10 maggio 2011

Offside (Jafar Panahi, 2006)

Il recinto in cui sono confinate le ragazze in attesa di una decisione delle autorità, posto dietro le tribune dello stadio, diventa per un attimo un campo da gioco teorico. Infatti una delle ragazze cerca di illustrare lo schema della squadra disponendo in “campo” le altre recluse. Questo piccolo fazzoletto incastonato nel cemento rappresenta per una attimo il loro mondo ed è per un attimo metafora della loro vita. Le donne sono recluse in ogni momento della giornata; possiedono cellulari, possono mangiare pasticcini e persino andare al cinema vestite da donne, ma allo stadio, ove si gioca una partita di calcio tra uomini, non è loro permesso entrare. Non possono essere donne, né esprimere la loro peculiarità. Per andare a vedere la partita sono costrette a travestirsi da tifosa-maschio, con i colori della bandiera iraniana dipinti sul volto, con un berretto in testa per nascondersi dagli sguardi dei vigilanti. L’aspetto più interessante del film è la constatazione che dopo tutto le ragazze si camuffano per entrare allo stadio in un modo diverso da come si camuffano ogni giorno per uscire all’aperto. Non è mia intenzione giudicare le usanze e i costumi di un popolo (che meritano rispetto se e in quanto usanze e costumi), ma soltanto evidenziare la possibilità di una costrizione che non si sviluppa soltanto durante una partita di calcio, ma costantemente in ogni aspetto della loro vita. In fondo i soldati che devono controllarle non sono aguzzini, ma ragazzi di leva che desiderano tornare a casa, perché devono aiutare la famiglia a coltivare la terra e l’annata non è stata buona per il raccolto causa la siccità. Il rapporto non è dunque solo tra donna-repressa, torturata- uccisa e potere-carceriere-aguzzino. Il rapporto, l’incrocio tra le tante realtà degli esistenti, si snoda attraverso una complessità inimmaginabile. Il “tempo” in cui sono recluse è un angolo ritagliato da un mondo imperfetto e atroce, voluto e controllato da un potere ctonio capace di insinuarsi nell’animo della vittima convincendola che giudizio e tortura siano valida e giusta espiazione al fine di ottenere la sospirata redenzione. Annichilimento psicologico e plagio portano la vittima a convincersi dell’errore. Se non che l’errore non è antitesi del bene ma solo un’interferenza o una negazione della regola; e se la regola è illegittima l’errore diventa correttivo, acquisisce in pieno il suo significato latino di “vagare, aggirarsi” pertanto allontanarsi da una via definita “retta”. L’errore è un’esperienza di ricerca del proprio io, attraversato dal dubbio e dal timore, ma comunque un percorso necessario per affrancarsi dal dogma o per verificare una supposta verità. Queste ragazze travestite sembrano al contrario possedere la capacità di resistere ai condizionamenti, di opporsi alla regola riuscendo a intaccare il nesso improprio che unisce regola a giustizia. La loro esuberanza riesce a far breccia nell’animo dei soldati “costretti” a obbedire, anch’essi in fondo prigionieri nell’altra ampia parte dello spazio che si trova al di là del fazzoletto recintato ove sostano le recluse. Offside è un film di reclusi, un film sui giovani che dovrebbero imporre la loro visione del mondo anziché dannarsi per giustificare o criticare uno status inappropriato dei fatti. Eppure dietro quelle transenne che dividono le donne dal resto della location sembra albergare la libertà. La reclusione è piuttosto psicologica, è annidata nella mente degli uomini, mentre le ragazze sono in grado di liberarsi dalle proprie paure e legami. Non sono recluse ma donne libere poiché, riferendomi a Socrate, ritengo che la libertà sia una prerogativa dell’animo non uno status “fisico”. Panahi riesce a registrare gli umori e la vitalità di una generazione semplicemente usando lo spazio di uno stadio di calcio che sia anima e si accende nell’arco di tempo di una partita della nazionale iraniana. Il calcio anche qui unisce soldati e ragazze, giovani e anziani; la vittoria della squadra rende grande il paese e inorgoglisce perché chi trasgredisce non lo fa per sabotare lo spirito della nazione, al contrario, talvolta il semplice desiderio di partecipare a uno spettacolo, costi quel che costi, diventa, nel contesto analizzato da Panahi, l’orgoglio di un popolo che ama e onora il proprio grande paese. Girando un film apparentemente leggero con happy and (ove tutta la città festeggia con fuochi d’artificio e offerte di pasticcini la vittoria) Panahi è riuscito a mostrare la debolezza del pregiudizio e della miopia di un potere delegittimato dai fatti e al contempo è riuscito a sviscerare l’innocente e tenera “reazione” dei ragazzi che cercano solo di vivere una semplice giornata in armonia e festeggiamenti. L’espressione più alta della libertà non è sempre e soltanto annidata nei grandi gesti eroici, ma anche nel desiderio quotidiano di potere scegliere. Offside pertanto è l’esito di una scelta con conseguenze; se la tragedia rimane ai margini (ma dannatamente sempre presente) dipende soltanto dal fatto che nessuno vuole smettere di sognare. Pensare alle azioni che si svolgono in campo (poiché alle ragazze non è permesso assistere alla partita) assume un’importanza capitale. Immaginare e ricucire lo spettacolo “invisibile” di una partita in parte intravista tra le sbarre di acciaio delle cancellate, un po’ udita dal racconto verbale di un soldato, un po’ scoperta dall’esultanza del tifo, colonna sonora inesauribile del film, diventa il grido di libertà che non potrà mai essere soffocato . Nessuno può impedire di pensare se non lo si lascia entrare nella propria coscienza. Un film che mi ricorda parte del cinema neorealista italiano, girato durante una vera partita di calcio della nazionale iraniana con tifosi e festeggiamenti veri. L’abilità di Panahi ricorda la grande capacità di Rossellini di sfruttare il materiale “offerto” dal mondo ove il profilmico non è una ricostruzione o una sintesi di location e scenari da teatri di posa. Il mondo di Panahi è l’imprevedibilità del reale, la possibilità che la partita di calcio finisca con una sconfitta dell’Iran. Allora cosa sarebbe capitato alle ragazze? I soldati le avrebbero condotte in carcere? Questa imprevedibilità è la stessa che il regista iraniano ricostruisce nelle maschere utilizzate per nascondere la bellezza della donna. Queste ragazzine travestite da uomini, o meglio, travestite da personaggi stranianti (poiché il copricapo e i larghi vestiti non trovano riscontro nell’abbigliamento maschile), pertanto goffe (la ragazze che va al bagno) o mascoline (la ragazza che fuma) o addirittura soldatesse (la ragazza ammanettata), con i volti bassi per non farsi notare o costrette a nascondersi dietro una foto di un calciatore per andare in bagno senza essere viste, riescono comunque, grazie all’esuberanza, alla voglia di vivere, a mostrare tutta la loro grazia, una bellezza che supera il classico concetto di bellezza femminile=forme-misure per diventare più una bellezza profonda, interiore. Quando la ragazzina, subito dopo essere stata riconosciuta dal vecchio, indossa il chador, mostrando il suo volto dipinto col tricolore della bandiera e incorniciato dal velo nero, l’arte di Panahi sintetizza in un’unica immagine la luminosa bellezza della donna iraniana.

