24 giugno 2011

Roma (Federico Fellini, 1972): 1/3 La memoria annullata

Il ricordo più intenso delle mie notti estive di molti anni fa, quando da piccolo uscivo con gli amici per giocare al pallone o a “nascondino”, è il profumo dell’aria che sapeva di ossigeno alla menta, un odore che non riesco più a percepire, sia per l’inquinamento, sia perché l’olfatto di oggi viene disturbato da altri odori, essenze, fragranze che all’epoca erano (almeno nella mia mente) semplificati: l’aroma del caffè nella cucina adombrata, bevuto ascoltando il frinire delle cicale sugli olmi e sui platani dei giardini pubblici; l’effluvio intenso di terra bollente che saettava nelle mie narici durante il temporale improvviso; il fetore di una carogna abbandonata nel terreno invaso dall’artemisia; il profumo che usciva dai cassetti di biancheria inamidata e soprattutto l’odore dolciastro della vaniglia che esalava dal forno semiaperto con la torta ancora calda al suo interno. Ogni volta che vedo Roma di Federico Fellini mi chiedo come potrei costruire un rapporto tra gli odori della mia infanzia e quelli attuali, molto più frastagliati, mescolati, difficili da decifrare (forse perché il mio olfatto con il tempo si è indebolito). E ripenso in particolare alle due sequenze che definirei impropriamente “eduli”. La prima, quando il giovane Fellini negli anni trenta arriva a Roma e partecipa a una cena nella canicola di una piazza estiva insieme a una fauna di personaggi appartenenti al ceto meno abbiente. La mdp si muove fluida scivolando tra i tavoli, soffermandosi a mostrare il primo piano dei volti dei commensali colti a trangugiare fettuccine con rigaglie di pollo, trippa, rigatoni con la pagliata oppure a deglutire chiocciole estratte dalla conchiglia con spilli o forchette; quindi si allontana per inquadrare un campo totale della piazza (ricostruita in studio) invasa da commensali urlanti sporchi di sugo, sudati per il caldo eccessivo, intenti a cibarsi senza alcun rispetto per il proprio stomaco, mentre i tram scorrono a pochi centimetri dalle persone sedute. Camerieri con i vassoi stracolmi di pasta, trippe e altre frattaglie cucinate grossolanamente, semplici ma pesanti, posano i piatti su deschi apparecchiati con bottiglie di vino, acqua e pane, aggiungendo con le mani il grana grattugiato sulla pasta debordante dalle stoviglie dei commensali. Bocche piene di cibo si ostinano a masticare e parlare allo stesso tempo e donne dalle forme generose mostrano le fornite scollature, indici di un erotismo vanificato dal loro stesso modo di cibarsi ed esprimersi, oggi demodé, ma che nel ventennio contava molti estimatori. È un ambiente organico con legami che uniscono le persone, una realtà definita in cui la folla inquadrata si comporta come un unico essere vivente. C’è integrazione, coesione, collaborazione, solidarietà. Predomina il “luogo”. Un’altra festa popolare, la “Festa de Noantri” in Trastevere, ai giorni d’oggi (1) è molto diversa. Siamo nell’era dell’arte concettuale, della contestazione e della complessità. Fellini filma la festa “popolana” (de noantri), ma più la mdp si sofferma a mostrare i tavoli dei commensali, il cibo consumato, i loro discorsi, più le differenze con la “festa” di quaranta anni prima si fanno notare. Innanzi tutto negli anni trenta esplode la freschezza di un popolo sottomesso ma libero di esprimere la propria indole, la purezza, la semplicità, osservate dal giovane Fellini che si tuffa nella folla, che partecipa allo “spettacolo” mangiando chiocciole e bevendo vino, assistendo al bagno di pommarola stagnante sulla bocca di donne e bambini. Le riprese sono lineari, la mdp si muove flessuosa tra tavoli e volti, osserva i gesti semplici, mostra le insegne dei negozi, il caldo della notte che si è condensato sulle facce del “popolo”, la bambina in piedi sulla sedia, la madre che sgrida il suo piccolo, le “fatali” matrone che offrono alla vista