostra il suo amore per la musica cercando di riprodurla (è un pianista rimasto deluso dal proprio fallimento), la moglie sfugge continuamente alla norma, perché il suoi movimenti non sono prevedibili: essa si muove in continuazione, corre, gioca con i figli saltando sul letto o facendo il girotondo, si nasconde dietro gli alberi senza farsi limitare o condizionare dalla legge e dal discorso (3). A lei non interessa il successo, non vive con il corpo bloccato nel presente e la mente proiettata nel futuro: vive nell’eternità, vede la formazione dell’Universo, l’amore della vita per la vita, la pietà, l’evoluzione. Sente la presenza della morte come condizione e completamento della vita, altra faccia della medaglia che spesso determina le scelte casuali della materia (senza l’estinzione dei dinosauri i mammiferi avrebbero preso il sopravvento?). L’Amore per lei non è una parola o un rimpianto ma un districarsi continuo di infinite vibrazioni, sensazioni (piacere, dolore, emozioni) che riempiono e allargano gli orizzonti della mente. In The Tree of Life Malick cerca di seguire il percorso dell’Amore, sentimento fondamentale per sviluppo e crescita della specie, sentito tramite le reazioni ormonali di un corpo senza le quali la mente non potrebbe proiettare all’esterno i propri progetti (tecnologia, costruzioni, cultura, ovvero abiti, capanne, riti). Seguire questa corporalità spirituale, obbliga il regista a correre dietro ai vari volti, gambe, piedini, cercando di mostrare la particolare espressione, le linee delle mani e dei piedi, relegando l’esterno (ciò che condiziona e altera i corpi e di conseguenza le menti) sullo sfondo (un bambino che annega, un uomo sul prato che si sente male). Poiché l’oggetto del film è lo spazio-tempo, nel senso che il film “racconta” la storia dello spazio-tempo, racconto e discorso si fondono o, usando una terminologia cara a Roland Barthes, funzioni cardinali (nuclei) e secondarie (catalisi) si confondono. Intendo affermare che il plot deve possedere una tale struttura, altrimenti, se Malick avesse deciso di optare per un tipo di cinema con struttura più classica o post-classica, probabilmente le immagini e le sequenze sarebbero risultate stereotipate. D’altronde raccontare questa dimensione così profondamente “spirituale” pone un problema di difficile soluzione: come raccontare l’eternità della materia (o se vogliamo diciamo pure l’onnipotenza di Dio) senza rischiare di trovarsi davanti a un prodotto promozionale? Al contrario il problema delle riprese potrebbe sussistere per gli altri personaggi. La donna riesce a influenzare la materia circostante (compresa la propria famiglia), mentre alternare (anche se sarebbe stato interessante vederne gli esiti) stili differenti di ripresa avrebbe creato problemi di non poco conto (il cinema classico avrebbe potuto prendere il sopravvento trascinando l’intero film nei rischi e nei pericoli delle rapide del luogo comune). Infatti il rischio sarebbe potuto emergere, per esempio, nella sequenza di Jack adulto, elencando i motivi di un matrimonio fallito (è sua moglie o la sua amante quella donna che si alza dal letto?), un rapporto su cui non ci sono indizi definitivi (ma hanno o non hanno fatto sesso?). Domande, problemi, curiosità che avrebbero immesso il film nell’alveo che porta allo sconfinato mare dell’omologazione (rendere trasparente il fatto che il rapporto di Jack con la moglie sia in crisi sarebbe come dire a qualcuno, tanto per rompere il ghiaccio, che non ci sono più le mezze stagioni). Jack adulto, sintesi e proiezione corporale del tempo (Jack bambino regola e determina l’uomo che diventerà), che sente tutto il fallimento dell’uomo post moderno in quanto incapace di