8 febbraio 2011

Hereafter (Clint Eastowood, 2010)

Hereafter è un film sul “male di vivere”(1), sul fardello portato da chi soffre e riesce a fatica a uscire da una spirale tragica. Ma la vita contiene, si appropria, del senso, del sapore della morte, del desiderio di conoscere l’altrove o consolarsi di una sua labile esistenza. Le tematiche sono molto profonde e sconvolgenti soprattutto perché Eastwood non concede consolazioni o risposte ai suoi personaggi, al loro desiderio di esorcizzare l’avvento del nulla (oppure di un’altra dimensione). Non ha importanza definire l’altrove o analizzarlo o scoprire i suoi evanescenti e simbolici messaggi, ma ha importanza la reazione di chi è rimasto, di chi ne è miracolosamente uscito vivo (Marie) o di chi si è salvato solo perché non ha fatto i compiti (il piccolo Marcus). Non è nemmeno un film sulla casualità della sopravvivenza, sulla frammentarietà del vivere quotidiano, perché in fondo ognuno definisce il cammino in base alle proprie convinzioni, alle proprie illusioni, alle proprie speranze. L’altrove è un mondo a due facce: consolatorio per chi non riesce a vederlo, ma una condanna (George e Marie) per chi deve sopportarlo ogni giorno di più. Anzi, il desiderio di non voler conoscere l’altrove, ma al contrario sperimentare il sapore della vita, giorno dopo giorno, è forse l’aspetto migliore del film. Il sapore della vita si materializza nella sequenza della scuola di cucina, quando l’erotismo della bendata Melanie, che sporge le labbra in avanti in attesa del cibo offerto da George, irrompe sulla scena e inonda l’immagine occultando per un attimo il “teorema” della morte. La sequenza è un inno alla vita, un omaggio ai cinque sensi del vivere quotidiano, una splendida dedica al senso più complicato (forse con l’olfatto) da usare se slegato dall’immagine: il gusto. In un mondo in cui siamo abituati persino a mangiare con gli occhi, non è semplice annullare lo sguardo per conoscere profondamente e alimentare il senso del gusto. Melanie infatti fatica a riconoscere il fagiolo messicano e deve compiere uno sforzo notevole per educare il senso più atrofizzato, in una società dove il cibo è diventato icona nel perdere la sua caratteristica essenziale: il sapore. Anzi, il sapore che avvolge palato e papille di Melanie si metaforizza nel sapore della vita quando trasforma il gusto in sentimento e il porgersi all’altro (Melanie attende con la bocca protesa il cucchiaino tenuto da George) in erotismo. D’altro canto la scoperta del mondo parallelo trasforma la curiosità e l’attrazione di Melanie in paura di affrontare un rapporto. Sapere di essere radiografati nel profondo, preoccuparsi che i propri segreti più reconditi, le proprie paure, gli oltraggi subiti, possano essere conosciuti dal sensitivo, induce a fuggire, a rifiutare un rapporto. Il sapore materializza il mistero, la conoscenza non è nella rivelazione di un segreto, ma nella ricerca del senso stesso della rivelazione: la scoperta di stare assaggiando il fagiolo dopo mille faticosi tentativi restituisce il valore dei tentativi falliti come percorso culturale. Motivi e temi interessanti degni del grande cinema di Eastwood, ma non espressi al meglio, non supportati forse da una sceneggiatura, ma anche da una regia che nel complesso risulta un po’ debole. Le criticità del film purtroppo sono molte ma mi limiterò a evidenziarne tre che mi sembrano distanti dal cinema asciutto e solido di Eastwood.
Tre storie una storia. La sceneggiatura prevede tre storie parallele che si connettono nell’epilogo durante la fiera del libro di Londra. Tre storie temporali e spaziali differenti. La prima è ambientata a Parigi (a parte un prologo in Indonesia durante la tragedia dello Tsunami), la seconda a San Francisco e la terza a Londra. Londra è la città che raccoglie i cocci di tre perdite: 1) Marie, cambiata dopo essere stata sul punto di morire causa Tsunami, perde la sua vita professionale, il suo successo, suo marito; 2) George con il suo dono-condanna perde o rischia di perdere ogni contatto con i piaceri della vita quotidiana, perde un rapporto con una donna ancor prima che questo abbia tempo di nascere; 3) Marcus perde il fratello gemello e poi la madre. Le tre perdite possono consumarsi solo per una svolta nell’epilogo, nel momento in cui i tre personaggi si incontrano alla fiera del libro. La cultura dunque fa incontrare e unire i tre destini imprimendo loro una svolta che conduce inevitabilmente all’happy-end, o meglio a una proiezione didascalica che fa leva sull’inconscio di ognuno: la classica lezione moraleggiante sulle piccole cose quotidiane, la forza di proseguire la