2 marzo 2011

Il cigno nero (Darren Aronofsky, 2010) 1/3: lo specchio e il bello

L’apparente complessità del film si avvale della sua esondante semplicità. La bellezza delle immagini avvolge l’inquadratura tracimando oltre, fino a connettersi con il partecipato coinvolgimento dello spettatore. Guardare questo film è un po’ come assistere ai momenti epici (nuclei narrativi) della propria vita, a quei momenti fondanti nel nostro passato, quelli che hanno lasciato il segno e che determinano ciò che siamo o siamo diventati (primo bacio, il giorno della laurea, una comunione o il matrimonio, oppure un’esperienza diversa, un lutto, una separazione, ecc.); per questo Il cigno nero è molto più di un semplice racconto, molto più di un film. Eppure quest’opera si avvale di tematiche consumate da oltre un secolo di vita in quanto parte integrante del cinema stesso. La musica è talmente famosa e immortale da non avere bisogno di ulteriori elogi e ammirazione. Il lago dei cigni di Čajkovskij è entrato nel nostro DNA: ascoltare i suoi tempi è sufficiente a ricostruire la storia romantica e drammatica di un amore impossibile. La tragedia è calata dentro ogni nota, assorbita e impregnata da alcune delle melodie più belle della storia della musica classica. Prendere materiale di tale levatura (musica, racconto) e lasciarlo trapassare dall’essenza stessa del cinema (specchio, doppio, visione) può comportare il rischio di produrre un’opera sterile e stereotipata, come tante prodotte negli anni. Pertanto va premiato il coraggio di Aronofsky che è riuscito ad attualizzare una storia bellissima ma pericolosa in quanto l’intreccio del libretto di Begicev è conosciuto da tutti e il tipico dramma romantico oggi non è apprezzato fino in fondo come meriterebbe, proprio perché le strutture dell’antico racconto tedesco (Il velo rubato di Musäus) sono sentite come usurate, superate, non allineate alla tragedia di una società post-moderna. Ma l’idea vincente di unificare in un corpo i caratteri dei due cigni (bianco e nero) porta il film fuori dal tempo, in un limbo in cui si incontrano i miti della stessa umanità che rappresentano la nostra verità di esseri umani, di ciò che siamo stati, e come cosa vogliamo diventare. Lo specchio lascia supporre tanti discorsi sui riflessi, sul cinema come specchio del mondo o dell’animo umano, riflette nel film spezzoni di Odile che albergano nel cuore di Nina sin dal primo fotogramma, quando Aronofsky ci mostra per oltre un’ora la gentilezza e la misurata timidezza di splendido cigno bianco che non può soddisfare, con tanta purezza, la libidine, camuffata da creatività, di Thomas. Ma a guardare bene lo specchio (anzi i numerosi, infiniti specchi) non è posto all’esterno dei corpi, non è l’altrove che riflette la follia e la disperazione di Nina. Lo specchio è l’interno e il fuori allo stesso tempo, come il doppio presenta due facce: una è rappresentata dalla superficie riflettente che mostra l’insorgere e lo svilupparsi delle visioni di Nina, l’altra è nell’inquadratura e nella sequenza, dentro una mente capace di materializzare incubi e visioni: una sorta di ologramma che non ha più bisogno di una obsoleta superficie anche se magica. Pertanto lo specchio di Aronofsky, più che riflesso dei corpi e costruttore di mondi fantastici (il corpo di Nina riflesso che non risponde più al corpo di Nina riflettente), rappresenta il bisogno di guardarsi, di conoscersi, di capire i propri movimenti per vedere da fuori gli errori di un corpo danzante. Osservare un proprio passo di danza sbagliato riflesso nello specchio della sala è come uscire dal corpo e vedersi da fuori. Conoscere il nostro corpo, i suoi punti deboli significa scoprire che non siamo “fatti” così, in primis perché lo specchio rovescia l'asse fronte-retro e non permette una visione esterna, almeno non quella che vorremmo, e in secondo luogo perché il riflesso non mostra i gesti inconsci del nostro corpo, quelle azioni che nascondiamo solo a noi stessi, o almeno, se “ci prova” (vedi la sequenza di Nina davanti allo specchio del camerino che mostra il suo corpo visto da dietro per via di un effetto droste causato da un’altro posto dietro), sappiamo che le ferite mostrate sono state causate da un gesto inconsapevole (come mangiarsi le unghie o sanguinare nel tirare via le cuticole). La potenza riflettente si attesta fuori dal riflesso, dentro l’immagine stessa, ossia nella scena e nella sequenza, sotto forma di allucinazione. Da questo punto di vista Nina è sempre stata Odile poiché la sua sofferenza trae origine più dal terrore di scoprire il suo vero volto all’interno della propria vita, che dal timore di non essere adatta a ballare come cigno nero. In effetti i momenti che realizzano questo percorso tragico avvengono per lo più al di qua dello specchio (il sangue sulle dita, le ferite sulla schiena, le piume nere che emergono sotto la pelle aprendosi alla danza, il suo volto che emerge da quello