metabolizzare il tempo e la materia (se non costruendo nella mente un ipotetico portale da oltrepassare) vorrebbe legarsi alla madre (unica donna amata?), dichiarando il suo sentimento panico, pur rimanendo condizionato dall’orrore e dalla presunzione della Regola (il Padre) tra l’altro alla fine ripudiata dal padre stesso in quanto prodotto limitato al comune sentire di un breve periodo storico di una piccola zona del pianeta (concezione newtoniana dello spazio e del tempo). La gravità limita e condiziona convincendoci che l’orizzonte sia una linea e il Sole effettui il suo moto di rivoluzione intorno alla Terra mimetizzando il mondo in un’idea fallace. Ma non è così. La ricerca del successo, così come gli insegnamenti (una propedeutica del cinema da ricostruire?) che potrebbero entro certi termini avere un valore, non possono trasformarsi in regole buone per tutti i tempi e tutte le occasioni. L’aspetto più interessante ed emozionante del film risiede nell’efficacia dell’inconscio bi-logico in grado di trattare la relazione asimmetrica, tra una relatività quotidiana e un’eternità assoluta, come relazione simmetrica (ad esempio se Jack è il figlio del Sig O’Brien anche il sig. O’Brien è figlio di Jack e nel film Jack adulto può anche essere visto come il padre di se stesso – del Jack piccolo – o il figlio di se stesso) (4). In altri termini, la consapevolezza della precarietà della carne si fonde con il bisogno della mente di pensare l’eternità. Le rughe che affondano giorno dopo giorno sulla fronte contrastano con il pensiero capace di immedesimarsi in ogni corpo, correre e giocare come un bambino, scavalcare montagne, gettarsi nelle rapide, cavalcare le alte onde e calpestare un suolo primitivo. Le membra stanche e l’abitudine, le geometrie che occupano lo spazio (il cemento, il vetro dei palazzi), che si allargano come un nulla capace di inghiottire il passato, in altre parole l’ordine e le regole, condizionano il nostro corpo o quello che facciamo del nostro corpo. La signora O’Brien invece è sempre un gradino più in alto, è sempre una sequenza avanti a quella che stiamo vedendo. Forse per questo Malick ha adottato un tipo di ripresa simile: come avrebbe potuto altrimenti seguire questo suo fantastico personaggio? Una ripresa classica avrebbe fissato e catalogato la madre probabilmente in un personaggio tipo, mostrando pochi piatti elementi (donna visionaria o addirittura folle o fanatica). Per esempio: se fosse stata ripresa in un campo contro campo, sarebbe fuggita dietro il quadro nel controcampo successivo, così come, in una classica carrellata, la sequenza non avrebbe potuto afferrare la sua corsa zigzagante e imprevedibile. Il suo corpo a un certo punto si è talmente caricato di emozioni (amore, dolore, desiderio, volontà) che ha cercato di librarsi in aria come per unirsi al proprio pensiero, volare con esso. Forse nemmeno Malick, nonostante il suo cinema geniale, avrebbe potuto cogliere l’attimo in cui la sig.ra O’Brien spicca il volo. Allo stesso modo la descrizione di Garcìa Márquez si limita a informarci che nemmeno “i più alti uccelli della memoria” possono raggiungere Remedios la bella, donna bellissima e desiderata capace di ascendere al cielo con la propria carne. Prima di vedere la sequenza della Signora O’Brien che si libra, vibrando, nell’aria, non ero mai stato così profondamente consapevole del fatto che il cinema può anche essere il cinema.

(1) Garcìa Márquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1979 (11), pp. 246-247
(2) La retorica del film potrebbe scaturire da certe immagini reiterate in particolare le inquadrature del cielo con la luce che abbaglia lo sguardo che rammenta la luce divina di tanta pittura Rinascimentale.
