8 aprile 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 3/3: balletto oppure no

L’andamento ellittico dell’epilogo conferisce al film la capacità di concentrare il flusso delle emozioni amplificando le probabilità che lo spettatore riesca a proiettare nella storia di Nina la propria affezione o al contrario sentirsi distante dal mondo della ballerina schizofrenica e dalle sue allucinazioni. Per questo il film può allo stesso tempo essere amato o odiato. A questo punto provo a ipotizzare due scenari opposti configurando due aspetti dello sguardo e della conseguente probabilità che le emozioni coinvolgano o respingano mettendo in crisi o avallando le aspettative diegetiche.

Primo scenario: il balletto si guarda piangendo
Quando Rothbart scatena la tempesta sul lago e le onde impediscono al principe di unirsi a Odette, mentre le note di Čajkovskij della scena finale del IV atto sottolineano romanticamente la disperazione degli amanti che affondano nel lago unendosi per sempre in un amore eterno, perché vorrei assistere a un happy end? Oppure: perché sono soddisfatto nel vedere Siegfried e Odette che vedono realizzato il loro sogno d’amore? L’inganno del cigno nero è stato svelato e finalmente Odette può danzare felice con Siegfried, ma Rothbart rovina tutto trascinandola via nel suo lago. Odette rimarrà sempre un cigno e l’amore che trionferà sarà quello superiore: un amore immortale. Anche l’amore romantico più profondo, quello che si stampa sull’ultimo fotogramma di un film, che si congela, o in un lieto fine o in un altro epilogo, sospende il senso, rimane vincolato a un dopo che il racconto non svela, ma lascia al libero arbitrio di ogni fruitore. Cosa succederà nel prosieguo della vita dei due amanti?. Qualunque sia l’epilogo, l’amore eterno che i due innamorati si professano rimane congelato nell’attimo stesso dell’ultimo fotogramma, come se il poi non rientri nella sfera semantica del racconto (film o romanzo). La felicità dell’amore, il punto d’approdo delle mille peripezie dei due innamorati (un percorso di sofferenze che è anche una prova da superare) è solo l’attimo dell’epilogo in cui il senso dell’amore si sbilancia nell’eternità mostrando la forza dirompente di questo meraviglioso sentimento. L’epilogo di una storia d’amore che si risolva nel coronamento dell’amore (e vissero felici e contenti) o nella rinuncia (sempre per amore), rende immortale l’attimo che suggella il superamento delle prove, restituendo al cuore la potenza del sentimento immortale che sopravvive per sempre nell’immaginario collettivo. Il dopo non è previsto né è prevedibile, poiché il dopo riporta direttamente la storia d’amore nella vita, propone una mondanità capace di annichilire la tragedia. Quando Nina si trova esausta sul materasso con il ventre sanguinante, nel rispondere alla domanda di Thomas (“Che cosa hai fatto?”), pronunciando la confessione che la rende finalmente libera (“Mi sentivo perfetta. Ero perfetta”), non fa che rimarcare la sospensione del senso nell’attimo dell’epilogo. Il tentativo di Aronofsky (non saprei dire se riuscito o meno) sembra trascinare la tragedia dentro il bagliore accecante dello schermo che ritorna bianco mentre il pubblico scandisce il nome di Nina in un tripudio di applausi. Il dopo è la tragedia dello schermo che rimane bianco e incapace di rinunciare a ingannare l’immaginario, incapace di rapportare il disastro degli eventi (Nina è solo una persona malata che non riesce a stabilire un equilibrio con il suo io). Per svellere i cardini di una storia che potrebbe essere simile a tante (ad esempio un parallelo tra l’amore eterno di Odette con Siegfried e l’amore eterno tra una prima ballerina del Lago dei Cigni e il suo direttore artistico) Aronofsky ha bisogno di utilizzare molti ingredienti: innanzi tutto ha bisogno della meravigliosa musica tardo romantica di Čajkovskij, ha bisogno di una storia d’amore immortale che prosegue oltre la vita e ha bisogno di analizzare e sperimentare un laboratorio di conoscenze che lo porti a verificare l’impatto di tanta produzione romantica nel mondo contemporaneo popolato da figure evanescenti, incapaci di rapportarsi agli altri, prese dal successo e condizionate sempre più dal potere. Ha bisogno di sperimentare le proiezioni inconsce di una ragazza timida, condizionata dalla madre, che sta per trasformarsi suo malgrado in un cigno nero e diventare la nuova amante di un novello Rothbart (Thomas) allo scopo di assaporare il crepuscolare sapore del successo, per non perdere il profumo della rosa che sua madre non colse (1) e vivere eternamente nella luce deificata dello schermo bianco privo di immagini per finalmente vedersi “proiettata” nel momento inestimabile della morte o del congedo dal suo pubblico. L’appagamento è una chiusura, il desiderio di un happy end corrisponde al bisogno di sentire conclusa la storia. Essere appagato in fondo è un po’ il contrario di conoscere, ossia di non accontentarsi di osservare la superficie del fatto (e vissero felici e contenti oppure dovettero sacrificarsi per il loro amore) perché la conoscenza è una sorta di speranza disperata, uno sperare di andare oltre e approfondire nell’infinito, uno stare all’erta senza soluzione di continuità, non vedendo mai la realizzazione di una speranza. La conoscenza è uno schermo che ritorna bianco e continua a macinare fotogrammi nella mente indicandoci una perfezione inarrivabile, la sua stessa imperfettibilità. Per condurre il percorso attraverso la materia opaca dell’arte (balletto, musica classica), filtrata dalla malattia di Nina come dai suoi desideri, nonché da una mondanità che non esita a minare i grandi sentimenti (un amore in costruzione), Aronofsky ha bisogno di sintetizzare i due balletti finali dei due cigni, collegandoli a due tematiche universali (Eros e Thanatos) ma senza essere troppo coinvolto. Intendo dire che la “passeggiata” dei due cigni della mirabolante sequenza finale non accetta neppure la “grandeur” dei due temi, perché la morte non è collegata al sacrificio. Innanzi tutto Nina non si sacrifica (almeno non lo fa volontariamente), ma uccide il suo doppio per conquistare l’ambito premio, e poco importa se l’ostacolo sia il suo stesso corpo: l’importante è raggiungere lo scopo, annientarsi per risorgere a nuova vita. Inoltre non è neppure chiaro se Nina muoia o meno, o perlomeno Aronofsky lascia che ognuno di noi possa dubitare a seconda dei suoi desideri. In ogni caso l’eventuale morte di Nina è solo una morte che avrebbe potuto evitare. Insomma non gli è stata richiesta e il mago Rothbart non vuole la sua fine come nel Lago dei Cigni per favorire Odile, ma vuole solo il suo corpo, Rothbart prende il posto di Siegfried, diventa un Principe nero che vuole un nuovo corpo da usare. L’amore eterno poi diventa un amore mondano, un amore economicamente utile, mentre il bacio di Odile sulla bocca di Rothbart-Thomas sancisce una sorta di rapporto incestuoso (anche se solo a un livello speculare, ossia trascinato all’interno del libretto del Lago dei Cigni come se Odile baciasse suo padre, il mago Rothbart). Per fare questo Aronofsky ci regala una sequenza fantastica: prima il colpo mortale inferto col frammento di specchio all’immagine della sua rivale Lily, ma in realtà al suo corpo ormai inutilizzabile (un corpo ancora legato al vecchio modello di amore eterno magari con happy end); poi il ballo di Odile col principe-comparsa (colui che non ama o che non è utile alla sua carriera); in seguito il bacio al suo anfitrione-padre-principe-mago, colui che può innalzarla verso la luce del successo e la fine delle immagini; quindi la presa di coscienza, l’inizio probabile di una guarigione da un happening tanto sensuale quanto oggigiorno sentito come ordinario soprattutto nel nostro paese (ad esempio escort in case di principi, presentatori, politici); infine la “morte” del cigno, di una Odette che parla al passato (“mi sentivo perfetta”), volendo così sottolineare la perdita di una perfezione, in quanto sa di non essere mai stata perfetta e se le è capitato si è sentita tale solo indossando i panni di Odile quando scopava col mondo, amando la danza e insegnandoci a piangere della bellezza dell’arte. Una attraente camminata-danza che accompagna la formazione di una donna, i suoi errori, i suoi rimpianti.