propria vita nonostante un doloroso passato, la capacità di ricominciare rispettando valori apparentemente insignificanti, quali amore, famiglia, semplicità, ecc,.ecc. Definirei questa fase come un’etica dell’inconscio collettivo, accresciuta negli ultimi decenni anche grazie a tanto cinema didascalico-moraleggiante. Non è comunque mia intenzione criticare questi presupposti, anzi, proprio perché tali presupposti tendenzialmente conducono al cliché, hanno bisogno di essere lavorati da una regia forte e robusta e impressi in una sceneggiatura altrettanto collaudata. Purtroppo questo non accade: solo dopo pochi minuti di visione si capisce subito che prima o poi le tre storie si unificheranno e i tre personaggi finiranno con l’incontrarsi come nei luoghi comuni più consumati. L’usura dei buoni propositi e della sofferenza in offerta speciale sarebbe alle porte se non fosse che per fortuna Eastwood è pur sempre un maestro della regia, ma il dubbio rimane. Forse (questa è solo opinione di osservatore profano e inesperto di regia) sarebbe stata preferibile una sceneggiature con tre storie separate, tre film che si concludono davanti all’entrata della fiera del libro di Londra, con un breve epilogo che lascia all’immaginario dello spettatore se i tre poi avranno o no la possibilità di fare la propria conoscenza.
Gli aspetti onirici come credenza extra-mondo sono purtroppo un momento debole del film. Va benissimo che Marie in fin di vita veda quelle ombre, quella foschia, dando adito a una certezza (un altrove esiste davvero) ma poiché mi sembra che il film sia propenso a analizzare lo sviluppo dei sensi, l’aspetto onirico (che può essere considerato una sorta di sesto senso), o l’esperienza pre-morte fungono da forza centripeta che aggiungono dati secondo me superflui poi per fortuna non analizzati da Eastwood. In altri termini le esperienze pre-morte di Marie come la veggenza di George forse avrebbero avuto maggiore impatto se mostrate dall’esterno, lasciate sedimentare attraverso il punto di vista dello spettatore, una sorta di focalizzazione esterna, senza “entrare” nell’inconscio dei protagonisti. Voglio dire che Marie e George avrebbero potuto vedere un altrove, ma il non mostrare questo altrove avrebbe lasciato lo sguardo nel dubbio. Il film comunque resiste alla deriva estetica perché questi momenti sono rari e non approfonditi. Ovviamente non sono contrario a certi stilemi (mostrare l’al di là) nel cinema, ma Hereafter sarebbe stato un altro film , magari anche migliore, ma non un film di Clint Eastwood.
Il doppio fallito. Interessante lo sviluppo del doppio nel film che crea tensione e “disturba” la visione aprendo la porta sul bisogno del contatto con l’altro e l’angoscia della perdita. Identificarsi come doppio e scoprire di essere soli ci trascina dentro una delle più angoscianti e drammatiche emozioni: il senso della perdita. E l’uomo , animale sociale ed economico, soffre molto per qualsiasi tipo di perdita, figuriamoci poi per la peggiore di tutte: la morte o l’allontanamento dalla persona amata (padre, madre, marito, moglie, fratello, sorella, ecc.). Ma la ricerca e l’analisi del doppio in Hereafter non arriva alla conclusione, sembra svanire nel nulla ancor prima di giungere alla sequenza della fiera del libro di Londra. Il doppio sono Marcus e Jason, è la loro simbiosi, il loro affetto che li aiuta a sopportare anche una difficile situazione familiare, e la storia di Marcus si dipana nella ricerca di un contatto col fratello perduto; per George invece il doppio è lo sdoppiamento della sua vita, ciò che vorrebbe essere (libero di toccare l’altro senza vedere) e ciò che è (la sua condanna/dono); per Marie il bisogno di proiettare la sua esperienza di sopravvissuta (la donna che era prima e quella che è diventata dopo l’esperienza pre-morte). Ma il doppio non si realizza soltanto mostrando i personaggi, bensì lasciandoli sedimentare sulla pellicola. Così i due ragazzi non hanno il tempo di raccontarci le loro differenze, le loro invidie (in effetti c’è un abbozzo quando in una sequenza si viene a sapere che Marcus non è altrettanto bravo a scuola quanto il suo gemello); il bellissimo rapporto tra George e Melanie poi non va oltre la sequenza nella scuola di cucina, il rapporto viene subito troncato causa la veggenza di George e niente ne esce se non una voluta dimostrazione del fatto che George non possiede un dono ma una dannazione. Sarebbe stato interessante inoltre vedere sviluppata la ricerca di Marie verso una sua nuova identità sorta in occasione della sua esperienza, una Marie cambiata, offuscata, più emotiva, insomma il doppio della vecchia Marie.

