10 maggio 2011

Offside (Jafar Panahi, 2006)

Il recinto in cui sono confinate le ragazze in attesa di una decisione delle autorità, posto dietro le tribune dello stadio, diventa per un attimo un campo da gioco teorico. Infatti una delle ragazze cerca di illustrare lo schema della squadra disponendo in “campo” le altre recluse. Questo piccolo fazzoletto incastonato nel cemento rappresenta per una attimo il loro mondo ed è per un attimo metafora della loro vita. Le donne sono recluse in ogni momento della giornata; possiedono cellulari, possono mangiare pasticcini e persino andare al cinema vestite da donne, ma allo stadio, ove si gioca una partita di calcio tra uomini, non è loro permesso entrare. Non possono essere donne, né esprimere la loro peculiarità. Per andare a vedere la partita sono costrette a travestirsi da tifosa-maschio, con i colori della bandiera iraniana dipinti sul volto, con un berretto in testa per nascondersi dagli sguardi dei vigilanti. L’aspetto più interessante del film è la constatazione che dopo tutto le ragazze si camuffano per entrare allo stadio in un modo diverso da come si camuffano ogni giorno per uscire all’aperto. Non è mia intenzione giudicare le usanze e i costumi di un popolo (che meritano rispetto se e in quanto usanze e costumi), ma soltanto evidenziare la possibilità di una costrizione che non si sviluppa soltanto durante una partita di calcio, ma costantemente in ogni aspetto della loro vita. In fondo i soldati che devono controllarle non sono aguzzini, ma ragazzi di leva che desiderano tornare a casa, perché devono aiutare la famiglia a coltivare la terra e l’annata non è stata buona per il raccolto causa la siccità. Il rapporto non è dunque solo tra donna-repressa, torturata- uccisa e potere-carceriere-aguzzino. Il rapporto, l’incrocio tra le tante realtà degli esistenti, si snoda attraverso una complessità inimmaginabile. Il “tempo” in cui sono recluse è un angolo ritagliato da un mondo imperfetto e atroce, voluto e controllato da un potere ctonio capace di insinuarsi nell’animo della vittima convincendola che giudizio e tortura siano valida e giusta espiazione al fine di ottenere la sospirata redenzione. Annichilimento psicologico e plagio portano la vittima a convincersi dell’errore. Se non che l’errore non è antitesi del bene ma solo un’interferenza o una negazione della regola; e se la regola è illegittima l’errore diventa correttivo, acquisisce in pieno il suo significato latino di “vagare, aggirarsi” pertanto allontanarsi da una via definita “retta”. L’errore è un’esperienza di ricerca del proprio io, attraversato dal dubbio e dal timore, ma comunque un percorso necessario per affrancarsi dal dogma o per verificare una supposta verità. Queste ragazze travestite sembrano al contrario possedere la capacità di resistere ai condizionamenti, di opporsi alla regola riuscendo a intaccare il nesso improprio che unisce regola a giustizia. La loro esuberanza riesce a far breccia nell’animo dei soldati “costretti” a obbedire, anch’essi in fondo prigionieri nell’altra ampia parte dello spazio che si trova al di là del fazzoletto recintato ove sostano le recluse. Offside è un film di reclusi, un film sui giovani che dovrebbero imporre la loro visione del mondo anziché dannarsi per giustificare o criticare uno status inappropriato dei fatti. Eppure dietro quelle transenne che dividono le donne dal resto della location sembra albergare la libertà. La reclusione è piuttosto psicologica, è annidata nella mente degli uomini, mentre le ragazze sono in grado di liberarsi dalle proprie paure e legami. Non sono recluse ma donne libere poiché, riferendomi a Socrate, ritengo che la libertà sia una prerogativa dell’animo non uno status “fisico”. Panahi riesce a registrare gli umori e la vitalità di una generazione semplicemente usando lo spazio di uno stadio di calcio che sia anima e si accende nell’arco di tempo di una partita della nazionale iraniana. Il calcio anche qui unisce soldati e ragazze, giovani e anziani; la vittoria della squadra rende grande il paese e inorgoglisce perché chi trasgredisce non lo fa per sabotare lo spirito della nazione, al contrario, talvolta il semplice desiderio di partecipare a uno spettacolo, costi quel che costi, diventa, nel contesto analizzato da Panahi, l’orgoglio di un popolo che ama e onora il proprio grande paese. Girando un film apparentemente leggero con happy and (ove tutta la città festeggia con fuochi d’artificio e offerte di pasticcini la vittoria) Panahi è riuscito a mostrare la debolezza del pregiudizio e della miopia di un potere delegittimato dai fatti e al contempo è riuscito a sviscerare l’innocente e tenera “reazione” dei ragazzi che cercano solo di vivere una semplice giornata in armonia e festeggiamenti. L’espressione più alta della libertà non è sempre e soltanto annidata nei grandi gesti eroici, ma anche nel desiderio quotidiano di potere scegliere. Offside pertanto è l’esito di una scelta con conseguenze; se la tragedia rimane ai margini (ma dannatamente sempre presente) dipende soltanto dal fatto che nessuno vuole smettere di sognare. Pensare alle azioni che si svolgono in campo (poiché alle ragazze non è permesso assistere alla partita) assume un’importanza capitale. Immaginare e ricucire lo spettacolo “invisibile” di una partita in parte intravista tra le sbarre di acciaio delle cancellate, un po’ udita dal racconto verbale di un soldato, un po’ scoperta dall’esultanza del tifo, colonna sonora inesauribile del film, diventa il grido di libertà che non potrà mai essere soffocato . Nessuno può impedire di pensare se non lo si lascia entrare nella propria coscienza. Un film che mi ricorda parte del cinema neorealista italiano, girato durante una vera partita di calcio della nazionale iraniana con tifosi e festeggiamenti veri. L’abilità di Panahi ricorda la grande capacità di Rossellini di sfruttare il materiale “offerto” dal mondo ove il profilmico non è una ricostruzione o una sintesi di location e scenari da teatri di posa. Il mondo di Panahi è l’imprevedibilità del reale, la possibilità che la partita di calcio finisca con una sconfitta dell’Iran. Allora cosa sarebbe capitato alle ragazze? I soldati le avrebbero condotte in carcere? Questa imprevedibilità è la stessa che il regista iraniano ricostruisce nelle maschere utilizzate per nascondere la bellezza della donna. Queste ragazzine travestite da uomini, o meglio, travestite da personaggi stranianti (poiché il copricapo e i larghi vestiti non trovano riscontro nell’abbigliamento maschile), pertanto goffe (la ragazze che va al bagno) o mascoline (la ragazza che fuma) o addirittura soldatesse (la ragazza ammanettata), con i volti bassi per non farsi notare o costrette a nascondersi dietro una foto di un calciatore per andare in bagno senza essere viste, riescono comunque, grazie all’esuberanza, alla voglia di vivere, a mostrare tutta la loro grazia, una bellezza che supera il classico concetto di bellezza femminile=forme-misure per diventare più una bellezza profonda, interiore. Quando la ragazzina, subito dopo essere stata riconosciuta dal vecchio, indossa il chador, mostrando il suo volto dipinto col tricolore della bandiera e incorniciato dal velo nero, l’arte di Panahi sintetizza in un’unica immagine la luminosa bellezza della donna iraniana.

