13 marzo 2010

Bastardi senza gloria (Quentin Tarantino, 2009)

Nei film di Tarantino alberga una sorta di indefinibile evanescenza, qualcosa di impalpabile o forse l'idea che il cinema sia diventato ormai la realtà, l’idea di un mondo definito attraverso un concatenamento di immagini che lo sguardo “raccoglie” nel reale, ma anche nei sogni e nei ricordi. Pur essendo d'accordo con la riscrittura storica ritengo che Tarantino abbia trasferito sulla pellicola il desiderio di trasformare il risultato drammatico degli eventi, rivivere e realizzare ciò che ormai non è più possibile. Il cinema cresce in sé e gonfia l'immaginario collettivo: Hitler, il male, rappresentano il continuo riciclaggio di tutte le violenze; e cosa meglio del mitico Far West (quello del cinema) per accogliere gli attori e i luoghi della fine del nazismo? Il nostro desiderio di riuscire a cambiare un evento passato, anche della nostra vita, per ricostruire diversamente nuove strutture, si disintegra nell'impatto di una durezza impenetrabile che è il cinico, asfissiante stato delle cose. Eppure “Bastardi senza gloria” non è solo un rifugio nel sogno e nel divertissement per conoscere e/o analizzare eventi che sarebbero potuti essere diversi , ma è soprattutto il desiderio di influenzare il mondo perché certi episodi non si ripetano. Desiderio di dare forma ad un sogno o meglio all'immagine di un pensiero tout court “assemblante” nel senso che non può fare a meno di dare vita a storie a lieto fine. E probabilmente questa procedura (immaginare nuove "realizzazioni" storiche) è contaminata da batteri che infettano la materia, imprevisti che allentano e tendono a disgregare il logico epilogo di un pensiero; questi batteri non sono altro che motivi romantici ossia aspetti che ritornano nel plot come “bisogni” della messa in scena: il killer (per i romantici una natura matrigna o il fato avverso), il vendicatore (la rabbia dell’io in balia del male), il massacro e il sigillo (la giusta punizione di un Dio che ristabilisca un equilibrio e il marchio indelebile, il graffito inciso sulla carne come volontà di rappresentazione). Eppure questi aspetti si amplificano in quello che per me diviene motivo conduttore del film, motivo che definirei legato ad un'estetica dei tavoli. Le tre sequenze più entusiasmanti, in cui lo sguardo si perde nell'attesa di una improvvisa esplosione di violenza ma che non riesce a superare una quasi naturale confluenza nel grande fiume tarantiniano di un’epopea infinita di richiami e riconoscimenti (di tanto cinema anche minore), le tre sequenze che mi hanno maggiormente incuriosito si sviluppano lungo tavole da pranzo dove i personaggi stanno seduti parlando più lingue, come se la tavola fosse simile a quei “luoghi deputati” delle chiese medievali nei quali si “raccontava” la Sacra Rappresentazione. E in effetti sulla tavola va in onda la volontà di un Dio-Regista che manipola e sconvolge: nell'incipit quando il colonnello Hans Landa parla in inglese, anziché in francese, con LaPadite per non farsi capire dagli ebrei nascosti in cantina; alla tavola di Goebbels quando Landa dialoga con Shosanna lasciando intendere di conoscere la sua vera identità; e infine a Nadine in Francia, nella taverna “La Louisiane”, quando l'attrice Bridget von Hammersmark e il tenente Archie Hicox sono disturbati prima da alcuni soldati intenti a giocare al “Chi sono”e in seguito da un ufficiale delle SS. Tre sequenze lunghissime: circa quindici minuti la prima, undici la seconda mentre la terza dura ben oltre i venti minuti. Qui mi limito a semplici osservazioni su alcuni aspetti scelti a caso tra i tanti che mi hanno stimolato.