6 commenti:

Ismaele ha detto...

l'ho perso qualche settimana fa, ma adesso lo cerco, mi (ri)viene la curiosità.

ciao

Luciano ha detto...

@Ismaele. Mi è sembrato un buon film e sono curioso di conoscere cosa ne pensi.

ciao e grazie per la visita^^

http://ilcinemonoscopio.myblog.it/ ha detto...

http://ilcinemonoscopio.myblog.it

Ismaele ha detto...

i personaggi dei ragazzi in divisa e delle ragazze in gabbia ci fanno vedere che entrambi sono dalla stessa parte, quella degli oppressi.
è vero, il neorealismo ha insegnato molto e ha lasciato molti eredi nel mondo, pochi e coraggiosi in Italia (mi vengono in mente un regista come Giorgio Diritti e un film come "La pivellina")

Luciano ha detto...

@ilcinemoscopio. Vengo a visitare il blog appena pèossibile. Grazie

Luciano ha detto...

@Ismaele. Infatti, a momenti mi è sembrato addirittura che il recinto fosse più intorno ai ragazzi che alle ragazze. Ragazzi prigionieri del proprio dovere e degli obblighi nei confronti di famiglie di provincia che hanno bisogno della paga del soldato. Ragazze forse più libere, prigioniere nella vita, ma libere nell'anima. Un grande film.
Diritti in effetti è un regista molto interessante e soprattutto nel Vento fa il suo giro mette in mostra la sua vena neorealista.
A presto.