6 maggio 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 4/4 Campania Corto

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




108 FM Radio (di Angelo e Giuseppe Capasso, Italia 2010)

Un automobilista, un autostoppista, un programma radiofonico. Un viaggio notturno in un crescendo di sospetti e paranoie.

Avvincente e ben congegnato con epilogo degno dei migliori film di genere. Presenta però alcuni momenti statici non funzionali soprattutto nella prima parte.

Voto: 3 (sufficiente)

I tempi della suspense sono rispettati e c’è anche un programma radiofonico che informa della presenza di un killer. Forse si tratta proprio dell’autostoppista. Probabilmente adesso darei più di un tre, perché il motivo che mi ha convinto a votare la sufficienza è stata la staticità dell’incipit o meglio certi momenti per me superflui che potevano essere evitati. Invece, ripensandoci, l’abbrivo lento probabilmente trova la sua valenza nella ricerca di un equilibrio con il fulmineo epilogo. Quando arriva la soluzione del rebus nell’epilogo però sono rimasto un po’ deluso, non per l’esito che poteva essere previsto al 50 per cento (insomma uno dei due) ma proprio perché la storia non evita il suo ovvio aut aut e si qualifica come un film binario che potrebbe anche essere interessante (nel caso di una scelta in una location diversa dall’abitacolo di un’auto), ma che non lascia spazio ad alcuna alternativa (un altro autostoppista o un compagno di viaggio dell’autista?). Ad ogni modo il corto in parte funziona perché i momenti salienti riescono ad emozionare lasciando sempre la possibilità di dubitare. Non fidarsi mai delle apparenze.


Armandino e il Madre (di Valeria Golino, Italia 2010)

Nel cuore di Napoli, tra vicoli stretti, antichi palazzi e qualche abuso edilizio c’è il MADRE, Museo d’Arte contemporanea, ospitato nello storico Palazzo Donnaregina. Armandino è un vero scugnizzo napoletano, anche se la sua famiglia ha origini Rom. Per lui il Museo è un po’ casa un po’ luna-park, è abituato a scorrazzare in quelle grandi sale fin da quando era piccolissimo. Anche suo fratello maggiore Roberto ha una certa fama tra le ragazze che lavorano al Madre. E’ furbo, sveglio e bello come il sole. Tutti lo chiamano lo “zingaro”. Sara, da poco laureata e appassionata di arte contemporanea, si è specializzata in restauro e manutenzione delle opere. Da qualche mese lavora al MADRE. Sara e Roberto si piacciono ma non mancano le incomprensioni. Il piccolo Amandino - con un ottimo fiuto per gli affari - si propone da intermediario in cambio di ricompense da parte del fratello. In una girandola di luoghi, resi ancora più suggestivi dalle installazioni di artisti contemporanei del museo, si svolge il gioco amoroso tra Sara e Roberto.