di Lilly e di sua madre). Aronofsky ci avverte sin dalle prime sequenze dell’incipiente emersione di un mondo interiore nascosto per troppo tempo dalla paura di Nina, quando la Nina vestita di bianco incrocia se stessa vestita di nero: Odette attraversa lo spazio di un’altra dimensione guardando negli occhi la sua personale Odile. Lo specchio è pertanto il cinema, è il modo in cui è montato, i trucchi usati per coinvolgerci. In effetti i tantissimi primi piani di Nina, ripresa mentre balla e mentre si guarda allo specchio o ripresa da dietro con una carrellata a seguire lungo i suoi percorsi attraverso il teatro o nella casa o nell’ospedale, oltre a tenere sempre il nostro sguardo focalizzato dentro il cuore dell’evento, conducono il fuori campo dentro il suo mondo, mostrando la sua avvenuta metamorfosi. La macchina da presa, che segue da dietro (o precede) mostrando Nina in primo piano, ricorda un po’ le carrellate di Elephant (1) (e in particolare il cinema di Béla Tarr), ma soprattutto ci trascina dentro l’azione o meglio nel fulcro stesso dell’immagine affezione (2) perché “[…] non vi è primo piano di volto, il volto è in se stesso primo piano, il primo piano è da sé solo volto, e ambedue sono l’affetto, l’immagine affezione” (3). Scandagliare in continuazione, senza un attimo di respiro, le infinite espressioni della Portman, “stargli addosso”, sia quando balla, sia quando si muove tra le stanze della propria casa o attraversa i saloni del teatro o entra nella corsia dell’ospedale, coinvolge emotivamente poiché ci sentiamo attratti dalla forza di gravità del personaggio, ci sentiamo partecipi delle emozioni e delle sofferenze sopportate da Nina, condividendo le sue ansie e allucinazioni. Ma questa partecipazione emotiva, questa “ansia” che ci incolla alla lenta ma progressiva uscita del pulcino oscuro dall’uovo, non deve essere confusa con il classico coinvolgimento acritico. Ogni volta che l’inquadratura ci mostra il primo piano di Nina, ossia il Volto, sorge spontanea la domanda: “ a cosa pensi?” oppure “cos’hai? (4). Aronofsky ci invita a “leggere” e interagire con i due tratti fondanti del volto come definiti da Deleuze: volto riflessivo e intensivo. Il “wonder” e il desiderio (5) che si compenetrano in un’unica intensa espressività: il volto di Nina non è solo un volto, un primo piano, ma è “[…] volto unico e sconvolto [che…a]ssorbe due esseri, e li assorbe nel vuoto […](6). Quando Nina si guarda al vetro della metropolitana, e vede l’immagine di se stessa offuscata dalla galleria oscura, vede già la sua anima, o almeno la parte nera della sua anima. Questo è un riflesso che potrebbe attivare una serie di azioni da cinema horror; eppure Aronofsky non vuole mostrare l’orrore del mondo e i mostri pronti a ghermirci, ma il delirio che alberga nella luce persino di un cigno bianco. Il cigno nero in fondo è l’altra faccia della bellezza, materiale assemblato (paesaggio, corpo, opera d’arte) che diventa una storia e mostra la sua stessa conturbante escalation, l’altra faccia di un bello “[…] consentito, aproblematico e senza traumi, […] – in effetti – brutto, falso e immorale. Se si vuol mantenere viva l’aspirazione verso una vita migliore, bisogna sfuggire le offerte di un bello a buon mercato, le soddisfazioni passeggere che adescano la coscienza, invitandola a compromettersi con la «cattiva realtà», quella denunciata, appunto, dal brutto con la sua sola esistenza”. (7) La bellezza e la bruttezza, o meglio, la vaghezza di un bello che ha bisogno del suo lato oscuro per affermarsi e aspirare a una effimera perfezione. Infatti ritengo che Il cigno nero sia un film sulla bellezza e del suo inevitabile epilogo: l’attimo mortale di una perfezione. Nina rimane come sigillata in un inno alla notte di Novalis con “l’eternità adagiata nei suoi occhi” (8), chiusa nel suo mondo perfetto, inarrivabile, meraviglioso come il balletto del Lago dei Cigni; il mondo invece rimane fuori, sgretolato e dannatamente frantumato (lo specchio che si spezza nell’epilogo) sempre in piedi con le sue invidie (Lilly), pulsioni (Thomas), delusioni (Beth) e rivincite del proprio fallimento proiettato nel futuro della figlia (Erica). La bellezza non è solo il candore del cigno bianco, la sua storia di sofferenza e morte. Come la prospettiva non può essere la spiegazione e la catalogazione del mondo (può anch’essa ingannare l’occhio ed è uno dei tanti modi di “dipingere”), così il Bello deve fare i conti con l’altra faccia del suo riflesso: la tragica, inevitabile oscurità del Brutto. Il ballo del cigno nero, con le piume che crescono sul corpo di Nina e la trasformano nella sua Nemesi, riflette l’Oscuro e il Brutto nella bellezza stessa di una danza che lascia senza fiato, che penetra nel cuore e sprigiona tutta la sofferenza in un attimo coagulatosi nel bacio magico e incredibilmente umano (perché pieno di sofferenza, di desiderio, di paura, di rimorso, di coraggio) dato a Thomas.