(3) La legge produce conseguenze sanzionatorie (giurisprudenza), oppure può prevedere effetti conformi ad altri già verificatisi (sperimentazione) oppure può solo costituire il punto di partenza per altri teoremi (matematica): queste sanzioni o previsioni o teoremi “assoluti” possono condizionare lo sguardo e limitare il libero arbitrio di chi guarda. Tradotto in termini cinematografici: l’affermarsi della grammatica nel cinema ha indotto a credere che la “grammatica” sia diventata Legge indiscutibile (assoluta) e pertanto capace di produrre sanzioni a carico di chi la trasgredisce (chi non rispetta le regole del cinema è fuori dal cinema). Solo l’approccio sperimentale potrebbe in parte accettare un modello trasgressivo da recuperare e ricomprendere nella formulazione dopo una parziale revisione della legge stessa. Il discorso è fondamentale ma non è mai stato un modello compatto, univoco, da prendere come Legge e regolamento a cui adeguarsi. Il discorso è in continua evoluzione e nonostante ormai possa sembrare tramontato definitivamente come processo in costruzione (le varie teorie della narratologia ad esempio) può essere sempre ampliato e approfondito. D’altronde l’arte mostra sempre il lato debole delle varie teorie che cercano di definirla.
(4) cfr. Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla Bi-logica (1975). Per approfondire l’argomento risulta interessante e molto ben fatta la tesi di laurea di Ugo Concilio liberamente scaricabile dal sito Il mondo di Sofia e precisamente qui). Questo lavoro, nonché le scarse conoscenze che possiedo sulle teorie psicanalitiche di Ignacio Matte Blanco, mi è servito a chiarire il “ruolo” di certe mie emozioni suscitate dal film. Voglio qui riportare un periodo della tesi che mi ha molto colpito: “Rimane, comunque, la constatazione che l’opera d’arte possiede la straordinaria capacità di proiettarci nel mondo dell’emozione (il mondo dell’indivisibile) anche solo attraverso l’intelletto (attraverso, cioè, la logica bivalente, dividente). Nel fruitore dell’opera come nell’autore, avviene uno strano fenomeno: emozione e pensiero appaiono come un’unica cosa […]” Ugo Concilio, La teoria della bi-logica di Matte Blanco e la dodecafonia di Schönberg (Tesi di laurea)

13 agosto 2011

The Tree of Life (Terence Malick, 2011): 2/4 Una cura

“Beati coloro che lavano le loro vesti per avere diritto all’albero della vita e, attraverso le porte, entrare nella città” (1)

Quelle sequenze girate nel giardino, quei primi piani dei volti della famiglia O’Brien e le voci off che sussurrano la frantumazione delle immagini, a prima vista richiederebbero di essere superate. La mente vuole essere appagata e pretende che il regista “approfondisca”, dica qualcosa, ci mostri l’evoluzione, lo sviluppo, il futuro della famiglia. C’è un uomo già alle soglie della vecchiaia, sono trascorsi molti anni: è Jack: è cresciuto, il mondo è cambiato. Vediamo un po’ cosa ci racconterà Malick di quest’uomo. Cos’è successo nel frattempo?. La mdp ondeggia mostrando in un unico piano sequenza (a volte anche di brevissima durata) primi piani e campi medi dei personaggi ripresi spesso dal basso, iterando la stessa istanza denotativa con un altro piano sequenza che mostra sempre primi piani e campi medi degli O’Brien. Se il film fosse stato solo questo probabilmente saremmo stati davanti a un’opera forse sempre interessante, ma debole. Invece Malick non esaurisce il suo discorso nel mostrare uno spaccato di vita familiare (con i suoi drammi, i suoi momenti di felicità), ma pretende di collocare questo “spaccato” di vita (la sua stessa famiglia dell’infanzia?) in un limbo dove