Bella fotografia e regia di buona fattura (complimenti a Valeria Golino), ma il film è un museo di stereotipi con epilogo degno di mille identiche storie appaganti. Peccato perché il rapporto tra il museo e la Napoli popolare di oggi presenterebbe tematiche interessanti da approfondire. Invece qui si rimane costantemente sulla superficie della "tela".

Voto 2 (scarso)

Il Corto non è pessimo nonostante il voto. Una buona fotografia e una regia sufficiente contribuiscono a rendere le immagini gradevoli , ma purtroppo il Museo d’Arte Donna REgina, pur essendo un luogo molto attraente e interessante, solo per il fatto di ospitare opere di grande levatura (ad esempio la celeberrima “Merda d’artista” di Piero Manzoni), non riesce a tenere da solo in piedi il film. Troppi luoghi comuni, immagini ovvie e consumate. Dal bambino che nonostante tutto non si integra col museo (nel senso che non c’è stato neppure il tentativo di illustrare il rapporto tra le opere esposte nel museo, ciò che vogliono evocare o rappresentare, con le problematiche di un bimbo rom “gettato” nell’arena della sopravvivenza), né interagisce con i personaggi che incontra lungo il suo percorso, a Sara, una restauratrice che lavora al museo, fino a suo fratello Roberto, innamorato di Sara. Non c’è una relazione tra i personaggi e Armandino è soltanto un intermediario che deve rappresentare l’amore di Roberto per Sara. L’epilogo poi, con lo pseudo-suicidio di Roberto e il trionfo dell’amore sul terrazzo del museo con vista sui tetti di una bellissima Napoli, è il tripudio di stereotipi troppo consumati per dare un valore al film. Peccato perché certe immagini sono molto belle anche se troppo patinate e capaci di ricordare spot pubblicitari. Non a caso il corto è stato finanziato dalla pasta Garofalo. Il bacio finale con abbraccio inquadrato dal basso dell’entrata al Museo e l’inquadratura seguente, che reitera l’abbraccio nella notte fra i due innamorati ripresi stavolta a poca distanza insieme al piccolo sorridente intento a guardare in macchina, superano ogni limite e invogliano a chiudere il video. Fortunatamente è solo l’ultimissimo fotogramma.


Il sogno di Gennaro (di Antonio Manco, Italia 2010)

Gennaro è un meccanico-saldatore del centro storico di Napoli. Una giornata apparentemente come le altre gli dà l’occasione di realizzare il suo sogno…

Incipit buono e sequenza del sogno interessante ma poi il film si perde andando a cercare consenso con un epilogo scontato. Struttura debole e dialoghi poco approfonditi.

Voto 2 (scarso)

Corto forse ancora più retorico di Armandino e il Madre che reitera il solito epilogo con esaltazione dell’amore “vero” in stile “poveri ma belli”. Incipit buono con i due meccanici che sperano di cambiare la loro vita col gioco del lotto, se non che riescono davvero a vincere, come spesso capita in certi film made in Usa di bassa fattura che hanno ormai esaurito il senso del sogno di ogni giocatore: vincere per cambiare la propria vita. Purtroppo non si racconta quanto il gioco sia dannoso e quante persone abbiano rovinato la propria vita per questa dipendenza. Ma qui il gioco è solo un espediente per giungere infine a raccontarci che il vero amore non ha bisogno del danaro. Peggio di così. Il sogno di Gennaro non è la ricchezza ma l’amore. Trionfo della banalità. Fortunatamente il film si salva in parte per l’interessante sequenza del sogno girata anche molto bene. Questo significa che l’autore possiede qualità e idee.


La colpa (di Francesco Prisco, Italia 2010)

Mauro è un tignoso avvocato che crede di sapere tutto di sé e degli altri. Sarà un misterioso mediorientale, durante una mattina come tante, a far vacillare le sue certezze e a fargli capire che non sempre tutto è come sembra…

Strutturato molto bene ma non aggiunge niente di nuovo al genere.

Voto 3 (sufficiente)

Sulla qualità del film niente da eccepire. Ottima regia, ottime sequenze, fotografia da antologia. Suspense con colpo di scena, tante emozioni. Forse avrei potuto anche dare un quattro perché in effetti il film merita e non a caso ha vinto la sezione del festival dedicata a Campania Corto. Però secondo me questo lavoro non è all’altezza di almeno altri due corti (La currybonaria e Reset) perché in fondo reitera i cliché del genere e non riesce a uscire da certi luoghi comuni, quegli stessi che vuole mettere alla berlina. Per luoghi comuni intendo l’idea dell’arabo presunto terrorista che invece risulta essere una brava persona qualsiasi (ma anche un abile insegnante che si permette di dare una lezione di vita all’orgoglioso avvocato). Al contrario ritengo che sarei rimasto sorpreso di più se il colpo di scena finale fosse stato davvero rivolto “contro” l’avvocato (o una vera esplosione o magari scoprire l’avvocato quale mandante dell’atto criminale). Insomma, qui non si esce da una certa idea preconcetta mentre il mondo naviga nella complessità e nell’impossibilità di definire qualsiasi cosa. Non vi sono certezze, ecco… invece l’epilogo lascia credere nella quadratura del cerchio.