(1) Spesso il male di vivere ho incontrato è una poesia di Eugenio Montale della raccolta Ossi di seppia (1925):Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


2 febbraio 2011

My son my son, what have ye done (Werner Herzog, 2009)

L’atmosfera della tragedia greca che si respira nel film è evidenziata dal racconto di Lee, amico di Brad, interrogato dal detective Havenhurst. Per sottolineare il decadimento dell’equilibrio mentale di Brad, il flash back del racconto di Lee, regista di una tragedia in allestimento: l’Elettra di Sofocle(1) (in cui recitano anche Brad e la sua fidanzata Ingrid), mostra la compagnia che sta provando a teatro. Gli attori portano costumi appropriati, presumibilmente quelli indossati dai coreuti, mentre Brad si ostina a recitare la parte di Oreste con il suo poncho peruviano, reliquia del recente viaggio che lo ha trasformato profondamente facendogli credere di essere in contatto diretto con Dio. La follia di Oreste che uccide la madre Clitennestra si compenetra nel plot principale e lo pervade sin nella sua struttura più profonda affiorando come unico aspetto da indagare. I racconti di Ingrid e di Lee, che emergono dall’interrogatorio di Havenhurst, perdono la loro importanza rivelatrice in quanto l’Elettra è un’opera conosciuta ma soprattutto non modificabile. In verità Brad tenta vanamente di apportare modifiche alla storia tagliando battute, indossando vestiti non appropriati (anche se non meno falsi di quelli indossati dal coro e dagli interpreti della tragedia), utilizzando una spada vera (pertanto in quanto arma sinonimo di pericolo e offesa), ma allo stesso tempo falsa o almeno non idonea ai fini del suo utilizzo sul palcoscenico. Questi motivi meriterebbero da soli un ulteriore approfondimento ma qui interessa mettere in evidenza come la verosimiglianza delle storie (il plot di My son my son, what have ye done, la storia dell’Elettra come quella della mitologia – la stirpe che da Tantalo porta a Oreste – raccontata ai suoi attori da Lee nelle vesti di regista, ma anche il racconto dello zio Ted del gallo più alto del piccolo cavallo cavalcato dal nano), sia il prodotto di funzioni codificate nel Mito. Quindi il “gioco” portato avanti da Herzog si esplica nell’alienare il racconto, o meglio, nel mostrare una storia vista da una distanza abissale: la storia non scorre per attirare l’attenzione di un pubblico, ma per avvicinare il pubblico alla rappresentazione in sé. A parte l’importanza del doppio all’interno del film (Oreste-Brad, Clitennestra-Signora McCullum, ma anche Elettra-Ingrid (2), Regista-detective che controllano la “piazza”, pubblico al teatro e pubblico in strada ad osservare l’accerchiamento della polizia, ostaggi-fenicotteri), ciò che mi ha più incuriosito è uno squilibrio evidente nell’interrompere il cerchio delle similitudini (storia di Brad-Elettra) tramite almeno due modi molto diversi ma convergenti di lavorare il materiale filmico.