il ricordo e l’orientamento si incontrano fecondandosi a vicenda. Malick sente il bisogno di urlare al mondo la ricerca di una cura. E per curarsi bisogna sapere orientarsi: orientare un equilibrio, come una “grazia” offerta all’uomo da un dio, un pass che apre le porte delle buone azioni, al fine di raggiungere la salvezza. Orientarsi per “ricostruire” un centro di gravità cercando il senso della propria storia e immetterlo nell’assenza di senso della Storia (la Natura ostile e incomprensibile), se non addirittura della “pre-historia”, allo scopo di avviare un percorso di guarigione (percorso di conoscenza). L’attimo, già abbastanza ampio da contenere un dramma (bellissima ed efficace la sequenza dell’annegamento), può cambiare la vita di una famiglia se non di una comunità o del mondo intero. La proiezione del dramma nel mondo non è sufficiente a giustificare qualcosa di più importante, qualcosa che attraversa lo spazio e il tempo, che è contenuto nelle cose ed è un’istanza dell’eternità. Il film racconta la faticosa ricerca di un orientamento, la forza di vivere e ricordare per ricostruire una biografia (non solo personale ma addirittura cosmica). La storia potrebbe essere il pensiero smarrito e frammentato di un Jack adulto incapace di ricomporre i pezzi della propria vita. E siccome la maturità porta con sé l’analisi continua e ineffabile di certe “sequenze” del passato, più o meno sempre le stesse, sempre più intollerabili perché non recuperabili, non rimovibili e soprattutto non modificabili, la coeva realtà perde consistenza, contribuendo a gonfiare quel magma inesplicabile definibile come eccedenza emozionale di ricordi in grado di pescare quegli eventi che hanno dato seguito a conseguenze non modificabili. Eppure lo sguardo sul passato (che Proust definirebbe “memoria volontaria” a cui sfugge però l’essere in sé del passato) può essere anche uno sguardo della memoria involontaria, ossia una reminiscenza (segno della memoria involontaria), una metafora della vita che unisce il presente al passato resuscitato dalla sensazione provata nel presente. Ma non si tratta però di un “passato” solo resuscitato, per cui si ha un allineamento tra l’adesso e il ricordo, bensì di un “passato” indissolubilmente legato al presente e pertanto capace di trascinare a sé il presente della memoria o alcuni suoi “sintomi”, sensazioni, emozioni, sofferenze, disagi (il Jack adulto che “entra” in campo accarezzando sua madre ancora giovane o che incontra i fratelli e il bambino che è stato sulla spiaggia)(2). Il mondo cambia, la materia si plasma in nuove forme mentre il passato, l’attimo abbastanza ampio, rimane inspiegabilmente immutabile. La cura potrebbe essere una rimozione ma anche una biografia emozionale. Non intendo invadere il campo dell’analisi biografica a orientamento filosofico (ABOF) – tra l’altro percorso interessante che cerca di tessere linee pregne di senso capaci di collegare passato presente e futuro del paziente – sia perché la materia richiede specializzazioni che non possiedo, sia perché il discorso di Malick si proietta oltre la sfera umana, ricollegandosi a qualcosa di più ampio con cui ci confrontiamo giorno per giorno: il rapporto tra la nostra complessa vita (importante ma anche confusa tra quella di altri miliardi di vite) e la Vita (Infinito,Tempo, Spazio, Natura, Cosmo). Lo scontro tra le due esigenze conduce spesso alla perdita di un orientamento, all’insicurezza e al conseguente bisogno di rideterminare il proprio ruolo. Ma non si tratta solo di questo. Provo a soffermarmi in particolare a riflettere su alcune sequenze della prima parte del film che sintetizzano