La currybonara (di Ezio Maisto, Italia, 2010)

La currybonara è una commedia in stile “spaghetti western” che ha per tema lo scambio culturale e l'integrazione razziale attraverso il cibo. Come nei classici western americani, che raccontavano la sanguinosa conquista delle fertili terre del selvaggio West da parte dei pionieri provenienti dall’Est, anche l’indiano ROBIN e la slava OLGA sono emigrati a Ovest per cercare fortuna. Ma la desolata landa di terra promessa che sono faticosamente riusciti a conquistare è ogni giorno minacciata da MARINA, una “pericolosa” nativa del luogo.

Contaminazione come superamento del duello e ricerca di un nuovo modo di convivenza e integrazione. Il mondo dei paria esaltato dalla fantasia e la genialità per costruirsi una vita. Curry-bonara: un piatto da servire al mondo. Ottimo montaggio soprattutto nell'alternarsi dei primi piani. Attori molto bravi. Ottima regia.

Voto 5 (ottimo)

Cortometraggio stupendo, di una bellezza che trasporta l’anima in un luogo “differente” ove la vita unisce anziché dividere, dove il rispetto si mescola all’amore e le differenze sono un valore anziché motivo di divisione. Il rapporto tra l’indigena Marina (una romana amante della carbonara) e l’indiano nonché benzinaio Robin si sviluppa tramite la ricetta italiana della carbonara e i gusti dell’indiano Robin tutt’altro che condivisi dalla nativa. E il loro comportamento viene attentamente valutato e registrato da Olga, una bellissima slava, che purtroppo deve guadagnarsi la vita vendendo la propria bellezza. Ma la peculiarità di questo corto, sua caratteristica fondante e “ironica”, viene esaltata dal modo in cui è stato girato, ossia nel rimarcare il rapporto tra i tre protagonisti come se il loro incontro avvenisse nelle desolate lande del Far West. Un mezzogiorno di fuoco che si trasforma in un “mezzogiorno di cuoco” come evidenziava una vecchia pubblicità, per cui le armi che i due contendenti (Marina e Robin) estraggono non sono revolver pronte a scaricare piombo nel corpo del nemico, ma un cuscus al curry e un panino con la porchetta. La contaminazione e l’incontro tra culture differenti attraverso il cibo conferisce al film un sapore diverso. Anche la grama e dura vita del far west, dove i cavalli sono auto che bevono benzina, dove le dame sono donne in attesa del cliente (i vestiti che Olga porta nell’incipit somigliano molto alle vesti delle ballerine da saloon), presenta dei momenti di grande umanità in cui l’amicizia si esalta nella “fusione” di culture diverse dando vita a una nuova immagine di bellezza. La Currybonara non è solo esempio di cucina fusion (come evidenziato nell’epilogo), ma una nuova formazione artistica, un collage di “pezzi” poveri e insignificanti che, se accostati dal lavoro dell’artista, danno forma a un manufatto artistico di umanità e fantasia composto di tolleranza e comprensione, un’opera d’arte che innesta e presenta una nuova arte popolare.


La sagra della primavera (di Giovanni Prisco, Italia 2010)

Con l’arrivo della primavera, in una tranquilla campagna del sud, un uomo si appresta a sacrificare una vita. Gli unici presenti sono gli animali, indifferenti alla morte, ed una ragazza, che spera di cambiare il corso degli eventi.

Probabilmente dipende da me che non sono riuscito a entrare in sintonia con questo lavoro. Obiettivamente è girato bene, le inquadrature sono precise, ma la sceneggiatura mi sembra slegata e il messaggio (ammesso che possa avere importanza) ambiguo.

Voto 2 (scarso)

Questo forse l’unico corto che vede il mio giudizio minoritario rispetto alla maggioranza dei giudici web. Probabilmente merita i buoni voti ricevuti, ma secondo me presenta alcuni punti deboli in cui il corto si inceppa e non riesce a uscire dall’impasse. Quando il maiale viene ucciso e macellato la natura accetta impassibile (la mucca che si immobilizza per un attimo, i polli che fuggono al suono dello sparo) l’esito di un gesto che si ripete da sempre e proseguirà finché l’umanità forse un giorno sarà cambiata. Questa realtà bruta ma sempre identica, che non accettiamo di vedere, ma che accettiamo quando gustiamo un panino col salame, potrebbe avere un’alternativa identica. Questo ossimoro si esplicita nello scambio evidenziato nell’incipit, poiché se il maiale è salvo la stessa sorte potrebbe toccare alla donna. Insomma il cambiamento, il superamento dell’atroce “tradizione” richiede un’altra vittima sacrificale. Tutto molto interessante ma purtroppo non sono rimasto convinto dalle immagini che mostrano la macellazione del maiale (immagine reale di un maiale macellato per la gioia degli appassionati e il disgusto degli animalisti) mentre, per ovvie ragioni di budget, non abbiamo assistito alla macellazione della donna. Pertanto l’immagine del sacrificio umano (ma verrà trasformata in insaccati innestando forse un meccanismo senza uscita che potrebbe arenarsi nel tabù del cannibalismo?) sembra solo bondage fine a se stesso.