Disturbi disarmonici del plot
Sono molti e probabilmente non li ho visti tutti, ma sono rimasto colpito dagli ostaggi identificabili nei fenicotteri, che nel plot vengono salvati (ma in realtà non hanno mai corso pericoli) anche se un fenicottero di gomma schiacciato su una corteccia d’albero, in una sorta di fiction nella fiction, viene gettato fuori dal garage come fosse stato giustiziato. Allo stesso modo l’omicidio già avvenuto non interessa come momento topico del film, ma come indice di un utilizzo improprio di un’arma non adatta: la madre infatti confida all’amica il tentativo di omicidio del figlio che ha cercato di soffocarla con un cuscino. Ma la madre deve essere uccisa come personaggio dell’Elettra, così come le amiche dovrebbero tentare di proteggerla con una mazza che Brad cerca loro di consegnare. La mazza da baseball, surrogato di speranza (“…uccidimi prima che succeda…”), diventa componente di un altro sottotesto che potrei definire “sportivo” (il rafting in Perù , il pallone da basket abbandonato sull’albero). C’è poi ad esempio un sottotesto “musicale” (piano, batteria, musicisti messicani, il coro che recita l’Elettra) che interrompe il plot e non solo. Pertanto non stiamo vedendo soltanto un film che fonde una storia conclusa, antica, con un evento in fieri; lo sguardo assiste al tentativo di fare implodere il racconto in una costellazione di informazioni parcellizzate (la realtà è un racconto irraccontabile).