1 Film di Gus Van Sant del 2003
2 Gille Deleuze, L’immagine-movimento, ubulibri, Milano 1993(2), pp. 109-124 (tutto il cap. VI)
3 Ivi, p. 110
4. Ivi, p. 112
5. Riprendo i due termini distintivi dei due tipi differenti di volto così come definiti da Deleuze, ivi, P. 111
6. Ivi, p. 123
7. Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Bologna 1995, p. 112.
8.
[…] Il tumulo divenne una nube di polvere – attraverso la nube vidi i tratti trasfigurati dell’amata. Nei suoi occhi era adagiata l’eternità – io afferrai le sue mani e le lacrime divennero un legame scintillante non lacerabile. Millenni dileguarono in lontananza, come uragani. Al suo collo piansi lacrime d’estasi per la nuova vita. Fu il primo, unico sogno – e solo d’allora sentii eterna, inalterabile fede nel cielo della notte e nella sua luce, l’amata.Virginia Cisotti (a cura di), Novalis. Inni alla Notte. Canti Spirituali, Arnoldo Mondatori, Milano, 1991 p. 73 (Inno alla notte III)

16 commenti:

Anonimo ha detto...

Il balletto è un’arte allo specchio, nulla di più opportuno dunque per rendere la moltiplicazione e frantumazione dell’io (non per nulla si inscenano una certa quantità di doppi nina/beth, nina/lily, nina/madre).
D’altronde oltre agli specchi che scavano l’io di Nina, ci sono anche i quadri della madre, anch’essi una moltiplicazione del volto che sono una rappresentazione dell’emotività umorale dell’una e dell’altra, perché si animano, si muovono come il riflesso di nina di anima e si muove autonomamente sullo specchio. Ed è il mezzo di introspezione che è mezzo di uccisione del sé.
Il balletto è perfetto, dunque, non solo quel balletto lì, la sua rilettura psiconanalitica è nota, perché è anche l’arte del corpo: traduzione dell’arte vissuta e resa con la corporeità più di quanto non possa fare il teatro con il corpo dell’attore, domina il corpo, lo doma, lo esalta, lo governa e lo fa esplodere.
Un film basato sul trionfo del corpo che si avvita su un disagio psichico che è un disagio corporeo, materiale, carnale.

CST ha detto...

Devo vederlo questo weekend. Poi esprimerò la mia opinione.

Anonimo ha detto...

"Infatti ritengo che Il cigno nero sia un film sulla bellezza e del suo inevitabile epilogo: l’attimo mortale di una perfezione."

Oltre a farti i complimenti come sempre per l'ottima e approfondita analisi (di cui aspetto impaziente anche le altre parti restanti), devo dire che mi trovo totalmente d'accordo con quanto dici nel pezzo che cito in questo commento.