Reset (di Nicolangelo Gelormini, Italia, 2010)

Tra sogno e realtà, vita e morte di un uomo alla ricerca di se stesso.

Come hanno scritto anche altri cinefili, si notano atmosfere lynchiane rese molto bene. Sceneggiatura originale con sequenze formalmente ineccepibili. Un piccolo gioiello. Per me il migliore della sezione Campaniacorto.

Voto 5 (ottimo)


Il migliore cortometraggio della sezione e uno dei migliori tra i trentotto presentati al festival Ottimo thriller, grande suspense, e soprattutto ottime atmosfere lynchiane. Montaggio perfetto che alterna il “qui e adesso” con i flashback indispensabili per ricostruire il rapporto tra il padre e la figlia, ma anche per seguire la ricerca del probabile assassino, tra realtà, ricordo e incubi del protagonista. Ma gli incubi (vere e proprie sequenze lynchiane) non sono soltanto la ricostruzione mentale di un ricordo frantumato che deve riaffiorare alla superficie. Il modo in cui sono stati inseriti (la casa sulla scogliera, la balaustra che si affaccia a strapiombo sulla scogliera, la ragazza che appare urlando nella notte), montati con altri pezzi del visibile (interrogatorio, incontro al bar del padre con la figlia, l’incontro con la madre, il tentato suicidio in carcere, ecc.), contribuiscono a formare una sorta di chimera, un animale formato da pezzi reali di animali diversi, e pertanto decisamente infiltrato nel reale perché capace di amalgamare ogni aspetto della vita e dell’animo umano. Un film pregevole, di grande qualità che per me avrebbe meritato di vincere la sezione Campania Corto.


Vomero travel (di guido Lombardi, Italia, 2010)


Vittorio ha 14 anni, studia al liceo, abita al Vomero (il quartiere "bene" di Napoli) ed è un fan dei "Roca Luce": un gruppo hip hop di 4 ragazzi appena maggiorenni. Questi invece abitano nella periferia nord di Napoli, di cui raccontano, nelle loro canzoni, il degrado e la violenza. Attraverso il loro incontro scopriranno entrambi che sebbene separati da pochi chilometri di metropolitana, i mondi a cui appartengono sono molto, molto distanti…

Interpretazioni buone ma sceneggiatura debole e resa registica inconsistente.

Voto 2 (scarso)


Gradevole da vedere ma inconsistente. La differenza tra i due quartieri di Napoli, il Vomero (quartiere bene dove abita Vittorio) e Scampia non esce allo scoperto. Va bene puntualizzare la giornata al Vomero in quanto metro di misura della differenza di mentalità, comportamento e modo di parlare tra i Roca Luce e Vittorio, ma questa giornata a passeggio nel quartiere bene risulta evanescente, debole, non colpisce, non mette in evidenza le differenze, la lotta quotidiana per la sopravvivenza di un ragazzo della periferia nord della città, mentre un suo coetaneo del Vomero pensa e si preoccupa magari di superare un esame scolastico. Non c’è quella forza, quella tenacia che mi sarei aspettato, ma solo una piacevole serata tra amici, un modo di comunicare e di frequentarsi. Niente di più.

4 maggio 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 3/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




Pravidelný odlet (di Tomas Pavlicek, Repubblica ceca 2010)

Un film profondamente motivato su un immotivata amicizia tra due emigranti: Ondrej, ventenne che è ancora confuso dal suo futuro, e Karel, cinquant’anni, anche lui confuso.

Film dinamico, effervescente, con inquadrature e sequenze equilibrate. Montaggio ottimo che ci conduce velocemente all'epilogo. Sceneggiatura di qualità.

Voto: 4 (buono)

Sul momento mi è piaciuto molto e il mio quattro è sembrato forse un po’ penalizzante. Indeciso se dargli cinque, più ripenso al cortometraggio, più mi rendo conto che invece il mio voto è stato un po’ largo. Il film mi è piaciuto naturalmente ma forse avrei voluto vedere altre sequenze con l’auto della polizia che insegue i nostri eroi (metterei in auto anche il ragazzo) intenti a fuggire verso una libertà solo immaginata. Comunque sempre un buon corto soprattutto per la dinamicità delle sequenze e per l’originale amicizia far i due che regala emozioni.


Promíll (di Marteinn Thorsson, Islanda 2010)

Ad Erik piace bere un bicchiere di tanto in tanto. Il giorno dopo una bella festa, seduto con la sua ragazza a chiacchierare, incontra delle persone di cui non si ricorda. Erik è in profonda difficoltà …

Un corto interessante e stimolante per la cura delle originalissime riprese, ma un po' confuso e impreciso. In effetti sembra che il regista non voglia cucire fino in fondo il film: forse anche questa una sua precisa scelta.