bene l’angoscia dell’uomo moderno schiacciato tra il suo ruolo pregno di senso (ricerca del successo per dare un senso della vita) e il desiderio di ricominciare sotto mentite spoglie (il nulla come resettaggio globale: una spiaggia affollata dove incontrare una personale reminiscenza): in pochi minuti Malick riesce a inebriarci d’eternità, quel bisogno di assoluto che ci contraddistingue, in grado di indicare la labilità dei gesti e delle tessiture narrative con cui “organizziamo” una biografia proiettandola in accadimenti futuri non verificabili (speranze, sogni, progetti per una propria vita da concludere). Queste sequenze conducono dal generale al particolare, dall’eternità all’attimo con un restringimento di campo che definirei trans-referenziale nel senso che il Referente, in quanto Oggetto del film serve a supporre “la Storia”, transitando nei molteplici punti di vista. Ebbene, questo modo di procedere trascina la sguardo nella purezza del Referente. Voglio dire che (e spero di non essere criptico) l’Oggetto immediato di Pierce (significato), ossia quel particolare punto di vista tra i tanti sull’Oggetto dinamico (referente) identificato dal Rappresentamen (significante) si assolutizza identificando o, meglio, fondendo connotazione e denotazione. In altri termini l’Oggetto dinamico, ossia il Referente, si mostra unico e compatto inglobando l’Oggetto immediato. La prospettiva del film non risulta pertanto quella di un unico punto di vista, ma si presenta unica e allo stesso tempo molteplice, come se l’Oggetto mostrato non fosse il risultato di un particolare punto di vista intorno all’Oggetto dinamico (Referente) ma il risultato di un simultaneo accatastarsi di punti di vista differenti concepiti come unica istanza referenziale. L’Oggetto si solidifica e l’angolo di campo dello sguardo si allarga a 360°, un po’ come una foto panoramica in cui il lato sinistro della foto e il lato destro mostrano lo stesso ubiquo oggetto. La Storia quindi potrebbe essere rappresentata come l’interno di una sfera che comprende il Tutto (Creazione, Vita, Passato, Futuro, Morte, Dio), una sfera “srotolata” in immagini e pertanto come una visione impossibile e intollerabile. Malick non ci racconta una storia (trama, narrativa, ecc.) ma filtra una ricerca, una speranza raccontando il percorso della Vita dall’Alfa all’Omega, l’innalzarsi al cielo dell’albero della vita perso da Adamo con il peccato. La sequenza, molto lunga, richiede una sintesi: il dolore della madre per la perdita del figlio è filtrato dal ricordo del Jack adulto. I suoi pensieri, i suoi ricordi si mescolano unificandosi in un limbo extracorporeo in cui si sommano immagini distanti sintetizzate dalla mente dell’uomo costretto a vivere in “un mondo che va a rotoli”. La realtà degli edifici vetrosi, trasparenti da cui filtra una luce plumbea, si alterna ai ricordi e alle immagini di Jack adulto: il volto della madre che cammina affranta nel giardino, disperata davanti alla finestra, si porge allo sguardo dopo alcune immagini di un mondo desertico quasi preistorico (che anticipa la preistoria), quindi Jack adulto osserva la madre e la carezza per consolarla nel giorno della notizia della morte del figlio. Jack si appropria di quelle immagini nella vana speranza di determinare un cambiamento illudendosi di poter trasformare il passato. Vede il volto della madre e poi vede il mondo com’era o forse è sua madre a vederlo o forse è il dolore di entrambi che si unifica al di là del tempo (i due sono divisi da almeno quarant’anni di storia) per attraversare una biografia cosmica: la Genesi, la creazione, il cosmo e lo splendore della