27 aprile 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 2/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative dei cortometraggi, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione del corto, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.




Io sono qui (di Mario Piredda, Italia 2010)

Giovanni Asara decide di lasciare la Sardegna e gli amici per arruolarsi con l’esercito in Kossovo. Non sempre, però, il futuro è roseo come nelle previsioni…

Montaggio notevole, recitazione di buona qualità, messaggio del film preciso e inequivocabile, ma anche e soprattutto molti altri sottotesti (noia, povertà, parallelismo Sardegna Kossovo ecc.). Bellissimo l'epilogo con il pupazzo del biliardino che affonda nel mare. Un corto all'altezza dei migliori di questo festival da me visti fino a questo momento.

Voto: 5 (ottimo)

I guai che ha combinato l’uranio ufficialmente impoverito e pertanto innocuo viene espresso bene in un corto che riesce a legare la noia di giorni tutti uguali trascorsi da un gruppo di amici sotto il sole della Sardegna giocando a biliardino oppure correndo sulla spiaggia o cercando di far scorrere il tempo in attesa di un evento improbabile che li distolga dalla noia della povertà. L’evento arriva con la partenza di Giovanni che si arruola volontario per il Kossovo allo scopo di guadagnare qualcosa per vivere. Le immagini del Kossovo e della Sardegna si susseguono in un montaggio alternato come per legare insieme due regioni del mondo che non hanno niente da chiedere se non la loro stessa speranza di vita, ma la vita che si spegne contribuisce a mostrare la disperazione di due mondi lontani eppure allo stesso tempo vicini come deformati in un unico paesaggio. Così il grigio preponderante del Kossovo non è tanto più grigio dei colori che inondano il paesaggio assolato della bellissima terra che fu di Arborea. E Giovanni vivrà sempre nei cuori degli amici e nuoterà nel mare fresco e trasparente visto dai compagni di noia come pupazzetto-giocatore del biliardino, staccato dal suo contesto, ma sempre presente nei loro ricordi, idealizzato come presenza inequivocabile a dispetto dell’odio e della follia di un potere che regala false certezze. Un corto bellissimo che cresce sempre di più dentro di me. Se avessi potuto avrei votato con un 5 e lode.


Kung Bao Chicken (di Bin Chuen Choi, Germania 2010)

Zhang Wei, un giovane cuoco cinese, arriva in Germania per lavorare in un piccolo ristorante cinese di Hannover. Ben presto, tuttavia, si rende conto chela "cucina cinese" in Germania è molto diversa da quella che ha imparato a casa. E il suo capo non sembra apprezzare il suo stile. Così decide di servire segretamente l'autentica cucina cinese ad un ospite abituale.

Film gradevole e a momenti divertente ma un po' piatto e inconcludente. Riprese troppo scontate e recitazione nella media

Voto 2 (scarso)

La storia di un cuoco che vuole cucinare la “vera cucina cinese” dovrebbe essere curata con una regia robusta attraverso invenzioni e riprese che caratterizzino i momenti salienti. La donna che viene tutti i giorni ad assaggiare le leccornie cinesi non dovrebbe essere solo un avventore-cavia, un “gastronomo” su cui sperimentare il proprio punto di vista (il proprio modo di cucinare), ma una funzione per connettersi (in quanto di cultura tedesca) agli aspetti salienti della cultura cinese. Invece la storia si sviluppa piattamente fino all’epilogo come fosse una qualsiasi ripresa girata in un ristorante, senza neppure possedere il pathos di una qualsiasi cucina (cinese o meno) di un reale ristorante con le corse e l’affanno dei cuochi, i loro errori o magari le loro “vendette”. Qui non c’è neppure la soddisfazione di scoprire il segreto delle ricette, con i cibi mostrati come fossero nature morte mal dipinte. Unica sequenza interessante: il dialogo attraverso il vocabolario tra il cuoco cinese e la donna al tavolo.


L’eclissi di fine stagione (di Vito Palmieri, Italia 2010)

Una coppia di albanesi, che lavora da anni in Italia, si trova in una giornata particolare a vivere una piccola ma significativa rivincita.

In complesso un buon lavoro, anche divertente. Buona regia e sceneggiatura. Molto bella l'immagine finale con i modellini delle macchinine, ma che purtroppo avalla un epilogo stereotipato.

Voto 3 (sufficiente)

Il corto è girato molto bene e con una regia molto curata. Interessante la sequenza sulla barca che scivola lenta sul mare per la piena soddisfazione di una coppia di albanesi, marito e moglie, che possono vivere e rinverdire il loro amore nella magia di un tramonto diverso. Purtroppo il resto del film è meno curato e si risolve in un epilogo evanescente (l’uomo regala tante macchinine al bambino) che mi ha lasciato un po’ perplesso in quanto mi sarei aspettato (visto anche il titolo) un mondo inondato dalla magia. Invece rimane solo un epilogo prevedibile di un rapporto uomo-bambino abbandonato a se stesso, senza passione, senza nemmeno un abbozzo di analisi caratteriale del piccolo, assimilabile più ai suoi modellini di auto che a un bimbo lasciato vegetare su una panchina.


Le piano (di Lévon Minasian, Francia, Armenia 2010)

Il terribile terremoto che ha colpito l'Armenia nel 1988 distrusse la città di Leninakan. Dodici anni dopo, Loussiné, una ragazza orfana, è una pianista di talento. Per consentirle di prepararsi in vista di un concorso internazionale, il Ministero della Cultura le mette a disposizione un pianoforte. Ma il ricovero temporaneo dove vive con suo nonno è troppo piccolo.

Anche per me un corto molto piacevole e divertente, ma che rimane sospeso in un limbo. Mi sarei aspettato meno lungaggini (le scene dei ragazzi e dei facchini magari da togliere e almeno una sequenza con incontro più approfondito tra Loussiné e il ragazzino).