Voto 3 (sufficiente)

Dispiace molto aver dato un tre a questo corto (anche se sempre sufficiente), perché in effetti il regista probabilmente voleva, nel girare sequenze di tal genere, provocare nello spettatore un effetto straniante. E infatti la fotografia è ottima e le sequenze inquietanti. Probabilmente siamo in una sorta di sogno e l’intruso dell’epilogo potrebbe confermare o il risveglio del protagonista da un sogno o il perdurare del suo delirio dovuto all’alcolismo. Purtroppo il corto risulta nell’insieme caotico. Per mostrare il “caos” serve una solida struttura che questo corto non possiede anche probabilmente per “mancanza” di tempo; forse un certo tipo di “analisi” dell’alcolismo (con eventuale sconfinamento nella descrizione del delirio) necessiterebbe di uno sviluppo narrativo consistente, altrimenti non si esce dal materiale informe, come informe infatti mi sembra il lavoro in questione. Nonostante ciò sono convinto che Promíll sia soltanto un esperimento, un tentativo di ricerca e analisi che potrebbe aprire il cinema a nuove frontiere. Nel caso specifico sarebbe stato molto emozionante vedere il delirio e l’alcolismo come soggetti puri della ricerca al di là di ogni narrazione attanziale, luogo in cui la disperazione assume nuove forme e regole. Troppa carne al fuoco che ha reso il corto un esperimento fine a se stesso che non regala emozioni.

Sposerò Nichi Vendola (di Andrea Costantino, Italia 2010)

L'Italia di oggi è in constante crisi economica e sociale. Il paese si confronta con la Rete. Beppe Grillo propone un rivoluzionario disegno di legge di iniziativa popolare firmato da 350.000 cittadini italiani. Nel sud Nichi Vendola, un politico dichiaratamente omosessuale, cattolico e comunista, conquista una popolarità inaspettata, mentre la crisi obbliga la famiglia Amoruso a vendere la propria casa.

Ottimo soggetto ma relaizzato con un montaggio scadente e confusionario che non riesce a "legare" il film. Peccato perché ci sono alcuni spunti di valore(ad esempio: la voce fuori campo di Vendola nel sogno della nonna) che da soli non salvano l'opera.

Voto 2 (scarso)

Rivedendolo purtroppo devo confermare il giudizio espresso “a caldo”. Il materiale è notevole e proprio per questo doveva essere trattato con maggiore maestria. Purtroppo sembra tutto così raffazzonato, caotico, slegato. Per volere trattare tanti argomenti finisce col non realizzare niente di interessante. I vari segmenti (famiglia Amoroso costretta a vendere la casa, Bepep Grillo, conquista della regione Puglia da parte di Vendola) non sembrano bene amalgamati. La storia della famiglia (o meglio delle sue donne) sembra indebolirsi lentamente lungo il dipanamento del film fino a svanire soffocata dalle notizie della politica e dal discorso dell’epilogo di Nichi Vendola. Anche in questo caso mi sembra che le tematiche avrebbero avuto bisogno di maggiore “spazio e tempo”.

Thermes, (di Banu Akseki, Francia 2010)

Joachim ha quindici anni. Vince due inviti per un centro benessere e decide di andare con la madre. Entrambi sono proiettati in un rifugio insolito di buona salute, che li spinge in direzioni divergenti. Il dramma eterno della solitudine viene giocato in questo microcosmo acquatico ...

Mi è piaciuto per le sequenze che scivolano lente fino all'epilogo. Bellissima l'inquadratura fissa della madre che si spoglia in un'area nudisti della durata di circa due minuti. Ottima fotografia come l'uso attento e studiato dei colori dominanti (giallo, blu, bianco, nero). Sceneggiatura buona. Bravi interpreti.

Voto 5 (ottimo)

Un modo di fare cinema molto attraente. Emozioni che scaturiscano dagli oggetti, dai colori, dal silenzio delle lunghe sequenze e ovviamente dall’umanità dei personaggi che aleggia nell’iconico, permeando gli oggetti, i luoghi e soprattutto l’acqua. Akseki ha utilizzato magistralmente il colore, soprattutto azzurro e blu scuro che dominano poiché ci troviamo nelle terme e quindi l’acqua è il liquido che inonda e protegge l’angoscia dei protagonisti, un luogo dove tuffarsi e accoccolarsi per proteggersi dall’alito freddo del mondo. Eppure l’acqua (e le tonalità del blu che sconfinano nel nero di alcune sequenze) diventa l’alito gelato che isola ancor più i protagonisti (Joachim e sua madre). L’azzurro delle prime sequenze (la grande piscina che si riflette nelle alte vetrate che separano il luogo dall’esterno, l’idromassaggio che carezza e allieta Joachim e l’occasionale compagna appena conosciuta) lentamente si fa più scuro ricordando quasi un’acqua abissale che nasconde i timori e le angosce dell’anima. Niente può cambiare il loro status, neanche quando attraversano luoghi più “caldi” (la madre che uscendo dallo spogliatoio cammina al fianco delle cabine di un frizzante giallo limone, luogo di pausa prima del tuffo nell’azzurro delle piastrelle). Stupenda la lunghissima sequenza (e trattandosi di un corto acquista maggiore consistenza) in cui la madre entra in un luogo relax frequentato da nudisti ove lei si sente obbligata a spogliarsi; e notevole anche l’epilogo quando Joachim, emergendo dalla notte della piscina, vede stagliarsi sul bordo, immersa nel blu sfocato dello sfondo, sua madre nuda che tenta vanamente di ripararsi dietro la sua borsa a tracolla. Qui le immagini e il colore assecondano magnificamente la disperazione e la noia, l’incubo che si fa reale (nudi in pubblico) poiché le nostre paure più grandi racchiudono il timore di aprire le profondità dei nostri segreti al mondo.