galassia, la visione della nebulosa Testa di Cavallo in Orione, il sole, una Terra preistorica con i primi organismi viventi e la vita che pullula negli oceani, quindi la creazione degli organismi multicellulari, gli cnidari, un plesiosauro, un dinosauro che risparmia la vita a un altro dinosauro ferito, Saturno e Giove, l’asteroide che cadde sulla Terra 65 milioni di anni fa, il mondo dopo il disastro percorso da Jack adulto che cammina sul ghiaccio formatosi in un terreno preistorico. Poi la storia della famiglia: la signora O’Brien incinta, nascita del primo figlio, sua crescita, educazione, l’altro figlio, i figli crescono, le notti che scorrono buonanotte dopo buonanotte e bacio dopo bacio dato ai figli prima di spegnere l’abat-jour, la madre che lievita davanti all’albero e di nuovo il volto di Jack adulto. Proiettare la sensazione di un fallimento personale che si somma al fallimento di un’intera società (“La gente è avida e va sempre peggio”) in una comunione cosmica e temporale, coinvolgendo il senso stesso dell’esistenza, comporta già di per sé un impegno notevole, ma addirittura fondere, associare e racchiudere il ricordo di Jack adulto in quello della Signora O’Brien, colta nel giorno della sua più grande tragedia (la morte del figlio), mi ha suscitato emozioni intense, inesplicabili. Chi “vede”, chi ricorda, chi ricostruisce le sequenze dell’evoluzione darwiniana-creazionista? La madre che proietta il suo dolore nel dolore del creato intero? Che proietta la sua fede (“Lassù è dove vive Dio”) nella capacità della Grazia (che ingloba la pietà del Dinosauro) di dare un senso al creato? Oppure Jack adulto che vorrebbe cambiare il destino dell’uomo (rivedere il fratello morto), o smarrirsi in un paesaggio preistorico da rifondare dopo l’estinzione dei dinosauri? E poiché l’evoluzione darwiniana viene ricostruita da un pensiero collettivo, un ricordo che ci ravvicina nella capacità di riconoscere un retaggio comune all’intera umanità, ognuno potrebbe incollare i ricordi della propria infanzia e della propria personale vicenda? Jack adulto riuscirà a lavare le vesti prima di attraversare la sua porta nel deserto? Il passaggio della porta non è solo l’attraversamento di una soglia. Oltre la porta di un aldilà fisico? Oppure un messaggio mistico che consola la paura del Nulla? Il suo Altrove, abitato da uomini donne e bambini di ogni età o epoca, non è un mondo di anime (almeno suo padre sembra esistere nell’epoca dei palazzi vetrosi ) ma una dimensione in cui si affastellano tutte le combinazioni possibili (anche quelle non realizzatesi per vari motivi tra cui la morte di un fratello) e dove è possibile incontrare il proprio passato o quello di un’altra vita che avremmo voluto vivere. E non è questa una prerogativa del cinema? Trascinare l’anima al di là dell’Apocalisse per vivere emozioni che altrimenti ci sarebbero precluse, perché tutti hanno diritto all’albero della vita. Anche i maghi e i registi (3).

(1) San Giovanni, Apocalisse, 22:14
(2) Sull’argomento vorrei segnalare un bellissimo lavoro di Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti, Quodlibet, Macerata, 2004 che sarebbe interessante approfondire. Il rapporto tra il film e la Recherche di Proust (rimando qui al mio vecchio post su Proust e Deleuze ) meriterebbe da solo una approfondita analisi.
(3)” Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!” (San Giovanni, Apocalisse, 22:15). Quest’ultima frase del post non vuole essere una polemica o un critica dell’Apocalisse di Giovanni ma sottolineare la capacità del grande cinema di stimolare pensiero ed emozione, suggestioni e riflessioni, credenze e Fede.

