31 dicembre 2010

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

Il recupero del bianco e nero come valore psichico, che regola e conduce il film nelle asperità della vita prebellica di un villaggio della Germania, sembra spezzare i cardini delle sfumature, riducendo l’idea contemporanea del bene e del male (ciò che oggi ci permette di giudicare e valutare altri mondi di altre epoche) a giochi cromatici i cui effetti inondano la visione, mescolati in una sorta di tavolozza colorata (il rosso del sangue, l’azzurro dell’acqua, il verde della pace e della serenità, l’oro della fatica e della sofferenza, ecc.). Le sfumature del bianco e nero, nel film di Haneke, tendono a uniformarsi, a irrigidirsi, trasfigurando la visione e riducendola a mera rappresentazione di una rarefazione culturale; per cui la dottrina, i doveri, l’educazione diventano dogmi indiscutibili e inattaccabili che tendono ad assorbire, lungo la visione del film, i colori immaginati. Sembra che vi sia una progressione direttamente proporzionale tra l'escalation degli eventi (la corda tirata per far cadere il dottore, il campo di cavoli distrutto, il canarino ucciso con le forbici, il piccolo paraplegico) e la perdita del colore, come se, nel prendere coscienza di una realtà sempre più drammatica, dovessimo assistere all’impoverimento di un mondo che non sembra trattenere le sue splendide e algide sfumature. Così come il potere definisce doveri e diritti quali regole a cui non è possibile affrancarsi, per non correre il rischio di essere classificati portatori del male e/o del disordine, tanto le reazioni di chi subisce gli effetti della Legge (non fare chiasso a scuola, non masturbarsi, non raccontare sogni) non sono finalizzate a denunciare lo squilibrio e l’infondatezza di dette regole quanto a “disturbare” e riversare le vessazioni subite anche e soprattutto su soggetti deboli. La dottrina genera mostri ma ha anche bisogno di non ingenerare e alimentare il germe della conoscenza, perché, al fine di proteggere lo status quo, non deve mai essere intaccata dal dubbio. Indagare e approfondire le perplessità del maestro potrebbe innescare una reazione a catena che metterebbe in discussione lo stesso potere. Soltanto le donne sembrano timidamente obiettare e discutere apertamente (entro i limiti della loro condizione sociale) le regole rigide e mirate al benessere dei leader (parroco, barone, dottore, intendente e così via). La donna viene trascinata nei gorghi del bianco e nero e “consumata” come oggetto di appagamento sessuale o ripudiata in quanto non più utilizzabile. La baronessa Marie-Louise esprime bene il suo dolore cercando una fuga verso un improbabile avvento della tavolozza cromatica (il mediterraneo) poiché la prima guerra “ripresa” in bianco e nero (documentari) è giunta alle porte. Lo sfaldarsi pertanto dei toni medi allontana quel mondo perso e annegato nella guerra e nel nazismo. In altri termini nel Nastro bianco la desaturazione è già avvenuta, pertanto la speranza di assistere ad eventi “saturi” (ribellione, violenza, passione, amore) non è possibile. Un mondo già scarnificato, rinchiuso nei suoi pregiudizi e nei suoi dogmi non poteva per Haneke partire o arrivare al colore. D’altronde la guerra mondiale non è mai stata a colori. Vediamo le immagini rovinate dal tempo di vecchi documentari di eserciti e folle che si muovono, che acclamano; vediamo i volti tumefatti dei soldati e quelli dei contadini bruciati dal sole e dalla miseria. Una bimba, guardando quei cinegiornali consumati, volle sapere da suo padre se una volta il mondo era in bianco e nero. Il padre indugiò un attimo; avrebbe voluto spiegarle il progresso della scienza e della tecnologia, dirle che il colore non era rappresentabile e che comunque il colore filmico cambia e si trasforma sempre, ma non potendo dilungarsi in spiegazioni tanto complesse le rispose di sì. Il mondo di Haneke, la sua idea di mondo prebellico, è in bianco e nero perché ogni cosa accade in bianco e nero. Il dottore in questo senso, che vorrebbe mediare tra i piccoli crimini degli orrori, certamente da censurare, imputabili alle giovani leve, e i crimini degli adulti faticosamente coperti da una patina di moralità preconfezionata, fallisce miseramente. La sua sconfitta non è neppure rappresentabile perché conosciamo solo dalla voce off di vecchio la storia di reduce mai ritornato (a guerra finita) al villaggio, che nei suoi ricordi rimarrà per sempre privo di colori. Ma ciò viene solo detto, mentre, per quanto concerne l'immagine, persino il maestro è costretto a rimanere congelato in quel mondo freddo e irrimediabilmente perduto, assorbito anch'egli da un'implacabile e disperante assenza. L'assenza è uno dei motivi portanti del film: assenza di un colpevole, assenza di un'indagine, assenza di un confronto e persino di un antagonista. E se è possibile rintracciare una performance del soggetto nel modello attanziale del film, posto il Soggetto nella figura del Maestro (Narratore omodiegetico), non è da rintracciare in una improbabile indagine (performance) atta a scoprire e denunciare i responsabili dei crimini (Oggetto), ma nella “capacità” di accettare la deriva di un mondo sfaldato e dei suoi falsi miti di legge, dovere, obbedienza (Oppositore). Haneke è riuscito ad evidenziare la debolezza della ricerca di una probabile verità che non riguarda gli atti “criminali” perpetrati dai ragazzi, ma si inserisce negli interstizi di dogmi tanto inutili quanto efficaci nel garantire l’ignominia del potere. L’Oppositore è assente in quanto presente in ogni luogo e tempo, eterno e indistruttibile, conservato nelle “ragioni” di una classe dirigente che serve solo se stessa. Nell'assenza cromatica non c'è spazio neppure per modelli narrativi sperimentati: un qualsiasi nemico da odiare e che sprigioni in noi tutta l'adrenalina possibile. La disperazione è l'orrore più grande, perché non riesce neppure a scuotere la carne, a far vibrare i nervi. Nell'attesa di una guerra che pare lontana, descritta da una distanza ancora più abissale nell'epilogo, mentre il paese si raduna in chiesa per sentire un'altra omelia, si consuma la tragedia di un mondo morto che aveva già generato i propri mostri. Un preludio drammatico e sconfortante, la descrizione puntuale e asettica di come un’infanzia, plasmata nei ritmi e nei “decori” di una pulizia (estetica e morale) che tutto giustifica e “gratifica” (una pulizia che si limita però a nascondere la sporcizia non a mostrarla al fine di esorcizzarla), non sia altro che l’intelaiatura dell’abominio prossimo venturo di un regime, quello nazista, proiettato sin nei suoi prodromi a un ben altri modi di intendere un’estetica di pulizia (o meglio, di una politica di pulizia) realizzatasi pochi anni dopo negli alti forni di campi di sterminio tristemente famosi come Dachau e Auschwitz.