Interruzioni della diegesi

L’immagine di un mondo, come degli eventi che vi si svolgono, non deve essere uno stereotipo da depliant distribuito nelle agenzie turistiche. Pertanto lo spazio (ma in questo caso sarebbe meglio definirlo: gli spazi) non è unitario, regolato, catalogabile. Mostrato nella sua distanza di un paesaggio visto dal basso, in cui un treno attraversa il fotogramma da parte a parte, si parcellizza lungo l’arco della storia in mille rivoli mostrandosi come avamposto di una perdita di identità. Il paesaggio desertico visto da lontano (che mi ricorda il cinema di Antonioni), non prende il sopravvento, non è il corrispettivo, l’equazione data, di un senso già evoluto in “paesaggio rude desertico-anima violenta del mondo”: è solo un paesaggio, un contenitore come altri, così come lo è la bellezza di San Diego osservata dal grande parco con vista sul tapis roulant delle autostrade complete di auto sfreccianti. Anche la natura estrema del Perù, con la sua foresta e i suoi fiumi che si gettano a capofitto tra le rocce nere formando cascate e rapide, non rappresenta un pericolo. In fondo, anche se Brad è tornato trasformato da questo viaggio, Dio appare in cucina nell’icona di un quacchero impressa su una lattina di farina d’avena buttata fuori dal garage come primo ostaggio giustiziato. Brad afferma di avere visto Dio in cucina sin da piccolo, sconfessando quindi l’idea che il Perù e la natura selvaggia possano in qualche modo influenzare l’anima del viaggiatore fino a portarlo a una eventuale redenzione. Lo spazio pertanto s’inscatola in altri spazi e i primi piani di volti cinesi irrompono, ad esempio, come icone della Differenza, ossia dell’alterità, in una sorta di extratemporalità, di un fuori dal tempo che sospende la sensazione di unitarietà, dove unica certezza è il frammento come senso estetico di un mondo già imploso(3); il movimento si confonde, assumendo forme e direzioni improbabili o eventuali (Brad che rimane fermo sulla scala mobile scendendo alla stessa velocità con cui i gradini si muovono verso l’alto); il movimento, lo scorrere degli eventi nel quadro, può anche congelarsi in un frame-stop che definirei plastico, in quanto lo sguardo non scorge un “vero” fermo immagine, ma assiste a una sorta di congelamento dei personaggi che rallentano o si bloccano (ricordando anche la plasticità con cui si muove il coro nella pièce di Sofocle) creando una sorta di tableau vivant, un quadro dipinto e non una fotografia. Questi tableaux vivants (la signora McCullum immobile col dito sul piano; Brad, sua madre e Ingrid a tavola che “bloccano” i movimenti davanti a un piatto disgustoso di gelatina marrone; ma soprattutto l’immagine di Brad, lo zio Ted e il nano immobili nel bosco) comprimono lo spazio congelandolo nell’attimo, trascinano lo spazio all’interno del tempo. Persino i movimenti dei poliziotti sono rallentati, come camminassero su un palcoscenico, e soprattutto le “comparse” (gli agenti che stanno dietro le auto con le armi in pugno puntate verso la villetta di Brad) rimangono come immobili in attesa dell’epilogo del film. Un'inquadratura mostra Brad che osserva l'avvento del tempo o meglio la sua perdita, mostra la prospettiva di uno spazio accucciato in alto, tra le vetrate che l’occhio distratto non potrebbe vedere se non rimanendo sospeso sulla scala mobile per osservare il tunnel dell’aeroporto di Calgary definito da Brad “tunnel del tempo”. La perdita del tempo coincide alla fine con il congelamento del movimento in uno spazio: l’attimo che ne esce è un momento di pittura, è arte, simbolo di un disagio, una sospensione che accompagna la musica extradiegetica di Caetano Veloso. La diegesi viene messa in crisi ma anche disturbata dalla musica che non si evidenzia come diegetica o extradiegetica in quanto Herzog si “diverte” a confondere lo sguardo e pertanto a ingannare anche l’udito cambiando in ogni momento il punto di riferimento. Così quando Brad butta fuori dal garage la radio, la musica si fa diegetica: eppure potrebbe anche non esserlo, perché così distante sembra lo sguardo che inquadra i poliziotti immobili sulla strada con le mani alzate. Il pubblico in sala può essere definito fruitore ultimo che “ode” sempre e comunque, ma quando nella hall del teatro il pianista si alza dal piano che sta suonando, lo spettatore scopre che la musica diegetica (appena viene inquadrato l’uomo seduto al piano), poi extradiegetica (quando il pianista si alza dal piano), ritorna a essere diegetica nel momento in cui il PP dei tasti, che si abbassano e si alzano da soli, sottolinea un particolare che uno sguardo attento avrebbe potuto notare anche nel campo lungo precedente. In apparenza nulla è mutato, anche se lo sguardo ha seguito un percorso del Falso (4), si è inabissato sotto la superficie magica del cinema assaporando il sapore di una rivelazione critica. In realtà la musica non ha percorso un viaggio dal diegetico all’extradiegetico e viceversa, ma è rimasta nel diegetico. O meglio: è rimasta nel plot, ma dal momento in cui lo spettatore è stato ingannato, il percorso diegesi-extradiegesi-diegesi c’è stato. Allora a cosa abbiamo assistito? Forse all’impossibilità di definire un percorso o alla incapacità di comprendere ciò che non può essere “mostrato”?

(1)Non essendo esperto di Teatro Greco do per scontato che la tragedia rappresentata sia l’Elettra di Sofocle, ma, seguendo le prove a teatro, e poiché Lee nomina una tragedia come trilogia, sono propenso a pensare alle Coefore di Eschilo. Dovrei rivedere il film.
(2)Ingrid nella messa in scena interpreta il ruolo di Clitennestra, ma “fuori scena” sembra più una sorella (di Brad) che una fidanzata.



(4)Cfr. Gilles Deleuze, Pourparler

(3)Cfr. Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento