20 marzo 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 2/3: il doppio dimezzato

Il cigno nero è la storia di un doppio che si modifica e prende il sopravvento come un Mr. Hyde che consuma lentamente un Dottor Jekyll. Il plot, da questo punto di vista, è molto semplice: un’anima candida “beve la pozione” e s’intossica facendo uscire allo scoperto la sua anima nera che prende il sopravvento. Trascorrere “una stagione all’inferno”(1), per sperimentare comportamenti e azioni “immorali”, potrebbe annichilire il candore di un’anima che avrebbe voluto conquistare il mondo senza fare i conti con la forza del potere e la debolezza della legge non sempre in grado di garantire pari opportunità per tutti. Nina sperimenta sulla propria pelle l’aberrazione del potere di Thomas e la fatica di resistere alle sue invereconde avances spacciate per propedeutica artistica. Thomas giustifica il suo potere e tutto ciò che ne deriva per un bisogno, una sete d’arte; si presenta come maestro in grado di gestire e tutelare l’esatta corrispondenza tra arte e vita, come se l’arte fosse in grado (e lo è?) di condizionare e trasformare l’evento. Chiedere a un’artista (Nina) di unire talento a dissoluzione significa rifiutare uno dei presupposti dell’arte, equivale a ignorare quanto la conoscenza possa rimediare al bisogno empirico di assaporare l’abisso per emergere “rinnovati” a “nuova vita”. Chiedere a Odette di diventare anche Odile, in quanto scelta mondana, potrebbe essere pertinente, ma non in quanto scelta artistica, perché l’artista si annulla nella conoscenza di ogni aspetto più recondito anche della peggiore abiezione (la sua stagione all’inferno), mentre la sperimentazione empirica limita lo sguardo alla superficie senza affondare nella ricerca di altri percorsi alternativi e può limitare il punto di vista dell’artista che non deve essere quello dello sperimentatore, ma del creatore. Thomas, attante trasformazionale, è pertanto un catalizzatore che serve a mostrare falsi bersagli, è un labirinto senza uscita, che, se imboccato, trascinerebbe in una inutile omologazione in cui l’arte si annulla, la danza gira a vuoto come vacuo movimento, sprigionando sensazioni senza creare sogni, e il sesso è una forma di consenso per staccare il biglietto di un effimero successo, luogo dove l’artista muore facendo emergere l’involucro di un’immagine vuota (2). Thomas (se si eccettuano i ballerini e l’uomo della metropolitana) è l’unico maschio del Cigno nero e forse singolo fattore esterno, è agente destinante che indica a Nina la missione (abiezione) per ottenere l’oggetto del desiderio (perfezione). Il percorso però non è all’esterno, ma tutto concentrato all’interno della mente e del corpo di Nina, percorso che viene mostrato attraverso gli specchi, le visioni e il disegno, ossia attraverso media senza cui non potremmo entrare nello stato d’animo di una schizofrenia latente che il destinante è in grado di far emergere. D’altronde questo movimento dall’interno (la mente di Nina) all’esterno (la sala di danza, la discoteca, la metropolitana, l’ospedale, la casa di Nina) è allo stesso tempo mentale e corporale in quanto due in effetti sono gli aspetti fondanti del film: la carne e la percezione. Il corpo di Nina sente il bisogno di uscire dalla sua nicchia di pudicizia per esprimere le proprie pulsioni, cerca disperatamente di sviluppare un percorso coraggioso ma allo stesso tempo pericoloso che conduca a un controllo maggiore della propria carnalità. Il corpo (o meglio la capacità di muoversi con armonia sul palcoscenico) è il mezzo per raggiungere il successo, la perfezione, ma è anche fonte di dolore e piacere. Gestire il corpo significa creare un equilibrio fra dolore e piacere, tramite un controllo ponderato da parte della mente. Però il corpo può sfuggire al controllo in molti modi in quanto la carne segue regole proprie spesso in contraddizione con la volontà e tendenzialmente disposta a trasgredire leggi imposte dalla società o per lo meno da un certo modo di intendere un percorso educativo che un uomo dovrebbe o potrebbe percorrere.
La carne può opporre una resistenza efficace al controllo tramite dolore e desiderio sessuale. Il dolore è connesso alla lacerazione interiore che nel film viene esteriorizzata tramite l’escoriazione, la pelle strappata e tirata via, i graffi sulla schiena. Ma questa lesione spesso è mostrata dallo specchio, nascosta in qualche modo al di qua dello specchio (pomate, vestito). La lacerazione della carne, le unghie rotte e le cuticole tirate via, il sangue che fuoriesce o i graffi che lasciano già intravedere il pus, sono ostacoli al controllo del corpo, rappresentano una preoccupazione, metaforizzano la paura. Il desiderio, latente sin dalle prime sequenze, poiché la danza è anche espressione di sentimenti ed emozioni tra cui amore e desiderio sessuale (anche Odette ama il suo principe e vorrebbe danzare con lui in un amplesso), deve essere espresso con maggiore intensità. Nina si deve lasciare andare e diventare Odile. La carne potrebbe prendere il sopravvento rischiando di legarci a un corpo stereotipato, coagulo di erotismo e bellezza patinata, come richiesto da un mercato conforme a un gusto manipolato.