Tre ore (di Annarita Zambrano, Italia, 2010)

Roma, un padre è stato condannato per omicidio e deve spiegare a sua figlia che starà via per un po’…per farlo ha solo 3 ore.

Un film freddo, che sembra montato senza convinzione. Peccato perché il tema è molto interessante e il dialogo padre figlia un'idea brillante. Purtroppo il dialogo tra i due sembra inconsistente, non appassionante, didascalico.

Voto 2 (scarso)

Perché Tre ore non mi e piaciuto? Eppure un padre che sta per andare in carcere e deve spiegare alla figlia che se ne andrà per un po’, potrebbe essere argomento interessante. Non saprei. Forse perché il dialogo è senza pathos, sembra un banale dibattito pubblico con domande e risposte, non c’è l’umanità che soffre, non c’è la famiglia della vittima, né vi sono motivazioni profonde, anzi, il padre riesce pure a fare velate minacce nei confronti del compagno di classe della piccola. Non si capisce chi sia questo padre, personaggio che respinge, butta fuori dal fotogramma ogni tentativo di approfondire il suo status emozionale. Riporto un brano ripreso da un commento di un giurato web che rende bene l’inconsistenza di questo corto: “La bambina si sforza d'esser naturale e appare robotica”. Un film robotico.


Ultima donna (di Tristan Aymon, Svizzera, 2010)

Dr. Bertoz, 80 anni, è rimasto vedovo due anni fa e vive sola nella sua villa borghese. Sua figlia Florence, 50 anni, è una donna attiva, che non ha più tempo per occuparsi di suo padre. Assume una cameriera, Daniela, una giovane di 22 anni, portoghese. Il suo compito è quello di preparare i pasti e occuparsi delle faccende domestiche. In un primo momento, il dottor Bertoz è molto recalcitrante nei confronti di Daniela, ma a poco a poco questa suscita il suo interesse, in particolare grazie alla sua sensibilità per la musica classica. La complicità si sviluppa tra i due personaggi. Florence, visitando regolarmente il padre, osserva l'evoluzione del rapporto e si ingelosisce.

Il film mi ha emozionato. Stupenda anche per me la sequenza del bagno. Sceneggiatura splendida. Interpretazione di ottimo livello.

Voto 4 (buono)

Emozioni, emozioni. Un corto costruito molto bene che analizza il rapporto tra il vecchio e la giovane badante finché tra i due stabilisce un’intesa spirituale, una affinità che va al di là delle differenze di razza, sesso, religione, ceto sociale. Ci sono solo l’uomo e la donna, al di là di ogni convenzione, due anime che riescono a connettersi, a vivere semplici emozioni. Il Dott. Bertoz così non si sente più un vecchio inutile, gestito da sua figlia Florence come un pacco, un oggetto messo lì, seduto, che è quasi più “oggetto” fastidioso che essere umano da proteggere e aiutare soprattutto perché così impone decoro e decenza di una società tollerante. Il Dott. Bertoz pertanto lentamente si riappropria della sua centralità di essere umano ricominciando a sentirsi utile grazie a Daniela, la badante amica, che dona un nuovo tipo di amore al vecchio, un amore che sarebbe riduttivo definire contaminazione tra l’amore della figlia e dell’amante e infatti Daniela non è né la figlia, né l’amante ma è la donna.


Vannliljer I blomst (di Emil Stang Lund, Norvegia, 2010)

Il guru del nuoto sincronizzato, Labanosov, convince le donne in sovrappeso ad unirsi a lui nella sua missione: dimostrare nei campionati, che Isaac Newton si è sbagliato a proposito della gravità.

Corto affascinante e magico. Divertente, originale. Un perla che probabilmente non potrò più vedere

Voto 4 (buono)

Visionario, divertente, affascinante. Il cinema può anche annullare la forza di gravità e trasformare una squadra di obese nuotatrici di nuoto sincronizzato in acrobate volanti. L’acqua stessa della piscina è un fluido celestiale in cui le atlete volano come sospese in un liquido che non porta nell’abisso, ma (come si evince anche dall’inquadratura della nuotatrice dell’incipit che si lascia trascinare a fondo senza opporre resistenza) sembra trascinare in alto,come se il mondo emerso sia situato in basso e tutto l’alto sia un magma liquido in sospensione. L’acqua è un mondo magico in cui la gravità annulla la differenza di peso azzerando la “moda” (nel senso che non conta più l’abito e una certa idea di bellezza femminile imposta), liberando appunto l’essenza intima dell’essere umano, la sua interiore bellezza che va al di là dell’aspetto fisico di un involucro definito “bello” in quanto pertinente a un certo modello fittizio di beltà. Così come la newtoniana legge di gravità perde consistenza davanti alla magia della bellezza dell’anima.