1 agosto 2011

The Tree of Life (Terrence Malick, 2011): 1/4 Ogni cosa infinite cose

«[…] perché sai che gli animali e piante son vivi effetti di natura, la qual natura (come devi sapere) non è altro che dio nelle cose» (1)

Un film ambizioso in quanto proiezione di una istanza narrante (un “io” decaduto?) nel tempo e/o nella ricerca della morte dell’entropia, nel senso che se l’aumento dell’entropia è ineluttabile per ogni forma e materia (animali, natura, galassie), la sua negazione (o recupero di un’entropia nulla) potrebbe garantire percorsi nuovi, gallerie, anfratti in cui la mente (il ricordo, la passione, la voglia di far esplodere la propria anima nel mondo) potrebbe cercare rifugio dalla invalidità del mondo. Ma anche un film semplice nonostante possa sembrare “difficile” e ostico per una certa predisposizione mentale che si ostina (mi riferisco anche al mio modo stereotipato di vedere un film) a opporre resistenza, poiché lo sguardo tende per abitudine a proiettare se stesso in avanti, sempre un po’ oltre l’immagine (cercando di anticipare gli eventi ancora da vedere), nella speranza di vedere realizzate, sequenza dopo sequenza, quelle maledette aspettative diegetiche in grado di garantire una parziale identificazione con un personaggio o una serie di attanti. Ma è un discorso vecchio che ho affrontato molte volte e che in questo contesto non interessa ribadire. The Tree of Life segue un cammino diverso che va oltre la ricerca di un connubio, o meglio, di una comunione tra lo sguardo e l’attante, tra lo spettatore e il personaggio-divo. L’opera di Malick mescola le carte allentando le fondamenta stesse del linguaggio cinematografico così come riportate su ogni abbecedario propedeutico. Lo spazio, il tempo del film e dello spettatore si annullano in un flusso eteromorfo in cui l’immagine assume una centralità mai vista proprio a causa della sua tendenza a permanere anche dopo il suo “passaggio”, assumendo altre forme. Cerco di spiegarmi meglio. Se Deleuze fosse ancora vivo come definirebbe le immagini di questo film? Immagine-tempo? Immagine-sogno? Non è possibile saperlo ma mi piacerebbe pensare a un saggio mai scritto dal grande filosofo interamente dedicato all’ultima fatica di Malick. Immagine-dio? Non intendo ovviamente riferirmi all’immagine di Dio bensì a un’immagine che superi i limiti dello spazio e del tempo imposti dal film (pena lo smembramento del suo stesso status) per introdurre lo sguardo in una dimensione ulteriore in cui persino l’entropia perde consistenza perché la tendenza al disordine della natura (un profumo tende a evaporare, una montagna a sgretolarsi) si resetta dopo ogni immagine (il figlio morto è “un” dopo mentre adesso vive con la famiglia, le immagini tendono a ricadere sempre verso il loro centro di gravità, ossia la “tipica” famiglia anni cinquanta) . Non è una questione di narrazione (quante volte abbiamo visto soprattutto nei film di fantascienza e fantasy il ritorno a condizioni di partenza?). Si tratta piuttosto di decostruire la stessa struttura del film. Per usare una metafora banale e consumata, è come se l’ordito del tappeto non sia stato intrecciato con la trama per costruire un tappeto, ma per rappresentare il suo stesso deterioramento (nuovo→consunto) già accaduto ma allo stesso “tempo” da accadere (consunto→nuovo). La narrazione esce dal film come il colore di un tappeto persiano esce dal suo disegno per debordare in altri disegni contigui (e viceversa). Per questo il Jack cresciuto non rappresenta l’uomo maturo che compila un rendiconto della sua vita ripensando al padre, alla madre e alla vita di una famiglia americana della fine degli anni cinquanta. Il mondo del Jack adulto è ormai tramontato, è andato incontro alla sua morte termica. Le trasparenze delle architetture (grattacieli, hall, ecc.) contrastano con l’ordinata cittadina texana degli anni cinquanta (casette con giardini non recintati, strade che si incrociano formando sempre angoli retti, erbetta da curare e annaffiare). La città del Jack adulto è un ambiente in cui dio deve ancora entrare oppure ne è già uscito. Non è sufficiente cercare una soluzione (la mente purtroppo s’illude ogni volta di ricreare un ordine) regolando il tempo (siamo disposti ad accettare ellissi, flashback, analessi, ecc.) perché il Jack maturo non deve fare proprio niente, né farci capire nulla della sua vita ordinaria; non