Pubblicato su Rapporto Confidenziale

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Film a dir poco raggelante. Interessantissimo il discorso sul bianco e nero e soprattutto quello sull'assenza.

Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Hai sintetizzato benissimo il senso del film in un'unica parola: raggelante. Purtroppo non ho trovato il tempo per ampliare il discorso sull' assenza che ho delineato a grosse linee. A presto.

Ismaele ha detto...

un film che non mi ha convinto.
a differenza di "niente da nascondere", che coinvolge lo spettatore, e a me è piaciuto molto, questo mi sembra, per i miei gusti, poco coinvolgente, certo alcune cose interessanti (il b/n di cui parli, per esempio), ma mi è sembrato troppo freddo.
si può essere freddi e coinvolgenti, qui mi sembra che Haneke sia troppo autoreferenziale, certo, fai un film per te, ma, visto che passa nei cinema, pensa anche a noi spettatori.

Cotone ha detto...

Aspettavo da tempo questa recensione.
Lavoro -a mio giudizio- strepitoso, con una ricerca pazzesca, certosina delle fonti. Ho letto che Haneke ha passato ore ed ore su immagini d'archivio, vecchie fotografie, resoconti scolastici, popolari feste campagnole, per ricercare delle tracce visive che avessero il fascino del vecchio, la fisionomia un po' appassita di una foto in bianco e nero. Forse è per questo che i volti dei bambini ci sembrano così autentici, così credibili.
Freddezza, distanza, "assenza di un centro": sono i risultati (assoluti) del film, dire che sono i suoi limiti è pura follia.
Perlomeno, questa l'idea che mi sono fatta io dopo aver visto con attenzione il film.

Luciano ha detto...

@Ismaele. Rendere il senso di un’angoscia, il terrore di una sensazione è chiedersi chi erano gli aguzzini che hanno inflitto infinite pene a ebrei e dissidenti (ad esempio nei campi di concentramento) e scoprire che sono stati anch’essi bambini condizionati dall’obbligo di rispettare certe “leggi” che non amavano e che avrebbero voluto trasgredire, “leggi” che hanno distorto il loro sviluppo “naturale”. Potremmo essere davanti a una distopia al rovescio (previsione ma anche ricerca dei prodromi “negativi” di “effetti” che oggi conosciamo benissimo – olocausto). Forse quei “mostri” sono stati educati in una cultura asettica e piena di sé. Il film, devo ammettere, mi ha angosciato e ho sentito il suo tocco gelido sulla mia anima. Questo mi ha scosso e anche emozionato. Ovviamente le emozioni provate non possono essere identiche per tutti. Grazie per il tuo interessante intervento e scusami per il ritardo della risposta.

Luciano ha detto...

@Cotone. Non sapevo della ricerca storica di Haneke e questo mi convince dell’impegno profuso e del voler capire e addentrasi nelle pieghe della vita quotidiana di inizio secolo allo scopo di “spiegare” (o almeno provarci) queste stesse pieghe di un mondo chiuso in se stesso. Haneke ci ha restituito una notevole ricerca di conoscenza. Un film che spero di rivedere almeno un’altra volta. Grazie per le preziosissime informazioni.

Anonimo ha detto...

E' forse vero che è un po' il solito Haneke, però la sua rilettura dell'origine della violenza, senza trarne una soluzione, è decisamente affilata e precisa. Un mondo così ordinato, cadenzato da riti e gerarchie che guidano una umanità banalmente dedita alla sopraffazione e testimonia un periodo preciso di quella germania, ma svela molto delle dinamiche individuali e di gruppo. Perchè se in ogni casa, in ogni famiglia c'è una meccanismo di potere e di violenza, i bambini si muovono in gruppo, sono una massa silenziosa, la loro forza è anche nell'essere insieme, nell'essere molti, nel condividere quello schema che ripetono sui deboli, dividono la colpa, perdono la responsabilità, perdono l'imputabilità.
Il villaggio non si scuote mai dal suo torpore ordinato, come se riuscisse ad assorbire tutto, a tacitare ogni cosa, impermiabile.
E Haneke non ci fa mancare nulla, espone ogni forma di potere sui più deboli, da quelle derivanti dalla struttura sociale a quelle derivanti dalle istituzioni religiose e dalla famiglia patriarcale nel rispetto del decoro e dell'occultamento nel privato, senza che nessuno si renda poi conto come quella stessa violenza esploda poi fuori incrociando i destini di tutti. Chi metterà in atto la violenza al di fuori delle mura domestiche lo fa per reazione e replicazione ingigantendola in grande scala.
Curiosa la visione del meridione dell'europa, segnatamente l'italia, posto tratteggiato come aperto, tollerante, capace di rompere il meccanismo di refrattaria subalternità alle regole
A proposito di Dio: Martin mette alla prova Dio e ne riceve un silenzio, si apre l'ambito della sua libertà, e di quella degli uomini in generale direi, ma nel suo mondo, in cui la regola dominante è la punizione a seguito di un errore, questo diviene quasi uno spunto per la giustificazione dei suoi atti. Non è l'assenza di dio, o il suo silenzio, la radice del nichilismo (come dice il papato odierno), ma proprio il sistema gerarchico-punitivo in cui l'istituzione religiosa si costruisce

Luciano ha detto...

@Anonimo. Le tue osservazioni sono molto interessanti e in particolare m'incuriosisce l'ultima parte del tuo ragionamento, ossia il fatto che la radice del nichilismo sia effetto del sistema gerarchico-punitivo. Questo film in effetti si presta a molte letture ed è una fucina di idee e di riflessioni. E questo testimonia a favore di Haneke.

cinemaleo ha detto...

Un film inquietante che pone tanti interrogativi sull’essere umano, sulla sua natura che -sembra dirci il regista- è portata al male assoluto. Un film scomodo, un grande film.

Luciano ha detto...

@Cinemaleo. Miglior definizione non potevi trovare: un film scomodo. E senz'altro un grande film, di quelli che meritano di essere visti più volte.