Voto 3 (sufficiente)

La storia è molto interessante e girata bene, film gradevole da vedere. Ma sembra una via di mezzo tra uno sketch e una storia alla De Amicis, con Gakik scambiato per un teppista (mentre al contrario voleva solo difendere il pianoforte rimasto all’aperto da un gruppo di ragazzini pronti a danneggiarlo) che nell’epilogo si reca all’auditorium di Yerevan per portare dei fiori a Loussiné. Il loro rapporto non viene approfondito rimanendo sospeso in un limbo vago e non esaustivo. La storia sembra una cronaca di un successo, soprattutto quello di Loussiné che riesce a suonare ad Yerevan nonostante le peripezie e i rischi corsi dal pianoforte nel stare all’aperto, mentre Gakik ottiene il suo momento quando viene inquadrato dalla tv nell’atto gentile di consegnare i fiori alla sua adorata. Profumo di soap opera, purtroppo.


L’isola di Savino (di Giacomo del Buono, Italia, 2010)

In un paesino dell’Italia meridionale si svolgono i preparativi della processione del santo patrono, quando una barca di clandestini approda sulla costa. Questo evento farà conoscere due bambini appartenenti a realtà totalmente diverse.

Il film si sofferma troppo su immagini che sembrano spot per turisti, la sceneggiatura risulta inconsistente e il rapporto tra i due ragazzi non è approfondito (il regista poteva ridurre al minimo indispensabile i preparativi della manifestazione) .

Voto 2 (scarso)

Sembra uno di quei filmati commissionati da un’azienda di turismo regionale per pubblicizzare le bellezze del luogo: paesaggio, cibo, cultura, fiere, manifestazioni. Mentre al rapporto tra Mic, profugo clandestino arrivato dal mare, e Savino sono state dedicate poche sequenze non esaustive, lasciando andare il film alla deriva, abbandonato a se stesso. Non c’è traccia della storia di Mic, che si spaccia per un pirata dalle mille avventure in cerca di un tesoro, mentre è soltanto un povero ragazzo che porta le cicatrici della violenza della guerra e che verrà fermato dalla guardia costiera, deludendo in tal modo il piccolo Savino fino a quel momento affabulato dai suoi racconti. Al di là della delusione di Savino resta l’amaro in bocca per una sceneggiatura che ha dedicato così poco spazio a un personaggio secondo me fondamentale e meritevole di essere approfondito. Invece il regista ha preferito intrattenerci con tante estenuanti riprese della festa paesana.


Manolo (di Robert Boherer, Germania, 2010)

Sua madre lo vuole fuori di casa, suo cugino lo vuole fuori dai piedi e Linda, la principessa di questa estate vuole qualcosa di più…In un pomeriggio di sole in piscina Manolo, 12 anni, deve affrontare le sue paure.

Cortometraggio gradevole e ben confezionato, molto professionale. Inquadrature perfette. Denota grandi capacità di regia. Complimenti a Robert Boherer.

Voto 4 (buono)

Molta professionalità in questo corto. Mi è piaciuto il dolly (Jimmy Jib?) dell’incipit che mostra Manolo su una piattaforma posta dieci metri sopra la piscina in attesa di tuffarsi, incipit che rivedremo nell’epilogo della storia. Manolo non è gradito dal cugino dal fisco perfetto che contrasta con il suo. Eppure il ragazzino trascorrerà una giornata particolare che definirei simbolica in quanto i suoi rapporti con gli altri personaggi sintetizzano le esperienze comuni che un ragazzo non bello e non in forma deve affrontare per diventare adulto. In primis il rapporto con la bella ragazza, più grande di lui, desiderata da suo cugino, ma soprattutto con il tuffo finale da un’altezza mozzafiato che il ragazzino riuscirà a superare esorcizzando la sue paure. Sarà pronto per nuotare (o affogare) nel piccolo specchio perfido della vita. Sono stato a lungo indeciso se dare il massimo dei voti ma poi ho optato per un “buono” perché avrei preferito una maggiore attenzione nel rapporto a tre tra Manolo, la bella ragazza e suo cugino, che non è stato curato a sufficienza anche se ciò non esclude che il film sia un ottimo lavoro. Una grande prova di regia e movimenti di macchina superbi.


Mi amigo invisible (di Pablo Larcuen, Spagna, 2010)

Tomas soffre di timidezza patologica e la sua voce sgradevole ci porta direttamente nella sua vita quotidiana, fatta di solitudine e pasti in famiglia, con gli occhi bassi, e un malessere condiviso. Quando un (improbabile) amico immaginario bussa alla sua porta, la prima reazione è di fastidio. Tra Star Wars, videogiochi, fumetti porno, Hulk Hogan e X Generation, Mi Amigo Invisibile è il tributo migliore possibile per le commedie teenager degli anni 80.

Ottima regia e fotografia. Film dinamico che ricostruisce l'immaginario anni 80 con convinzione. Invisibilità di un mondo assemblato dalla mente con cui è impossibile interagire ma che è potenzialmente ricostruibile. Montaggio ineccepibile. In altre parole: perfetto.

Voto 5 (ottimo)

Probabilmente il miglior corto della rassegna. Non a caso ha vinto ex aequo con Intercambio il premio Corto Europa e ha ottenuto una menzione speciale quale corto più votato dalla giuria web per Corto Europa. L’ho rivisto ancora e devo ammettere che è un film ottimo e anzi secondo me il massimo dei voti gli sta pure stretto. Durante la visione, un giorno prima che il festival si concludesse (era possibile votare i cortometraggi fino alle ore 22,00 del 16 aprile) ritenevo Mi amigo invisible forse un tantino inferiore a Io sono qui, ma dopo averlo rivisto mi sono reso conto che è il migliore della rassegna. Oltre al plot (poco più di dieci minuti del timidissimo Tomas che confessa il suo disagio prima e racconta la sua esperienza con l’amico invisibile poi) le riprese sono precise e dinamiche e ricostruiscono un vintage anni ottanta superlativo (fumetti, videogioco, cassette vhs, musica). Un ritmo e un equilibrio tra storia e discorso di incredibile raffinatezza, un piccolo gioiello che deve essere assolutamente visto.


Na wéwé (di Ivan Goldschmidt, Belgio, Burundi, 2010)

1994: c'è la guerra civile in Burundi, un piccolo paese dell'Africa centrale direttamente confinanti con il Ruanda. La lotta oppone i ribelli hutu composta prevalentemente da etnie e di un esercito nazionale con la maggioranza dei tutsi. Questo cortometraggio racconta un episodio tristemente frequente di questo conflitto fratricida: l'attacco da parte dei ribelli di un minivan. Un Kalashnikov spara. L'autobus si ferma, i passeggeri scendono. Una voce grida: "Hutu a sinistra, tutsi a destra!" La selezione inizia. Ma chi è un Hutu, e che è Tutsi?