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Anonimo. Il tuo commento è molto interessante e anticipa in parte i contenuti dei miei prossimi post. Infatti il tema del doppio in questo film è molto articolato e trattato con maestria. Ritengo che il “doppio” che emerge dalla visione del film sia molto complesso e lavori (devo tornare al cinema e rivedere alcune sequenze) in un certo qual modo “unificando” i due doppi di Nina (i cigni ma come, se credo di aver capito [non] gli “umani” e l’arte ossia “i quadri della madre”) un po’ (credo ma devo ancora verificare alcuni testi) come accade nel Visconte dimezzato di Calvino. Soltanto che nel Cigno nero accade che l’unità si separi mostrando le due Nina ossia Nina-Odette e Nina-Odile, ma come giustamente affermi c’è anche un doppio Nina-Lily, ecc. Insomma il discorso è complesso. Importante anche il discorso sul corpo, sul balletto e persino sull’aspetto romantico della storia (o forse meglio dire post-romantico) tenendo conto della musica e della storia (sia la storia del libretto del Lago dei cigni che la trama del Cigno nero). Spero di pubblicare il secondo post il prima possibile. Grazie per il tuo come sempre ottimo intervento.

Luciano ha detto...

@CST. Attendo con ansia di conoscere la tua opinione. A presto.

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Un film che mi va vibrare ancora, e che ti entra nel sangue. Sempre gentilissima. Grazie^^

Anonimo ha detto...

Sono in attesa del secondo capitolo, Luciano, sei sempre molto preciso e chiaro. Ti ringrazio.
Spero che ne tratterai uno specificatamente sul corpo, perchè qui la cosa è molto interessante. Anoressia, bulimia, autoferimenti, trasformazione, dolore fisico, accitazione sessuale, insomma ci sono molti spunti.
Non ti sembra che con la madre ci sia un rapporto quasi "alimentare", o meglio che la madre lo intenda ancora così il rapporto con la figlia, di dipendenza/legame alimentare? Il pompelmo iniziale, la torta ad un certo punto. E quanto del rapporto alimentare poi diviene, in una vita ben sviluppata, evoluzione sessuale?

Cineserialteam ha detto...

Complimenti per la tua solita, impeccabile analisi.

La pellicola è validissima, l'interpretazione del cast, Mrs. Natalie in primis, è da Oscar. E il finale è confezionato magistralmente da quel visionario di Aronofsky.

Promosso.

CST

Luciano ha detto...

@Anonimo. Sì, il film è pieno colmo di spunti e più passa il tempo più mi rendo conto che non basterebbe un volume intero per sviscerarli tutti. Un film che si sta fondendo col mio DNA, mi sento come in trance e invece dovrei cercare di rimanere lucido per mettere ordine nella congerie di idee e sensazioni. Credo che scriverò qualcosa sul “corpo” ma, poiché cito un autore in particolare, sto cercando la fonte per dovere di precisione; vorrei inoltre scrivere anche della “carne” (e quindi sesso/cibo) ma non so se potrò farlo e quindi della morte (uguale come per il sesso). Sembra anche a me: senza dubbio c’è un legame “alimentare”, una sorta di circuizione o un modo per “occupare” la vita che non ha avuto, di proiettare sul successo della figlia quello che a lei è stato negato. Tutti spunti interessanti. Le tue osservazioni sono come sempre pertinenti e feconde.

Luciano ha detto...

@CST. Grazie^^ Sempre gentilissimo. Sono d’accordo. Pellicola valida, interpretazione della Portman fantastica (secondo me Oscar meritato) e finale coinvolgente ed esaltante che mi ha provocato una violenta scarica di adrenalina. Ancora adesso, ripensando alle sequenze finali, provo forti emozioni

Chimy ha detto...

Complimenti Luciano. Che film e che grande analisi che ne hai fatto! Attendo le altre due parti!

Luciano ha detto...

@Chimy. Sempre gentilissimo, ti ringrazio^^. Il cigno nero è senza dubbio un grandissimo film che mi sta entusiasmando ogni giorno di più.

Emmeggì ha detto...

Per me l'esondante semplicità su cui si fonda il film, di cui parli all'inizio e che condivido come ritorno, è quella potente e archetipica delle Fiabe. Complimenti per il blog e la recensione. Ti ho messo fra i link del mio "quasi nuovo" blog, che ti invito a visitare! Ciao
Emmeggì

Luciano ha detto...

@Emmegi. Sembra incredibile ma nel secondo post che sto per pubblicare, cito (anche se di sfuggita) un archetipo junghiano. Infatti il film è attraversato da linee narrative e strutturali riferibili alla fiaba. Sarebbe interessante approfondire l'argomento. Ti ringrazio, sei molto gentile. E grazie anche per avermi linkato. Appena possibile ricambierò la visita e il link^^

Emmeggì ha detto...

E allora non potrai non leggere la mia "recensione" direi particolare...;-) A presto!

Luciano ha detto...

@Emmegi. Caspita! Allora devo cercare di conoscere il tuo blog il prima possibile. Promesso^^