Xie Zi (di Giuseppe Marco Albano, Italia, 2010)

La storia di un uomo e di un bambino (cinese) lontani e divisi dalle proprie differenze sociali e culturali, ma al contempo molto vicini e legati da un destino in comune.

Il film non è male anche se si indebolisce un po' nell'epilogo. Il rapporto tra i due non è stato approfondito e rimane come offuscato da una nebbia che non lascia passare le emozioni.

Voto 3 (sufficiente)

La storia di un uomo e di un ragazzino cinese e del loro non-rapporto non riesce a scaldare l’anima. Il contrasto tra la dura vita del ragazzino che lavora di giorno nel ristorante di famiglia mentre la notte rifinisce scarpe e quella dell’uomo che guarda Bruce Lee alla tv insieme al figlio, non è reso con forza ma si assottiglia in un non-dialogo abbandonato a se stesso, mentre ad esempio avrei visto bene almeno un incontro (magari anche “negativo”) fra i due in una zona “neutrale”, al di là della strada che li divide. L’uomo che gestisce una boutique non sa che le scarpe vendute potrebbero essere le stesse fabbricate dal bambino e pertanto il suo probabile disprezzo potrebbe affievolirsi. Al contrario una “rivelazione” o la casuale scoperta del piccolo intento a lavorare di notte in un capannone per fabbricare scarpe e vestiti (forse gli stessi della boutique gestita dall’uomo?) avrebbe dato maggiore pathos al film. Invece i dieci minuti della durata mi sembrano sprecati, come lasciati scorrere per puntualizzare e rimarcare le stesse note. Ritengo che sarebbero stati sufficienti i primi tre minuti per lo stesso messaggio e in modo da lasciare il resto del tempo nel flusso emozionante di un incontro-scontro nella notte sotto un capannone abbandonato dalla civiltà occidentale ma luogo di lavoro e sofferenza per un’altra civiltà parallela rappresentata dal piccolo cinese Xie Zi.


Zu Hause (di Nenad Mikalacki, Serbia-Germania, 2010)

Una signora anziana va dalla Germania in Serbia per visitare la casa della sua infanzia.

Parallelamente, due ragazzi deportati, tornati in Serbia, cercano di sopravvivere in condizioni di vita totalmente diverse. Le dicono che possono aiutarla a trovare questa casa…

Altro corto girato bene. Sceneggiatura equilibrata, interpreti molto bravi

Voto 4 (buono)

Il ritorno alla propria casa dell’infanzia in un paese abbandonato probabilmente al seguito di genitori che emigrano per lavoro non sempre riesce a suscitare forti emozioni come questo corto in cui l’anziana signora, giunta quasi al traguardo (la propria cara vecchia casa) decide di tornar sui suoi passi. Il passato è una meraviglia del ricordo e soprattutto del ricordo di un’immagine. Volerlo mettere alla prova per assaporare ancora quei magici momenti può comportare grandi rischi tra i quali la presa di coscienza,l’assoluta consapevolezza di avere scoperto finalmente il tempo,di avere capito che questo tempo trasforma e deforma la realtà (rimasta però intatta nella nostra mente) fino a trasfigurarla e a renderla diversa da quella che rammentavamo. O è la nostra mente che decora e rende migliori i ricordi?

Zwischen Rimmel und Erde (di York Fabian Raabe, Germania, Costa d’Avorio, 2010)

Koroballa e Tiemogo sono due fratelli, nati e cresciuti in una borgata della costa D’Avorio. La morte del padre e la mancanza di prospettive future convincono Korballa ad abbandonare il suo paese.

Anche questo si lascia vedere con piacere. Sequenze alternate di grande impatto visivo. Plot che emoziona e lascia riflettere. La sofferenza non è mai completamente mostrata al mondo. Ottimo.

Voto 5 (ottimo)

Molto bello ed emozionante. Il contrasto tra la vita nel clima caldo e accogliente della Costa d’Avorio e il percorso di fuga dalla propria miseria per la ricca Europa lascia l’amaro in bocca. Abbandonare il proprio mondo è come perdere un pezzo di se stessi e il gelo che avvolge i due protagonisti non è solo metafora del mondo che li aspetta (o dovrebbe aspettarli) ma anche della scelta di una speranza troppo grande da sopportare. La speranza di una vita migliore che richiede il più grande sforzo: la perdita del proprio mondo, della famiglia, della donna amata e infine del fratello, compagno di fuga, abbracciato nel gelo di una carlinga di un aereo appeso in un cielo freddo e lontano.