Non deve essere stato semplice girare un film divertente e che lascia allo stesso tempo col fiato sospeso. Girato magistralmente cattura lo sguardo senza cadere mai in banalità o luoghi comuni, facendo riflettere sull’assurdità e l’inutilità della guerra. Bello.

Voto 4 (buono)

Il dramma di una guerra fratricida narrata innestando la tragedia in un episodio mostrato come una commedia anche divertente, eppure quella linea segnata per la strada alla cui destra e sinistra si devono mettere in fila i Tutsi e gli Hutu, per cui questo “muro” diventa un confine che può definire una condanna a morte oppure una salvezza, quella maledetta linea diventa un limite oltre il quale si spegne la speranza mentre la normalità della vita quotidiana vi urta contro. Improvvisamente la “linea” assume un’importanza capitale e decidere in un attimo cosa fare, da quale parte porsi, diventa un incubo, come tirare a sorte un numero o giocare alla roulette russa, sperando di avere fortuna. Il film mi è piaciuto soprattutto per la soluzione trovata dal gruppo di persone che devono effettuare la scelta. Allo scopo di evitare una probabile esecuzione da parte dei soldati i personaggi cercano in tutti modi di rimanere nel mezzo, ossia di rinunciare al gioco. L’umanità che scaturisce dai dialoghi e dai comportamenti del gruppo “occupa” lo schermo attraversando con ironia il pericolo e la forza del potere sempre e comunque legato alla propria stupidità. Bravissimi interpreti e breve spaccato di un’atroce domanda: sono Hutu o Tutsi? O semplicemente esseri umani?


Nach der Jahren (di Josephin Links, Germania, 2010)

Un tempo una famiglia trascorreva le vacanze insieme. Ormai le figlie sono cresciute, i genitori hanno divorziato e la casetta di legno sul lago, deve essere svuotata per i nuovi proprietari. I componenti di quella che una volta era una famiglia, si riuniscono di nuovo per un intero fine settimana. I ricordi, sono molto più vicini di quanto pensassero. Ora, non solo devono dire addio alla loro casa delle vacanze, ma anche all'infanzia e ad un vecchio amore.

Un modo di fare cinema che mi piace molto: soprattutto le lunghe inquadrature che non "rallentano" il film ma lo completano, lo rendono (se bene assemblate) più "sensibile". Indimenticabile la lunga inquadratura fissa delle sorelle a letto con i rumori fuori campo.

Voto 4 (buono)

Uno stile gradevole con lunghe inquadrature fisse e location con casa sul lago molto romantica, adatta a sottolineare il sentimento di nostalgia evocato dal film. Ricordi di una famiglia che si ritrova dopo molti anni; le cose potrebbero essere cambiate, per un attimo sembra che tutto torni a posto, ma non è possibile tornare indietro. Il tempo ha lasciato i segni e alla fine ognuno se ne va per la sua strada. I ricordi vanno pesati nel silenzio della propria intimità altrimenti potrebbero alimentare una reminescenza che illude di potere ricominciare: ma un nuovo inizio non servirebbe a ricomporre l’esito di un ricordo.


Omero bello di nonna (di Marco Chiarini, Italia, 2010)

Omero vive con la nonna in una bella casa che la sua mente infantile riempie di creature fantastiche e mirabolanti avventure. La Nonna di Omero una mattina dimentica di prendere le pillole e durante il pranzo si sente male; a lanciare l'allarme e salvarla è il suo Omero che deve lasciare la casa che lo protegge e affrontare la sua più grande paura: un mondo in cui la tromba delle scale si trasforma in rapide terribili, il vicino è un terribile squalo-riccio e la donna delle pulizie un misterioso, poliglotta, uccello del paradiso.

Film riuscito, emozionante, appassionante. Gradevole l'animazione degli oggetti e dei disegni. Una bella sorpresa. Ottima interpretazione di Nocella.

Voto 4 (buono)

Film in stile Gondry (L’arte del sogno), come giustamente fatto notare da molti commentatori, con oggetti animati e disegni che mostrano l’immaginario di Omero per il quale l’appartamento di casa è un mondo intero per cui la spillatrice è una balena, un gomitolo di carta un granchio e il suo sguardo-immaginazione una sorta di periscopio a raggi x che riesce a vedere la nonna oltre la porta del bagno. La protezione della casa viene meno quando la nonna si sente male e Omero è costretto a uscire di casa, ma il semplice percorso dal pianerottolo all’uscita posta in basso diventa un’avventura in quanto Omero dovrà nuotare in un mare con enormi onde di stoffa con pescecane compreso, tapis roulant movimentato che lo trascinerà affannato sino al cospetto della donna delle pulizie, salvando così la nonna.

20 aprile 2011

Linea d'ombra-Festival Culture giovani: 1/4 Corto Europa

Nel commentare i cortometraggi ho deciso di riportare la sinossi pubblicata dalla direzione della rassegna sulle schede informative di ciascun corto, di riportare altresì il mio commento pubblicato “a caldo” sul sito del Festival dopo la visione, il voto assegnato in qualità di giurato-web e infine il mio commento attuale.


13 ½ (di Haris Vafeiadis, Grecia 2010)

Afrodite ha tredici anni e mezzo, i suoi amici la chiamano Tin-Tin. Afrodite è innamorata di Lou. Afrodite vuole crescere…

Atmosfere e passioni ben delineate ma che rimangono come sospese nello loro ovvietà. Comunque un prodotto ben confezionato: buona la colonna sonora e sufficiente la recitazione.

Voto: 3 (sufficiente)

Il commento a caldo rimane immutato anche dopo alcuni giorni. Il film è di buona fattura ma non è in grado di fare presa, di penetrare a fondo. Le immagini distorte dell’epilogo, quando Tin-tin esce malconcia dall’avventura di sesso con Lou, perdendo la sua verginità nella violenza dell’atto in sé anziché nel desiderio che fa vibrare il corpo e nell’emozione che accelera il battito cardiaco come consapevolezza e scelta precisa, non sono sufficienti a restituire l’angoscia e il dolore che sale dalla pancia bloccando e facendo scomparire la realtà degli amici, dei genitori che stanno ballando durante una cena all’aperto. Lo svenimento vale molto meno di un disperato “giorno dopo”, infatti avrei magari preferito un più scontato “dopo il fatto” che arriva con i brusii e le risatine dei ragazzi e le grida e gli sguardi di occhi diversi se osservati da una ragazzina di tredici anni e mezzo che adesso ha solamente paura di vivere.