1. Il Korper. Rischi del corpo-oggetto o doppio per metà
Thomas chiede a Nina di farsi corpo oggetto, di trovare un connubio, una fusione del suo corpo con la cosa, di dare forma a un nuovo approccio di mondo, rinunciare cioè ad un controllo etico-artistico della sua danza (e dell’espressività del corpo soggetto) per approdare in una dimensione in cui la scelta di mondo equivale a produrre una nuova figura che sia più “cosa” che”corpo”, un corpo oggetto, valido in quanto sensuale, in quanto estrapolato dalle regole della danza (pertanto eviterei di paragonare la danza del Cigno nero alla splendida danza del Lago dei cigni) in cui le stesse regole conosciute (peraltro ben conosciute da Nina perché la parte di Odette non viene mai messa in discussione e Lily stessa fa di tutto per rubarle solo la parte del cigno nero) perdono valenza (pur mantenendo la loro efficacia) per far esaltare l’informe, o meglio una certa tendenza per cui il corpo danzante perde fisicità per diventare mero oggetto di mercato dato in pasto alla libidine e al desiderio sessuale. Pertanto il doppio in questo film si realizza soprattutto nell’erosione di una certezza (la migliore danza) e nell’aumento di un’entropia (per cui non ci può essere un ritorno allo stadio iniziale) tendente ad avvalorare la tesi di una danza-sensualità, in grado di trasformare un corpo in oggetto. Nina, pur tentando una timida opposizione, non solo finisce col cedere, ma lotta per imporre l’esito della sua metamorfosi, procurandosi una forma artistica, che se da una parte conduce a uno scollamento con la vita (situazione) dall’altra introduce nella fecondità della creazione artistica (fiction). Il corpo si fa oggetto non in quanto materiale assemblato per il mercato (design del doppio cigno), ma soprattutto come sintesi ineffabile di un’emozione, “infinito intrattenimento” (3) che reitera nella sequenza la dilatazione infinita di un momento (bellissima a tal proposito la sequenza finale che meriterebbe da sola un’analisi più approfondita e pertinente).