di uomini eccitati i generosi decolleté. Oggi invece la festa è organizzata, non è la spontanea abbuffata notturna nelle trattorie che si diffondono fino a invadere la piazza, è un luogo moderno, frammentario, con tavoli separati, turisti, intellettuali che parlano di Roma (“Roma è la città delle illusioni. Non a caso qui c’è la chiesa, il governo e il cinema. Tutte cose che producono illusione”, dice uno scrittore americano), hippy seduti davanti alla chiesa di Santa Maria in Trastevere dispersi poi dalla polizia, un commensale intervistato che giustifica l’uso della violenza, specchiere attaccate al muro di un palazzo, bancarelle con palloni e giocattoli, musicisti, ecc. Affiora nella sequenza l’idea del “non luogo”, un ambiente non relazionale, né identitario, in cui è possibile mangiare o addormentarsi mentre a pochi passi la polizia bastona gli hippy accomodati sui gradini della fontana di santa Maria in Trastevere, dove conta più la ricostruzione mentale di un evento (altrimenti non rappresentabile) della sua stessa verità. La mdp comincia a vacillare, non riesce a indicare un insieme ma solo scene frantumate, viaggia nel mondo notturno tra i vicoli, mostrando tavoli, sedie, gente che cammina, una Magnani che rifiuta di essere intervistata. Ricostruire la Roma contemporanea al film girato da Fellini è molto più complicato che recuperare la Roma del ricordo, quella degli anni in cui uno spettacolo al teatrino della Barafonda permetteva al regista di conoscere una platea capace di disturbare la rappresentazione con urla, offese e battute, perché il divertimento consisteva nell’interazione in uno spazio in cui il pubblico diventava protagonista attivo del proprio mondo. Tutto appariva semplice, i luoghi deputati erano sacri, indiscutibili: il teatro, la proiezione scolastica con diapositiva di nudo femminile che provoca le grida di scherno degli alunni, il bordello dei poveri con le prostitute che invitano i clienti a salire in camera e quello dei ricchi dove il giovane Fellini attende il proprio turno per trascorrere un’ora con la lucciola più bella. Roma mostra pertanto due modi di “appropriarsi” della città . Fellini sente la Roma del ricordo intimamente come sua, un territorio con cui ha condiviso la propria giovinezza e che tramite il ricordo diventa una città ideale. Non intendo affermare che la Roma del passato (anni trenta, quaranta) fosse una Roma migliore. La Roma “classica” vive nel ricordo dell’artista in grado di controllare la vita quotidiana degli umili, di uomini e donne lontani dalla retorica del regime, ma capaci di fare la storia. Lo sguardo distaccato su un passato reso idilliaco dal peso del tempo si contrappone alla crudeltà di un mondo irrappresentabile che lascia adito al dubbio, all’insicurezza, allo smarrimento (gli studenti che chiedono a Fellini di rappresentare Roma; “E la Roma di oggi? Che effetto fa a chi arriva per la prima volta?”). Il filtro del ricordo ha il potere di rendere magica una Roma che non c’è più, città dove ogni cosa sembra chiara, evidente, collocata nel suo preciso e ineccepibile luogo deputato. Lo spazio è ben delimitato, ogni sua porzione è precisamente quella che serve all’evento, realizza un modo immutabile in cui le cose erano e dovevano essere quelle stesse cose. La cena estiva era un modo per ritrovarsi dopo un giorno di dura fatica, per sfuggire all’afa ma anche per stare insieme e partecipare attivamente allo “spettacolo” (2). Pertanto i personaggi che affiorano dal ricordo sono “tipi” riconducibili a una specifica cultura, sono funzioni emotive atte a trascinare, dal limbo di un tempo perduto, il ricordo di un mondo magico. Così per esempio la “matrona” che cerca di sedurre il giovane Fellini, la bambina dalla bocca unta di pomodoro che s’alza sulla sedia urlando, la ragazza col broncio che scende in piazza solo dopo molte insistenze del marito e lascia affiorare un sorriso per poche moine, sintetizzano, attraverso l’emozione del ricordo, la vita, le abitudini e la cultura di un’epoca: non individui ma istanze spazio-temporali che Fellini recupera dal ricordo per confrontare il passato col presente problematico, per cui girare un film su Roma comporta fare scelte senza scadere nel luogo comune. Come lo spazio pretende un confine (l’alea iacta est pronunciata dal maestro di un Fellini bambino mentre guada con la scolaresca il Rubicone) il tempo segue una progressione lineare. Ogni aspetto della vita ha un suo tempo preciso. I personaggi sanno quando dovranno partire e quando arriveranno, sanno quand’è l’ora di ascoltare la benedizione del Papa alla radio; nei bordelli i tempi sono rispettati (e regolamentati da tariffari) e lo spazio tra le prostitute e i clienti ben delimitato; gli attori sanno di recitare su un palco e tutto ciò che avviene dall’altra parte (il pubblico) sarà percepito come un disturbo. Il ricordo di Fellini recupera la benedizione domenicale del Papa seguita alla radio dai fedeli e che era diventata un appuntamento fisso, un momento da trascorrere nel silenzio della famiglia. Il cinema classico possedeva una trasparenza tale da creare un mondo credibile capace di emozionare e meravigliare un pubblico che assiepava le sale in cerca di un posto a sedere. Spazio e tempo erano grandezze d’ordine geometrico ben definite e non ancora intaccate dalla relatività einsteiniana. Le difficoltà nascono nella rappresentazione dell’oggi. Fellini stesso dubita, non sa come rappresentare la Roma moderna. L’ordito che sostiene la Roma filmica del ricordo si scioglie davanti all’irrappresentabile. Come gli affreschi venuti alla luce durante i lavori della metropolitana esibiscono la loro folgorante bellezza, mantenuta nel silenzio e nell’oscurità per millenni prima di essere mostrata a un improvvisato pubblico di operai, ingegneri, amministratori, così quegli stessi affreschi perdono il colore al contatto con l’aria fetida del mondo. Eppure, nell’immaginario collettivo, l’aria negativa corrisponde a quella rimasta imprigionata nei millenni risultando nauseabonda, venefica, irrespirabile, mentre in Roma accade l’esatto opposto. La mdp mostra il luogo immerso in un silenzio sacro, isolato dal mondo, mantenuto intatto e distante (sia nel tempo che nello spazio) prima che la talpa rompa l’ultimo tramezzo rimasto a proteggere la sacralità del sito. Poi, con l’arrivo dello spazio-tempo, dei rumori, dell’aria malefica del mondo, quel luogo profanato comincia a rovinarsi e i bellissimi affreschi si sciolgono in un attimo. I dipinti non raccontano neanche più la loro storia; in quanto rovinati irrimediabilmente possono solo manifestare la loro presenza, una parvenza, mera testimonianza di un tempo lineare relegato nella leggenda del ricordo. Come lo spazio è disgregato e ridotto a un nastro (autostrada) su cui scorre un’umanità che ha perso un baricentro sperando ancora di sostituirlo ponendosi delle domande (la sequenza degli studenti che chiedono a Fellini di avere un punto di vista obiettivo riferito ai problemi drammatici della società, senza mostrare la solita Roma “sciatta e pacioccona”), così il tempo è un unico immenso “hic et nunc”, che mostra l’uomo nella fragilità della propria finitezza, un “qui e ora” che accorpa presente e passato, dove il giudizio sul passato diventa spettacolarizzazione nostalgica di un’epoca ormai conclusa e l’osservazione del presente discorso teso a evidenziare la graduale perdita di gravità di una società in crisi di valori.

(1) Essendo il film del 1972 ovviamente i giorni nostri sono gli anni settanti che visti retrospettivamente sembrano ancora più datati degli anni trenta, ma è chiaro che lo spettatore deve storicizzare la visione e calarsi nell’epoca in cui Fellini gira il film.

(2) Mi riservo di approfondire l’argomento in un prossimo post.

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