a) Tavole. La tavola da pranzo rappresenta forse il luogo più sicuro, dove non ci si aspetta che accada niente di particolare se non un consumo di cibo. La tavola da pranzo è una pausa nel concatenamento di eventi, rappresenta una catalisi, un riempitivo in cui la storia si ferma e in cui l’oggetto (tavola) “racconta” l’ambiente ma anche le condizioni sociali, il carattere e l’umore dei suoi proprietari o almeno di chi si siede poggiando gomiti o mani per consumare o per parlare. Nella prima delle tre sequenze è una tavola misera, semplice, usata da una famiglia povera che vive nella paura perché offre un rifugio ad alcuni ebrei. In questo caso la tavola racconta l’assenza di cibo. Il contadino fa uscire le figlie e dialoga con Landa limitandosi a offrirgli un bicchiere di latte mentre la mdp pare indugiare muovendosi lentamente: campi e controcampi come nel più classico dei film, un primo piano sul bicchiere bevuto d'un sorso da Landa, il volto umiliato di LaPadite che non ha il coraggio di opporsi all'ironia malefica del tedesco e pare che ci dica in ogni attimo: avete visto le mie due figlie, cosa avrei dovuto fare? Minuti che non scorrono quando la mdp scende lentamente sotto le tavole del pavimento per mostrare gli ebrei rifugiati nella cantina; la suspense si prolunga nell’attesa di una catastrofe, fino alle schegge di legno che schizzano dappertutto, mentre i mitra delle SS, bucando il pavimento, bucano anche una speranza. La “seconda” tavola dove Shosanna siede al cospetto di Goebbels, scambiata per la fidanzata dell’eroe nazista Frederick Zoller, è apparecchiata con chicchere di porcellana e bicchieri di cristallo che fanno mostra di sé su una tovaglia bianca; è una tavola apparentemente capace di rasserenare (e in effetti la sequenza non si conclude con una sparatoria), come se il lusso e il bianco fossero automaticamente portatori di pace a differenza della miseria e della materia grezza (il legno non lavorato dei due tavolacci). Eppure questo candore racchiude il più alto grado di orrore dell’intero film, perché siamo appena entrati con Shosanna all’interno degli inferi, rappresentati da un apparente, tranquillizzante senso di normalità. Gli oggetti e le decorazioni dell’ambiente (un locale da pranzo) e i manufatti sulle credenze che denotano gusto del superfluo e pertanto consapevolezza di un ricercato piacere estetico, sono in realtà il biglietto da visita della fucina degli orrori, il luogo in cui si prendono decisioni di morte. La suspense non è qui incentrata nell’attesa di un epilogo da fine sequenza (trattandosi di Tarantino viene da chiedersi cosa farà Landa a Shosanna) ma nella proiezione di un epilogo ancora più drammatico e sanguinario (Perché l’ha risparmiata? Cosa nasconde il folle colonnello?). La suspense non esplode nell’epilogo di una lunga attesa, ma nella sospensione del senso, nell’attesa di un’altra attesa. La “terza” tavola è sempre misera, diventa la tavola di un’osteria dove la birra scorre a fiumi (mentre i bastardi bevono whisky ), in cui un gruppo di soldati delle SS giocano al “Chi sono” bevendo e cantando e coinvolgendo nella loro ilarità il gruppo di “bastardi”. Questa tavola è il luogo deputato in cui gli ostacoli (il gruppo di tedeschi che impedisce il regolare incontro dei nostri eroi) devono essere superati tramite una finzione, in cui ognuno finge di essere chi non è ad esclusione di Bridget che a sua volta finge di essere quello che è (un’attrice) per nascondere ciò che non è (una spia).

b) Bevande. Ogni tavola ha la sua bevanda: il latte (la purezza degli innocenti) bevuto dal colonnello nella capanna del contadino contrasta con la sua stessa ferocia ma anche sottolinea la sua raffinatezza (non è un volgare ubriacone). Questo aspetto viene però contraddetto quando Landa si trova davanti alla tavola dove sono presenti anche i prigionieri appena catturati: il tenente Reine e un suo bastardo. Sopra la tavola che segna come una linea di confine tra i personaggi (dalla parte del potere Landa e dalla parte della sottomissione Reine) sono posati un telefono e un fiasco di vino rosso. Il bianco della ferocia si è trasformato nel rosso della vittima, ciò che presupponeva una promessa di morte è ormai la morte stessa sopraggiunta, la fine di ogni speranza. Il brindisi con il male suggella l'epilogo della storia, la sconfitta e la perdita. Ma questo passaggio dal bianco al rosso avviene dopo aver indagato ogni possibilità di trasformazione alcolica o meno: dal bianco al giallo oro della birra, dal paglierino dello champagne bevuto nel candore della sala da pranzo al nero del caffè bevuto da Landa, al bianco del latte sorseggiato da Shosanna fino al bronzato dello scotch che gli avventori bevono nella locanda. La qualità degli oggetti sale di livello, il grossolano si affina con promesse di ferocia inaudita fino al suo estremo epilogo: il sangue macchia gli oggetti del loro stesso colore.

c) Due sparatorie e mezzo. Tra queste sequenze assistiamo a sparatorie con spargimento di sangue, nazisti uccisi e loro scalpi presi dai bastardi, esplosioni, incendi, torture, strangolamenti. Ogni oggetto può essere portatore di vita ma anche di morte. Le tre sequenze ai tavoli sembrano momenti di pausa, catalisi in cui si formano i motivi per altri episodi di violenza, sono emblema della violenza stessa, il luogo in cui si crea il presupposto che porterà a qualcosa di angosciante. Nella prima e terza sequenza d’altronde le sparatorie avvengono veramente ai tavoli, mentre nella seconda si ha un apparente squilibrio: la sparatoria finale non accade, ma solo perché la sparatoria è la stessa Shosanna, colei che darà il via allo sterminio dell’epilogo, condotto, voluto e sperimentato dall’alter-ego del regista stesso, dalla sua proiezione cinematografica: il colonnello Landa. Shosanna è un’arma appena innescata o almeno lasciata scivolare lentamente nel suo destino (anche nella sequenza della prima tavola Landa rinuncia a sparare mentre la ragazza ebrea fugge tra i campi). È il leitmotiv di una tragedia e quell’incontro nell’antro della “purezza” rappresenta benissimo il vuoto di un potere violento e feroce che nel mondo non è stato fermato prima di avere ormai provocato una tragedia planetaria. Fra trine e broccati, tra chicchere e teiere fumanti, tra oggetti e candore di tanta bellezza formale è sorto il nuovo mostro di Tarantino, ossia rabbia e disperazione per il fatto che nessuno abbia potuto fermare prima un dramma tanto immenso. Sarebbe andato bene anche un feroce e folle colonnello nazista con la sua svastica incisa sulla fronte.