2. Il Leib. Recupero della realtà fisica
Ciò che il corpo di Nina perde via via nel corso della storia, ciò che le sfugge senza speranza, il cigno acquista allo stesso tempo. Quando giunge l’ora di far uscire la propria identità segreta e indossare il costume che simboleggi la propria sconfitta, l’arte inonda l’immagine. L’avvento del corpo-oggetto “oscura” il teatro; il sangue mentale (4) dirotta lo sguardo obbligando a decostruire il mondo percepito, a rivedere il connubio oggetto-soggetto (doppio) per constatare che Nina non è un corpo-oggetto. È un corpo che “si muove nello spazio”, che percepisce e interagisce con il mondo non solo attraverso lo sguardo (video), il tatto (tango) o l’olfatto (oleo), ma con l’integrità della propria carne. L’esperienza di Nina è pertanto un’esperienza di un corpo nel mondo (5), un percorso di conoscenza totale che non è relegata soltanto nel pensiero e nella ricerca dogmatica. Il Savoir (6) si realizza nell’azione, nel movimento e nell’ archetipo junghiano dell’Ombra (7), nell’atto di espellere-integrare l’ombra che vive in lei, ossia il cigno nero, da accettare come un’esperienza della carne intesa appunto come coagulo di proiezione mentale, profumi, visioni, odori, sapori, sangue, sesso. Semmai, se si vuole intravedere una sorta di malattia negli atteggiamenti di Nina, riferendomi sempre allo studio della fenomenologia merleaupontyana, si potrebbe affermare che la malattia di Nina (visioni, paure, timori) la obbliga a rimanere nell’attuale, senza capacità di “mettersi in situazione” ossia di interagire con il mondo tramite il movimento della propria carne (8). Il film definisce bene questi aspetti “fenomenologici” dell’agire della dolce Odette, quando Aronofsky decide di “occupare” lo spazio della ragazza cucendole addosso uno sguardo (primo piano), istanza oggettiva di un pubblico che vorrebbe possedere le sue ansie, in quanto sguardo interessato a scavare nel suo spazio vitale, togliendole l’ossigeno necessario per respirare profondamente la sua stessa storia. Uno spazio claustrofobico che restituisce l’apnea prolungata di Nina. Assistiamo pertanto a una perdita graduale dell’ossigeno che si definisce nell’epilogo attraverso il respiro sensuale, erotico, ma anche affannato di una Odile lanciata nella sua danza di cigno nero, ormai incapace di “mettersi in situazione”. In effetti, a ben vedere, il doppio di Nina-Odette (i tantissimi doppi messi sapientemente nel film) deve ancora crescere, svilupparsi, evolversi. Pertanto Lily non è il doppio di Nina, come Odile non lo è di Odette o Erica non lo è di Nina ma è Nina a essere il doppio della sua esperienza. In questo senso il film è un’esposizione di carne che avvolge il mondo “rappresentabile” della danza (9), un connubio di carne e sangue che pulsa all’unisono intrecciando rapporti (madre-figlia, giovane ballerina-ballerina al tramonto, Nina-Lily) in quanto esperienza sensibile di una proiezione corporale. Con questo non intendo affermare che nel film di Aronofski non esista il tema del doppio. Al contrario, poiché lo “sdoppiamento” è già avvenuto sin dall’incipit, assistiamo a una messa in opera di una “gemmazione”, ad una sorta di escrescenza che si proietta nel corpo dei propri doppi (il volto di Nina che Nina stessa vede delinearsi nel volto di Lily e addirittura il suo anti-corpo che incrocia all’uscita del teatro sin dai primi fotogrammi). Il doppio è già un dato di fatto, una certezza; anzi si è moltiplicato per cui non è più possibile recuperare un certo ordine “mentale” (sempre che sia fruttuoso recuperare questo stadio primigenio che non è mai presente nel film). In fondo Nina è già una Odile-Odette, perfettamente in grado di danzare i due cigni, capace di affermare la propria poliedricità, di sviscerare i propri sentimenti ed emozioni, in quanto carne che imprime al corpo un’esperienza “integrale”. Ritengo che la Nina “doppio cigno”, o almeno la sua doppia personalità, sia esattamente agli antipodi del Visconte dimezzato (10). Nel romanzo di Calvino l’operazione di cucitura per ricomporre un corpo sdoppiato serve a restituire al corpo le due anime (il Gramo e il Buono) del visconte Medardo di Terralba che in quanto separate non riescono ad entrare in sintonia con gli altri (anche l’anima buona alla lunga stanca), mentre nell’epilogo del Cigno Nero assistiamo alla “scucitura” di un corpo, alla patogenesi della carne, quando il montaggio decreta la “morte” del film, unico modo per suturare i mille rivoli di cui è composta un’esperienza mentale e corporale, un’esperienza della carne; pertanto la “bellezza medusea”(11) di Nina acquisisce romanticamente il suo meritato primo piano come termine ultimo di una chiusura che è anche, in fondo, l’abbaglio dello schermo bianco del cinema che ferisce l’occhio, che impone all’occhio un’altra dimensione dello sguardo.

(1) Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (1873)
(2) Non è mio interesse esprimere giudizi “politici” citando fatti concreti, ma è possibile immaginare, per fare un esempio fra tanti, quanti siano gli pseudo artisti, grandi comunicatori illusionisti, precari millantatori ingannatori succhia cervelli, che animano le serate della malridotta televisione italiana.
(3) Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969)
(4) Il sangue che esce dalla doccia e che Nina provvede a coprire con un asciugamano non è soltanto il colore che (non) può sgorgare dal nero e dal bianco, colori in grado di occupare sistematicamente e progressivamente il proscenio. Il sangue diventa mentale, perché mostratoci dalla mente di Nina. Osservando quel sangue, lo sguardo, una volta ingannato, crede di vedere il risultato di un delitto (Nina ha ucciso Lily) ma in realtà vede la proiezione del sangue fuoriuscito dal corpo di Nina (perché Nina ha colpito se stessa), che non esiste in quanto sangue-oggetto (doccia) ma come sangue-soggetto (il corpo di Nina, mestruazioni? Deflorazioni?) e pertanto lo sguardo non è stato ingannato ma dirottato, perché Nina ha semplicemente ucciso il suo corpo-oggetto.
(5) Cfr. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano 1965
(6) Savoir, in francese, sapere, comprende il vedere (Voir), e pertanto uso questo termine nel senso di saper vedere o conoscere attraverso la visione, la veggenza intesa nel suo significato rimbaldiano
(7) cfr. C.G. Jung, Gli archetipi del’inconscio collettivo, 1934.
(8) Cfr. Merleau-Ponty, cit.
(9) Ritengo che Il cigno nero non sia la danza. Pertanto non sono interessato alle polemiche atte a rimarcare l’estraneità o la distanza o la non verosimiglianza con la vita di una ballerina classica come riferito da molti. Ovviamente rispetto il punto di vista degli altri, ma ritengo che non abbia valenza pretendere l’attinenza del Cigno nero alla vita professionale di un corpo di ballo. Ad Aronofsky non interessa la verosimiglianza ma la conoscenza, perché Nina non è solo una ballerina classica, ma anche e soprattutto un corpo che cresce e che si scontra con la propria ombra ed è un quadro visto dal suo pubblico, amato e desiderato dal suo pubblico.
(10) Cfr Italo Calvino, Il visconte dimezzato (1952)
(11) “Bellezza meduséa, la bellezza dei romantici, intrisa di pena, di corruzione e di morte[…]” Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni Editore, Firenze 1976(5), p.39.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Mio Dio che palle quest'analisi: scrivi di cose semplici in modo elaborato non così necessario. Ci sono concetti densamente sintetici, roboanti... Mi sembra che tu faccia una di quelle lezioni di chirurgia teorica col corpo del paziente aperto di fronte agli studenti. E durante la lezione tocchi e poi ritrai le dita per non sporcartele, fai spazio tra gli organi e poi concettualizzi subito dopo con gloriose parole di esplicazione sintetica.
Con certe frasi non dici nulla che non sia facilmente comprensibile durante visione del film: ciò che manca in questo post è proprio una teoria su questo film, che non sia però una teoria allargata a tutta l'essenza del cinema. Hai presente le analisi di Zizek? Bene, quelli sono punti di vista insoliti. Ok, Zizek è un'intelligenza troppo alta per farvi riferimento... ma è giusto per fare un'esempio.

dopiteer

Luciano ha detto...

@Dopiteer. Ti ringrazio per le tue interessanti osservazioni sul mio modo di scrivere che, ti confesso, non ha alcuna pretesa di rivelare concetti impressionanti o insoliti. Questo è il mio modo di scrivere, poi se per alcuni o per tutti non funziona, me ne scuso. Per quanto riguarda la tua critica forse più decisa (cioè quando scrivi che sono troppo sintetico) in effetti comprendo benissimo il tuo disappunto, ma i miei post purtroppo devono essere sintetici perché non posso sviluppare un discorso in una sola pagina. A questo proposito dovrei forse limitare le mie analisi ad un solo concetto e svilupparlo di conseguenza, ma.. vedi.. le mie analisi non sono le lezioni di un chirurgo che non vuole insanguinarsi, ma un tentativo di esprimere le mie emozioni, che sono, giuro, molto debilitanti, perché mi coinvolgono completamente per giorni e ritornano a “disturbarmi” in ogni momento. Ad esempio la sequenza finale, quando Odile balla in scena e ansima ed è eccitata e si ode la musica del Lago dei Cigni, ha prodotto/produce in me sensazioni intense: rivedo il film e lo vivo, palpito insieme a Odile, ripercorro i miei ricordi e risento Čajkovskij e siedo a teatro a vedere il Lago, e immagino una passeggiata di molti anni prima con quella che sarebbe diventata mia moglie e respiro quegli attimi… Insomma, in effetti capisco che i miei lavori possano essere noiosi, ma ti assicuro che se potessi farei scivolare il film sulle mie esperienze ed emozioni, ma purtroppo non sono Zizek. Ci provo, ecco tutto. Grazie comunque per le tue interessanti osservazioni e per avermi indicato un modello da seguire. Modello che non seguirò: primo, perché non potrei mai, causa le mie scarse capacità, essere un altro Zizek; secondo perché comunque non sono interessato a scrivere come Zizek.

Ismaele ha detto...

leggo solo passione e analisi che organizzino i pensieri, i riferimenti, le associazioni.
a me piace, a volte non riesco a seguire, ma capisco che sono io che so poco.
e imparo.
continua e grazie!

Luciano ha detto...

@Ismaele. Sono io che debbo ringraziarti. Per me invece sai moltissime cose e me ne accorgo dalla lettura dei tuoi illuminanti post. ^^

Anonimo ha detto...

Riflettere sul doppio per me è sempre molto interessante. E' una cosa che mi tocca moltissimo e ovviamente devo dire grazie a questo film per avermelo permesso ancora e a te che lo hai analizzato sempre con molta passione e profondità. Il finale regala anche a me una marea di emozioni indomabili.

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. In effetti il doppio è una componente fondamentale della natura umana e pertanto tema artistico sempre interessante ed emozionante. Sono io che ti ringrazio^^