Amistad (di Alejandro Marzoa, Spagna 2010)

Amistad è la storia di quattro amici e colleghi di lavoro che si incontrano nello stesso bar, come al solito, per bere un paio di drink e parlare dei loro problemi. La serata sembra divertente, fin quando Alberto non confessa i suoi problemi coniugali. I suoi amici cercano di rincuorarlo, ma dopo un po’ spuntano i problemi. Quello che doveva essere una seduta di terapia tra amici, si trasforma in una confessione, dove il loro cinismo, l'egoismo e l'avidità porta alla scoperta della verità: non sono come amici come pensavano.

Scritto e strutturato molto bene perché in pochi minuti assistiamo allo smascheramento dell'Amicizia che comprende anche i momenti peggiori. Purtroppo somiglia a uno Sketch del sabato sera. Anche per me ottima recitazione.

Voto 3 (sufficiente)

Anche in questo caso confermo il voto perché il film non mi ha convinto in pieno. Gli attori sono molto bravi e riescono da soli ad attrarre l’attenzione, a “raccontare” la loro stessa metamorfosi o meglio a sviscerare il peggio che è in loro. L’amicizia non è soltanto una serata passata a bere e a ridere ma è qualcosa di indefinibile, di impalpabile, un mattone che dovrebbe resistere a ingenti scosse di terremoto, ma qui non regge neppure all’urto di una battuta sufficiente a incrinare l’armonia, anzi da qui inizia un precipizio che conduce alla fondazione di un nuovo status: gli amici sono comuni esseri umani rimasti soli. Però il plot è prevedibile e l’epilogo non poi così esaltante, potrebbe essere inserito in uno di quegli episodi televisivi tipo situation comedy. Non male, anzi buono, ma che non offre niente di nuovo.


Boxer (di Andrei Cumming, Scozia 2010)

In una grigia comunità scozzese, un uomo solo è testimone di una violenza sessuale. Riesce a proteggere la ragazza, e questo gli da una nuova speranza di vita. Boxer è un ritratto inflessibile di isolamento, di rammarico, sulla possibilità di un individuo di mettersi alla prova di nuovo.

Bellissima fotografia e la sequenza del "salvataggio" è essenziale (cercando di evitare luoghi comuni e speculazioni). Per questo ho provato un'intensa emozione. Epilogo che non inganna lo spettatore e non illude. Spesso capita proprio questo. Un grande cortometraggio.

Voto 4 (buono)

Dopo alcuni giorni dalla visione mi sono pentito di avere assegnato un 4. Adesso il mio voto sarebbe un “ottimo” (5). Il film infatti è cresciuto lentamente dentro di me e dopo alcuni giorni dalla visione mi rendo conto che Boxer è un grande cortometraggio. Ogni immagine è una storia a sé, ogni scena è un percorso che ci conduce nei meandri oscuri della conoscenza, là dove lo sguardo dell’uomo va oltre il suo orizzonte. La ragazza salvata, aprendo la porta e trovandosi davanti il boxer fallito, esita un attimo, rimane immobile, incapace di reagire alla sorpresa nel vedere il suo “inutile” salvatore. Perché, mi sono chiesto, quando il boxer se ne va dopo che la ragazza gli ha chiuso la porta in faccia, desidero essere appagato nella speranza di vedere la porta che si apre in lontananza (come in tanti film con happy and) e allo stesso tempo desidero che la porta del cottage rimanga chiusa? La bellezza del film è anche in quel finale che lascia mutare il tempo nel primo piano del boxer che si volta (l’ultima inquadratura del cottage mostra sempre la porta dell’ingresso chiusa). Quel viso stanco e deformato da una vita di stenti e sacrifici (ha avuto una famiglia: si deduce da una foto e forse l’ha persa, chissà) osserva la porta del cottage. Si aprirà? No? Non lo sapremo mai.


Bukowski (di Daan Bakker, Olanda 2010)

Un elegante hotel di Amsterdam ha un ospite molto speciale per una notte: il famoso scrittore Charles Bukowski. Ha dodici anni e il suo vero nome è Tom.

Divertente e spumeggiante ma forse troppo sintetico. Comunque un corto di ottima qualità.

Voto 4 (buono)

Se per Boxer il mio 4 è diventato un 5 (ma troppo tardi) per Bukowski il 4 è un po’ troppo largo. La visione mi ha fulminato e sul momento ammetto che ero più che convinto di dare un 4. Trattasi di un cortometraggio brevissimo (nove minuti scarsi) e per questo forse fulmineo, spumeggiante, divertente, ma in fondo (comunque sempre un buon lavoro) un prodotto che può far sorridere per un attimo ma che non lascia traccia nell’osservatore. Bello ma algido, senza passione. Il ragazzino che dorme in una stanza con la sorellina più piccola, si spaccia con il personale dell’hotel per lo scrittore Charles Bukowski iniziando un gioco divertente e gradevole; inoltre alcune sequenze sono molto intense (vedi l’alternarsi dei primi piani del giovane faccino di Tom e del vecchio volto del Direttore dell’hotel), ma Bukowski rimane un prodotto che non sortisce effetti a lungo termine.


Casus belli (di Yorgos Zois, Grecia, 2010)

Persone di ogni genere, nazionalità, classe, età, in fila per sette. La prima persona in ogni riga diventa l’ultimo dei prossimi, formando una catena umana gigante. Ma alla fine della coda, il conto alla rovescia ha inizio.

Sorprendente e piacevole l'effetto domino di ritorno come l'attenzione alla cura delle "direzioni" delle persone in fila e della loro "caduta". Purtroppo questo corto si smarrisce nell'epilogo. Mi sarei aspettato (viste le premesse) qualcosa di diverso.

Voto 3 (sufficiente)

L’effetto domino di ritorno delle fila di persone che cadono è affascinante. La vita è una continua fila, al supermercato, all’entrata in discoteca, in chiesa, al museo, al gioco del lotto, al bancomat, davanti alla mensa dei poveri, ma la rabbia del paria che butta tutto all’aria (anzi basta colpire la prima pedina e l’effetto si ripercuote all’indietro) è lungimirante. Però,come ho letto anche in un commento il film a momenti sembra un “virtuosistico esercizio di stile”. Un lavoro ben fatto, molto curato (bella la sequenza iniziale al supermercato) ma che non approda da alcuna parte. Col tempo la mente si offusca, comincia a dimenticare. E infatti sto dimenticando l’epilogo. Possibile che stia già dimenticando un cortometraggio che al momento ho valutato bene?


Crossing Salween (di Brian O’Malley, Irlanda-Birmania, 2010)

Sopravvissuta al massacro della sua famiglia, una giovane ragazza deve affrontare un lungo viaggio attraverso gli orrori della giungla birmana, lungo il fiume Salween. Al di là del fiume si trova la libertà della Thailandia.

Semplicemente drammatico. In pochi minuti viene mostrata la tragedia del popolo birmano e con essa la voglia di vivere di una bambina. Sequenze perfette e bene assemblate, fotografia fantastica, l'interpretazione della piccola mi ha positivamente stupito. La sequenza delle esecuzioni e della cattura di Ko Rih mostra allo sguardo tutta l'assurdità e l'imprevedibilità della violenza, una sequenza che ricorda le tante immagini di guerra mostrate su internet, immagini di innocenti uccisi come in un videogame.

Voto 5 (ottimo)


Ho già detto tutto nel commento sopra, scritto di getto dopo avere visto il cortometraggio. E ancora oggi confermo il voto anche se mi rendo conto che dietro il film c’è una grande produzione, ma quando ripenso alla scena del bosco con i profughi in attesa di attraversare il confine (un fiume che separa la Birmania dalla Thailandia) e vedo arrivare i soldati che obbligano alcuni a inginocchiarsi prima di ucciderli, mi commuovo. È un film strappalacrime? No, penso proprio di no. La morte arriva improvvisa, in silenzio, arriva sotto forma di divisa e miete a caso nel fuggi fuggi generale, mentre chi viene ucciso attende inginocchiato e in silenzio che la sofferenza abbia termine, proprio come in un video game in cui basta inquadrare il nemico con un mirino, come nelle sequenze di guerra vera in Irak, quando da un elicottero si punta un uomo e lo si uccide con una raffica, con semplicità, come stare comodamente seduti sulla propria sedia. Questa non è la guerra fredda degli anni settanta ma la algida “pace” degli anni duemila. Non potevo esprimere un voto più basso, nonostante (ora che ci penso) alcuni difetti. Mi sono visto in quella boscaglia, ho sentito un brivido scorrermi lungo la schiena e non ero seduto alla consolle per giudicare un popolo, ma stavo nuotando insieme a Ko Rih, una bambina birmana, sola, in fuga verso il suo futuro.


Elder Jackson (di Robin Erard, Svizzera, 2010)

Missionario mormone, Jacob Jackson vive una vita semplice, tra l'evangelizzazione e la vita della comunità. Il suo incontro con Kathy, un altro membro della Chiesa, sarà per lui fonte di turbamento. Bloccato tra il suo desiderio e la struttura rigida della chiesa, incapace di gestire il suo amore in crescita per la ragazza, Jacob è confuso. Portato al limite, potrà finalmente mostrare il suo vero volto.

Film di grande qualità. Sceneggiatura buona, recitazione che non fa una piega, regia raffinata. Reso magistralmente l'erotismo che sprigiona dalla visione della gamba della Ruchat che seduce Elder: scena emblematica ed emozionante.

Voto 4 (buono)

Come farsi sedurre da una ragazza attraverso i particolari del suo volto, della ciocca di capelli che passa davanti agli occhi, la gambe che si intravedono dietro lo spacco della gonna , i suoi movimenti , i suoi occhi. E in effetti a un certo punto (come è stato evidenziato anche in un commento) ho cominciato a sentire il suo profumo e a questo punto ho condiviso il desiderio di Elder ma non la sua reazione. Un bel film che mi ha turbato anche se ho percepito l’insieme del lavoro con un po’ di distacco. Probabilmente perché una sceneggiatura simile è più adatta a un lungometraggio. Chissà.


Fabbrica de muñecas (di Ainhoa Menéndez, Spagna, 2010)

Anna lavora in una fabbrica di bambole. Tutta la sua vita ruota intorno al gesto meccanico di mettere gli occhi sui volti delle bambole . Ma un piccolo cambiamento nella catena di montaggio cambia la sua vita per sempre.

Un bel cortometraggio. L'automatizzazione della catena di montaggio ha contribuito ad automatizzare anche i movimenti e i comportamenti degli operai, ma l'aspetto più interessante del corto viene espresso anche "fuori" dalla fabbrica, dentro la stessa vita, la casa, le abitudini e i movimenti di tutti i giorni che rimangono sempre alienati. Solo un inceppamento (fabbrica), un incidente (perdita dell'occhio) può permettere ad Anna di assumere un nuovo sguardo o almeno di provarci. Al di là di alcune incertezze (es.: il rapporto con l'uomo, ma la breve durata del corto non poteva comprendere anche questo) il lavoro mi sembra di grande qualità.

Voto 4 (buono)

Subito dopo aver visto il film volevo assegnare un “ottimo”, ma sono bastati alcuni secondi per decidere di abbassare di un punto il mio voto. Non saprei dire perché. Forse in effetti (come ho letto dopo in un commento) l’idea della catena di montaggio è un po’ datata (adesso siamo alla catena della perdita del lavoro, della precarietà) anche se non è solo una catena di montaggio ma anche una perdita di lavoro, pertanto non datato perché o “fai” movimenti determinati, voluti e decisi dal potere, o puoi pure iniziare a cercare il nulla su un giornale. Il film mi ha emozionato quando è caduto l’occhio nel lavandino, un occhio di bambola che impedisce allo sguardo di innalzarsi sopra il velo conforme che offusca il mondo e nasconde gli oggetti. Il caso però fa sì che l’occhio cada e che debba essere sostituito, allora la visione stereoscopica prende il sopravvento, il colore si fa materia, acquista consistenza e comincia a decostruire il mondo velato per cercare l’esatta collocazione degli oggetti.


Hai in mano il tuo futuro (di Enrico Maria Artale, Italia, 2010)

In una società in cui il controllo del comportamento individuale si è radicalizzato attraverso un sistematico monitoraggio delle urine, un giovane ragazzo, chiuso nel gabinetto, aspetta lo stimolo giusto con l’apposito barattolino in mano. Si sforza, ma non c’è verso. Una giovane infermiera lo osserva attentamente: la sua bellezza complica le cose. E la tensione aumenta…

Split-screen che alla fine stanca, epilogo prevedibile e ottuso. Peccato perché il film possiede una potenzialità intrinseca notevole. Con maggiore attenzione al montaggio e una sceneggiatura più chiara sarebbe stato un corto di ottima qualità (ad esempio il rapporto con la ragazza che controlla le minzioni è stato trascurato). Comunque se non altro molto divertente.

Voto 3 (sufficiente)

Sinceramente la prima parte mi era piaciuta. Soprattutto l’idea del valore aggiunto delle urine utilizzate da un potere ctonio per controllare i propri cittadini, perché dalle analisi delle urine si vede ciò che bevi o mangi (cibo, bevande, droghe, caffè, salvia) e pertanto la vita che conduci. Controllare le tue orine equivale a controllare la tua vita. Però l’epilogo con quella rivolta quasi da cabaret, con le urine che schizzano in faccia al rappresentante del potere, agli analisti, agli impiegati e i poveri cittadini-sudditi che si ribellano con goliardia, e il giovane ragazzo che non trova di meglio da fare che baciare l’infermiera addetta a osservare che le minzioni siano effettuate con correttezza (niente spaccio insomma di urina pura) mi sembra sinceramente troppo.


Intercambio (di Antonello Novellino, Antonio Quintanilla, Spagna, 2010)

In un tranquillo paese la vita scorre secondo i ritmi dettati dall’agricoltura. Ma il governo sequestra tutto il raccolto e la fame si abbatte sulla cittadina. Come sopravvivranno gli abitanti?

Film bello e angosciante. Sintesi della crudeltà del potere e della lotta per sopravvivere. L'opera trasporta nel "nostro" mondo la tragedia di una realtà che fingiamo di vedere, ma che non ci tocca minimamente. Per questo mi sarei aspettato una maggiore incisività anche se le sequenze sono buone. In altri termini, certe scene mi sembrano distanti, come viste da lontano e magari era proprio questa l'intenzione di Novellino. Peccato non potere essere in sala a porgli la domanda.

Voto 4 (buono)

Questa la domanda che ho posto a Novellino “Il film è angosciante e l'epilogo è un vero e proprio pugno nello stomaco, però sembra mancare di passione. A momenti sembra di assistere a un documentario storico che racconta per immagini eventi lontani nel tempo e nello spazio (la dura vita dei contadini di un passato neppure poi tanto lontano e la sofferenza del terzo mondo). Mi sembra che non sia stato approfondito il rapporto tra figlia e genitori, almeno nell'epilogo mi sarei aspettato maggiore pathos. E' stata questa una scelta autoriale? Forse il regista voleva sottolineare la distanza tra la nostra "facile" vita quotidiana e la sofferenza a cui siamo sempre più indifferenti? Ma in tal caso non sarebbe stato preferibile trovare altre soluzioni più coinvolgenti? Grazie”. Penso di non aggiungere altro. Certo devo constatare che il film ha vinto ex aequo il premio Corto Europa e quindi qualcosa possederà se è piaciuto alla maggioranza dei giurati. Inoltre anche il sottoscritto ha espresso un voto abbastanza alto, pertanto in effetti il film merita, ma… non so.. per me non era da annoverare tra i migliori. Tutti i gusti son gusti.





19 aprile 2011

Vincitori XVI edizione di Linea d'ombra-Festival Culture giovani - Salerno (13-17 aprile 2011)

Il 17 Aprile 2011 si è chiusa la sedicesima edizione di Linea d’Ombra-Festival Culture a cui ho avuto l’onore di essere stato invitato in qualità di giurato. Il festival comprendeva due sezioni: CortoEuropa (con trenta cortometraggi ammessi) e CampaniaCorto (otto cortometraggi). Ai voti della giuria web di qualità, (composta da 29 tra blog, redattori di siti web, studenti di cinema) si sono sommati i voti di una giuria di giovani fra i diciotto e i trentacinque anni presenti nelle sale del festival. I vincitori della sezione CortoEuropa (voti in sala e voti web) sono risultati: Intercambio (di Antonello Novellino e Antonio Quintanilla) ex aequo con Mi amigo invisible (di Pablo Larcuen). Il premio come miglior film della sezione CampaniaCorto è stato aggiudicato al cortometraggio La Colpa (di Francesco Prisco). Oltre alla proclamazione dei vincitori la direzione del festival ha assegnato anche una menzione speciale della giuria web per la sezione CortoEuropa a Mi amigo invisible (di Pablo Larcuen) e per la sezione CampaniaCorto a Reset (di Nicolangelo Gelormini).

Ringrazio ancora direzione e organizzatori del Festival per avermi permesso di partecipare a questo importante evento che ha ospitato 38 cortometraggi di ottima qualità. Infatti, pur dovendo effettuare una scelta, confesso che in molti casi ho faticato ad assegnare un voto più alto a un documentario piuttosto che a un altro. La giuria disponeva di cinque voti differenti: 1-pessimo; 2-scarso; 3-sufficiente; 4-buono; 5-ottimo. Per quanto riguarda il vincitore della sezione CortoEuropa (Intercambio) in effetti mi trovo moderatamente soddisfatto perché il corto per me è un prodotto di buona qualità e inoltre sono pienamente d’accordo sulla vittoria del corto Mi amigo invisible. Invece sono rimasto meno soddisfatto per la Sezione CampaniaCorto dove avrei preferito vedere al primo posto il corto Reset, trovandomi in piena sintonia con le scelte della giuria web. Intendo postare nei prossimi giorni i miei commenti ai 38 corti cercando di unirli in pochi post e sperando di non dilungarmi troppo.



8 aprile 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 3/3: balletto oppure no

L’andamento ellittico dell’epilogo conferisce al film la capacità di concentrare il flusso delle emozioni amplificando le probabilità che lo spettatore riesca a proiettare nella storia di Nina la propria affezione o al contrario sentirsi distante dal mondo della ballerina schizofrenica e dalle sue allucinazioni. Per questo il film può allo stesso tempo essere amato o odiato. A questo punto provo a ipotizzare due scenari opposti configurando due aspetti dello sguardo e della conseguente probabilità che le emozioni coinvolgano o respingano mettendo in crisi o avallando le aspettative diegetiche.

Primo scenario: il balletto si guarda piangendo
Quando Rothbart scatena la tempesta sul lago e le onde impediscono al principe di unirsi a Odette, mentre le note di Čajkovskij della scena finale del IV atto sottolineano romanticamente la disperazione degli amanti che affondano nel lago unendosi per sempre in un amore eterno, perché vorrei assistere a un happy end? Oppure: perché sono soddisfatto nel vedere Siegfried e Odette che vedono realizzato il loro sogno d’amore? L’inganno del cigno nero è stato svelato e finalmente Odette può danzare felice con Siegfried, ma Rothbart rovina tutto trascinandola via nel suo lago. Odette rimarrà sempre un cigno e l’amore che trionferà sarà quello superiore: un amore immortale. Anche l’amore romantico più profondo, quello che si stampa sull’ultimo fotogramma di un film, che si congela, o in un lieto fine o in un altro epilogo, sospende il senso, rimane vincolato a un dopo che il racconto non svela, ma lascia al libero arbitrio di ogni fruitore. Cosa succederà nel prosieguo della vita dei due amanti?. Qualunque sia l’epilogo, l’amore eterno che i due innamorati si professano rimane congelato nell’attimo stesso dell’ultimo fotogramma, come se il poi non rientri nella sfera semantica del racconto (film o romanzo). La felicità dell’amore, il punto d’approdo delle mille peripezie dei due innamorati (un percorso di sofferenze che è anche una prova da superare) è solo l’attimo dell’epilogo in cui il senso dell’amore si sbilancia nell’eternità mostrando la forza dirompente di questo meraviglioso sentimento. L’epilogo di una storia d’amore che si risolva nel coronamento dell’amore (e vissero felici e contenti) o nella rinuncia (sempre per amore), rende immortale l’attimo che suggella il superamento delle prove, restituendo al cuore la potenza del sentimento immortale che sopravvive per sempre nell’immaginario collettivo. Il dopo non è previsto né è prevedibile, poiché il dopo riporta direttamente la storia d’amore nella vita, propone una mondanità capace di annichilire la tragedia. Quando Nina si trova esausta sul materasso con il ventre sanguinante, nel rispondere alla domanda di Thomas (“Che cosa hai fatto?”), pronunciando la confessione che la rende finalmente libera (“Mi sentivo perfetta. Ero perfetta”), non fa che rimarcare la sospensione del senso nell’attimo dell’epilogo. Il tentativo di Aronofsky (non saprei dire se riuscito o meno) sembra trascinare la tragedia dentro il bagliore accecante dello schermo che ritorna bianco mentre il pubblico scandisce il nome di Nina in un tripudio di applausi. Il dopo è la tragedia dello schermo che rimane bianco e incapace di rinunciare a ingannare l’immaginario, incapace di rapportare il disastro degli eventi (Nina è solo una persona malata che non riesce a stabilire un equilibrio con il suo io). Per svellere i cardini di una storia che potrebbe essere simile a tante (ad esempio un parallelo tra l’amore eterno di Odette con Siegfried e l’amore eterno tra una prima ballerina del Lago dei Cigni e il suo direttore artistico) Aronofsky ha bisogno di utilizzare molti ingredienti: innanzi tutto ha bisogno della meravigliosa musica tardo romantica di Čajkovskij, ha bisogno di una storia d’amore immortale che prosegue oltre la vita e ha bisogno di analizzare e sperimentare un laboratorio di conoscenze che lo porti a verificare l’impatto di tanta produzione romantica nel mondo contemporaneo popolato da figure evanescenti, incapaci di rapportarsi agli altri, prese dal successo e condizionate sempre più dal potere. Ha bisogno di sperimentare le proiezioni inconsce di una ragazza timida, condizionata dalla madre, che sta per trasformarsi suo malgrado in un cigno nero e diventare la nuova amante di un novello Rothbart (Thomas) allo scopo di assaporare il crepuscolare sapore del successo, per non perdere il profumo della rosa che sua madre non colse (1) e vivere eternamente nella luce deificata dello schermo bianco privo di immagini per finalmente vedersi “proiettata” nel momento inestimabile della morte o del congedo dal suo pubblico. L’appagamento è una chiusura, il desiderio di un happy end corrisponde al bisogno di sentire conclusa la storia. Essere appagato in fondo è un po’ il contrario di conoscere, ossia di non accontentarsi di osservare la superficie del fatto (e vissero felici e contenti oppure dovettero sacrificarsi per il loro amore) perché la conoscenza è una sorta di speranza disperata, uno sperare di andare oltre e approfondire nell’infinito, uno stare all’erta senza soluzione di continuità, non vedendo mai la realizzazione di una speranza. La conoscenza è uno schermo che ritorna bianco e continua a macinare fotogrammi nella mente indicandoci una perfezione inarrivabile, la sua stessa imperfettibilità. Per condurre il percorso attraverso la materia opaca dell’arte (balletto, musica classica), filtrata dalla malattia di Nina come dai suoi desideri, nonché da una mondanità che non esita a minare i grandi sentimenti (un amore in costruzione), Aronofsky ha bisogno di sintetizzare i due balletti finali dei due cigni, collegandoli a due tematiche universali (Eros e Thanatos) ma senza essere troppo coinvolto. Intendo dire che la “passeggiata” dei due cigni della mirabolante sequenza finale non accetta neppure la “grandeur” dei due temi, perché la morte non è collegata al sacrificio. Innanzi tutto Nina non si sacrifica (almeno non lo fa volontariamente), ma uccide il suo doppio per conquistare l’ambito premio, e poco importa se l’ostacolo sia il suo stesso corpo: l’importante è raggiungere lo scopo, annientarsi per risorgere a nuova vita. Inoltre non è neppure chiaro se Nina muoia o meno, o perlomeno Aronofsky lascia che ognuno di noi possa dubitare a seconda dei suoi desideri. In ogni caso l’eventuale morte di Nina è solo una morte che avrebbe potuto evitare. Insomma non gli è stata richiesta e il mago Rothbart non vuole la sua fine come nel Lago dei Cigni per favorire Odile, ma vuole solo il suo corpo, Rothbart prende il posto di Siegfried, diventa un Principe nero che vuole un nuovo corpo da usare. L’amore eterno poi diventa un amore mondano, un amore economicamente utile, mentre il bacio di Odile sulla bocca di Rothbart-Thomas sancisce una sorta di rapporto incestuoso (anche se solo a un livello speculare, ossia trascinato all’interno del libretto del Lago dei Cigni come se Odile baciasse suo padre, il mago Rothbart). Per fare questo Aronofsky ci regala una sequenza fantastica: prima il colpo mortale inferto col frammento di specchio all’immagine della sua rivale Lily, ma in realtà al suo corpo ormai inutilizzabile (un corpo ancora legato al vecchio modello di amore eterno magari con happy end); poi il ballo di Odile col principe-comparsa (colui che non ama o che non è utile alla sua carriera); in seguito il bacio al suo anfitrione-padre-principe-mago, colui che può innalzarla verso la luce del successo e la fine delle immagini; quindi la presa di coscienza, l’inizio probabile di una guarigione da un happening tanto sensuale quanto oggigiorno sentito come ordinario soprattutto nel nostro paese (ad esempio escort in case di principi, presentatori, politici); infine la “morte” del cigno, di una Odette che parla al passato (“mi sentivo perfetta”), volendo così sottolineare la perdita di una perfezione, in quanto sa di non essere mai stata perfetta e se le è capitato si è sentita tale solo indossando i panni di Odile quando scopava col mondo, amando la danza e insegnandoci a piangere della bellezza dell’arte. Una attraente camminata-danza che accompagna la formazione di una donna, i suoi errori, i suoi rimpianti.