frequenta un ambiente post-moderno per riflettere sul passato e mostrare il suo debole presente, ma “esiste” soltanto perché l’entropia si annida in ogni bambino; vivendo in un mondo morto (il dopo) non può che ripensare a un epoca in cui, nel bene o nel male, ancora era presente una certa energia vitale. Sarà il futuro (il presente) di un ragazzino che vive le sue contraddizioni e vorrebbe come Edipo uccidere il padre per amare la madre. L’entropia definirebbe un prima o un dopo non tramite il flusso temporale (che è soggettivo) ma tramite la decadenza (1. Il corpo che invecchia; 2. La città che si allunga verso l’alto), mentre in The Tree of Life l’entropia non funziona e la sua nullità riparte e si rigenera fondando vita in ogni inquadratura. Il prima e il dopo non esistono. Il prima è talmente distante persino dall’umanità (formazione dei pianeti, Giurassico) da perdere senso in quanto le già fragili radici degli O’Brien non arrivano ad affondare fino agli strati sedimentari del Triassico, mentre il futuro è talmente magmatico (non conosciamo niente del Jack adulto) da non avere importanza, perché in fondo il senso del termine, della perdita (il figlio morto, le certezze del padre, la spensieratezza dei figli, la grazia della madre), a causa della limitata prospettiva umana, non può proiettarsi oltre qualche mese o anno. Resta solo il passato ormai compresso in un presente insuperabile, noioso (2), apparentemente senza termine, che limita l’orizzonte dell’uomo e che potrebbe essere distrutto dall’entropia del mondo fisico se l’entropia di Malick non fosse “minata” dal dio-nelle cose. Pertanto l’era dei dinosauri, la nascita delle stelle, le architetture vetrose e i “piccoli” eventi di una famiglia, nascondono comunque un proprio valore. Ogni minuzioso gesto, ogni insignificante azione, è un dio, per cui sentimenti (o effetti dell’anti-entropia?) definiti “umani” sono in realtà qualità stesse della materia (pietas(3) – o assenza di fame? – del dinosauro che risparmia il dinosauro ferito), qualità eterne, incommensurabili e inattaccabili . Materiale non entropico proprio perché la materia (Dio, il Mito, la Mitologia, la Storia, ecc.) racchiude in sé la vita, comunque sia, al di là della nostra stessa impalpabile esistenza, delle nostre speranze. Le sequenze del film presentano la sinfonia di questa impraticabilità (l’assenza di ogni futuro che sia al di fuori delle nostre proiezioni) nell’assecondare la disperazione che costruisce mondi geometrici solo in sé ma non al di fuori di sé (gli “ideali” del padre che risultano fallimentari). Mentre il diapason della musica emerge con forza dalle cose (il padre pianista che ama Brahms e Bach), accompagnando come un urlo le scelte “inutili” o non indispensabili per gli uomini (la protezione dei genitori non salverà il figlio, la beatitudine della madre-santa non otterrà il rispetto dei figli, come la durezza del padre non farà di Jack un uomo di successo), la delicatezza della Grazia, il dono, la capacità di vedere dio nelle cose, ossia di osservare il mondo di per sé scollegato dal tempo e dalla contingenza come insieme di creature, il dono di legarsi all’oggetto (creato, materia, uomini, animali, pietre, natura, ecc.), permette di abbracciare il valore e l’unicità dell’attimo, luogo che fonde il tempo in un unico punto, un Aleph (4) che racchiude in sé la comunione con il cosmo e nel caso di questo film, con il cinema.

(1) Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (1583)
(2) Ritengo sarebbe interessante approfondire il discorso sui tre tipi di noia heideggeriana.
(3) Uso “pietas” sia nel significato latino (pio, devoto) che in quello attuale (pietà), in quanto mi chiedo: il Dinosauro prova pietà per l’animale ferito o il suo comportamento rappresenta la devozione della natura verso se stessa, verso il dio che è in ogni essere vivente? Penso più a un gesto simbolico nel senso che Malick ha voluto sottolineare il rispetto per la natura e quindi, nonostante tutto, per lo stesso uomo.
(4) “[…] il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa (il cristallo dello specchio, ad esempio) era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di via Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, […] vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo”. Jorge Luis Borges, L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1975(2), pp. 165-167.