Secondo scenario: nessuno danza Il lago dei Cigni
Verrebbe da dire che la danza della Portman non è una danza. Il balletto in effetti non si nota molto e senza una vera controfigura quel poco sarebbe stato anche intollerabile. Ma Aronofsky ha scelto di portarci dentro il balletto. La mdp che segue Nina ovunque, mostrandoci spesso il PP del suo volto, adesso entra nella tragedia, mostra gli occhi dipinti di Odile, mostra le piume che crescono sulla sua pelle trasformando le braccia in ali di cigno. Il campo lungo di Odile mentre s’inchina al suo pubblico alzando le braccia nuovamente umane, mostra anche la duplice ombra del suo corpo proiettato e ingigantito sul fondale, un’ombra che riflette ancora le ali del cigno. Quindi la visione obiettiva di uno sguardo che osserva da una distanza abissale. È una sorta di soggettiva esterna al soggetto, è lo sguardo interiore di Odette che immagina ancora il suo debutto nei panni di Odile, il trionfo del suo nuovo corpo donato all’arte e al successo. Ci troviamo dentro la proiezione immaginaria di Odette, all’interno della sua follia che emerge nel suo camerino con la scomparsa del sangue dalla doccia e dello pseudo corpo di Odile-Lily. Ma guardando bene la danza mostrata da una vicinanza abissale, e che non ci permette di vedere i movimenti delle gambe (se non nella fouetté en tournant finale del Cigno nero o meglio all’interno della follia del cigno bianco), non è una vera e propria danza classica, non è un vero balletto: è un percorso da seguire per conoscere l’abisso, l’oscurità dei desideri e dei bisogni. È in altri termini l’appendice di una danza che prosegue oltre la sala da ballo e oltre il palcoscenico, simile alla terapia di una donna “pizzicata” dalla femmina di Latrodectus tredecimguttatus (malmignatta) causa del latrodectismo o dalla più innocua tarantola (Lycosa tarantula) (tarantola o taranta). Senza voler entrare nel merito del tarantismo, approfondito e analizzato magnificamente da Ernesto de Martino (La terra del rimorso, 1961), poiché la tradizione popolare ritiene che la “pizzicata” (o il “pizzicato”, ma le donne erano la maggioranza) potrebbe guarire dal veleno seguendo una terapia coreutica, ossia ballando o dimenandosi per giorni sino allo sfinimento al suono di una musica suonata da alcuni musicanti che usavano diversi strumenti (in particolare il tamburello), ebbene il “dolore” che cresce dentro il corpo (sangue, pelle lacerata) e soprattutto dentro la mente di Nina (visioni, allucinazioni), come se tutti i suoi nervi siano stati sensibilizzati dal morso della taranta, metafora del morso della vita che impone un fardello troppo pesante da portare (responsabilità, ossessione, timore di fallire, ecc.), questo dolore, che si espande nell’eco delle sue vibrazioni interiori amplificate da un’immagine di decoro e pacatezza sempre più difficile da sostenere, non può essere sopportato e il malato ha bisogno di seguire una terapia a base di danza. La danza pertanto non è soltanto il balletto o gli esercizi nella sala da ballo. La danza classica, o quel poco che ne rimane, è solo una parte della terapia. I momenti più intensi sono probabilmente quelli in cui Nina si dimena nel letto cercando di conoscere meglio il proprio corpo con la masturbazione o quando si “dimena” nella danza sfrenata e incoerente della discoteca, o quando nella sua mente si unisce in un amplesso con Lily-Nina. Il Cigno nero non è solo la storia di una ragazza che vuol raggiungere il successo e che è disposta a tutto per averlo, è un percorso da seguire per scoprire l’attimo insulso della perfezione di una improbabile guarigione e pertanto Il Cigno nero è una terapia coreutica, un balletto perpetuo che oltrepassa gli steccati tipici del rapporto fruitore-attore. Il cinema qui cerca di uscire dal suo luogo deputato (lo schermo) per inondare la banale quotidianità e ossessionarci senza tregua anche fuori dalla sala, “pulimentando” una mente polverosa e resa malleabile da un condizionamento sociale che pretende di dare un senso logico e un compito a ciascuno. Ma Nina vuole alzarsi dalla poltrona, camminare, guardarsi intorno e urlare la bellezza della sua differenza e per fare questo ha bisogno di seguire una repellente camminata-terapia al fine di esorcizzare i propri mostri celati nel sorriso di un’immagine costruita per gli altri.

(1) Guido Gozzano, I colloqui (1911)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Era da un pò di giorni che volevo ringraziarti per questa puntigliosa e come sempre elegante analisi su Il Cigno Nero. Bibliografia eccellente soprattutto per Merleau- Ponty e per Gli archetipi dell' inconscio collettivo di Jung.

Luciano ha detto...

@Dylandave. Grazie a te per il tuo commento e per aver letto tre post forse un po' noiosi^^

cinemaleo ha detto...

L'analisi è da encomio, il film no

Luciano ha detto...

@Cinemaleo. Sempre gentile, grazie^^ Lo so, infatti Il cigno nero è uno di quei film che induce a scelte estreme. Non so spiegarmi il motivo ma un attimo dopo averlo visto ho sentito il bisogno di rivederlo. A presto.