Secondo scenario: nessuno danza Il lago dei Cigni
Verrebbe da dire che la danza della Portman non è una danza. Il balletto in effetti non si nota molto e senza una vera controfigura quel poco sarebbe stato anche intollerabile. Ma Aronofsky ha scelto di portarci dentro il balletto. La mdp che segue Nina ovunque, mostrandoci spesso il PP del suo volto, adesso entra nella tragedia, mostra gli occhi dipinti di Odile, mostra le piume che crescono sulla sua pelle trasformando le braccia in ali di cigno. Il campo lungo di Odile mentre s’inchina al suo pubblico alzando le braccia nuovamente umane, mostra anche la duplice ombra del suo corpo proiettato e ingigantito sul fondale, un’ombra che riflette ancora le ali del cigno. Quindi la visione obiettiva di uno sguardo che osserva da una distanza abissale. È una sorta di soggettiva esterna al soggetto, è lo sguardo interiore di Odette che immagina ancora il suo debutto nei panni di Odile, il trionfo del suo nuovo corpo donato all’arte e al successo. Ci troviamo dentro la proiezione immaginaria di Odette, all’interno della sua follia che emerge nel suo camerino con la scomparsa del sangue dalla doccia e dello pseudo corpo di Odile-Lily. Ma guardando bene la danza mostrata da una vicinanza abissale, e che non ci permette di vedere i movimenti delle gambe (se non nella fouetté en tournant finale del Cigno nero o meglio all’interno della follia del cigno bianco), non è una vera e propria danza classica, non è un vero balletto: è un percorso da seguire per conoscere l’abisso, l’oscurità dei desideri e dei bisogni. È in altri termini l’appendice di una danza che prosegue oltre la sala da ballo e oltre il palcoscenico, simile alla terapia di una donna “pizzicata” dalla femmina di Latrodectus tredecimguttatus (malmignatta) causa del latrodectismo o dalla più innocua tarantola (Lycosa tarantula) (tarantola o taranta). Senza voler entrare nel merito del tarantismo, approfondito e analizzato magnificamente da Ernesto de Martino (La terra del rimorso, 1961), poiché la tradizione popolare ritiene che la “pizzicata” (o il “pizzicato”, ma le donne erano la maggioranza) potrebbe guarire dal veleno seguendo una terapia coreutica, ossia ballando o dimenandosi per giorni sino allo sfinimento al suono di una musica suonata da alcuni musicanti che usavano diversi strumenti (in particolare il tamburello), ebbene il “dolore” che cresce dentro il corpo (sangue, pelle lacerata) e soprattutto dentro la mente di Nina (visioni, allucinazioni), come se tutti i suoi nervi siano stati sensibilizzati dal morso della taranta, metafora del morso della vita che impone un fardello troppo pesante da portare (responsabilità, ossessione, timore di fallire, ecc.), questo dolore, che si espande nell’eco delle sue vibrazioni interiori amplificate da un’immagine di decoro e pacatezza sempre più difficile da sostenere, non può essere sopportato e il malato ha bisogno di seguire una terapia a base di danza. La danza pertanto non è soltanto il balletto o gli esercizi nella sala da ballo. La danza classica, o quel poco che ne rimane, è solo una parte della terapia. I momenti più intensi sono probabilmente quelli in cui Nina si dimena nel letto cercando di conoscere meglio il proprio corpo con la masturbazione o quando si “dimena” nella danza sfrenata e incoerente della discoteca, o quando nella sua mente si unisce in un amplesso con Lily-Nina. Il Cigno nero non è solo la storia di una ragazza che vuol raggiungere il successo e che è disposta a tutto per averlo, è un percorso da seguire per scoprire l’attimo insulso della perfezione di una improbabile guarigione e pertanto Il Cigno nero è una terapia coreutica, un balletto perpetuo che oltrepassa gli steccati tipici del rapporto fruitore-attore. Il cinema qui cerca di uscire dal suo luogo deputato (lo schermo) per inondare la banale quotidianità e ossessionarci senza tregua anche fuori dalla sala, “pulimentando” una mente polverosa e resa malleabile da un condizionamento sociale che pretende di dare un senso logico e un compito a ciascuno. Ma Nina vuole alzarsi dalla poltrona, camminare, guardarsi intorno e urlare la bellezza della sua differenza e per fare questo ha bisogno di seguire una repellente camminata-terapia al fine di esorcizzare i propri mostri celati nel sorriso di un’immagine costruita per gli altri.

(1) Guido Gozzano, I colloqui (1911)