31 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 3/3: Solo citazioni? Due esempi.

Il cinema contemporaneo di qualità ci ha insegnato a giocare con il passato utilizzando filmico e profilmico come pezzi di "reale" di pari dignità. Intendo dire che oggi il cinema, oltre a mettere in opera uno sguardo ontologico sul mondo che ci avvolge, recupera inquadrature e sequenze di grandi film del passato che sono ormai entrate a far parte dell'immaginario collettivo. Da qui ne deriva l'aspetto ludico ossia la tendenza a giocare con l'arte del passato cercando di riproporla in un diverso contesto spazio-temporale. Questi riferimenti a sequenze di vecchi film arricchiscono il testo di significati ulteriori trascinando nel plot anche i propri significati originari e influenzando il "gioco" in atto. Lo spettatore, oltre a divertirsi nel cercare di "indovinare" il contesto originale storico, riesce più o meno consapevolmente a intuire l'esplosione esponenziale di nuovi significati e pertanto il senso globale dell'opera si allarga allo spazio circostante occupando nuovi territori: prende campo l'idea che cercare di definire e "incasellare" il messaggio dell'artista (ciò che vuole dire) sia un'operazione riduttiva. Chi gioca tende anche a trascinare nel game il proprio vissuto, ma soprattutto tende a deformarlo per adattarlo ad una personale visione del mondo. Questi aspetti positivi e interessanti, che meriterebbero un'analisi più approfondita della presente lettura, incontrano però dei limiti. Aumentando i livelli di esposizione al gioco (citazioni e immagini di mondo che si aprono su altre citazioni e immagini) si corrono dei rischi. Il gioco resta stimolante fin quando il giocatore riesce a mantenere ferma la sua attenzione: il sogno lucido e condiviso ha valore solo se la volontà rimane focalizzata e vigile. L'interprete-spettatore corre il rischio, evidenziato da Nolan, di confondersi e di non essere più in grado di operare distinzioni. Il mancato riconoscimento dei vari livelli di realtà equivale a trasferire nuclei semantici da un livello all'altro che potrebbero danneggiare la capacità critica e analitica. Rimanere sempre desti non significa rinunciare al gioco e al sogno proprio perché gioco e sogno rimangono due aspetti fondamentali della vita interiore, carburante utile per affrontare in condizioni ottimali lo “scontro” con i pezzi di una realtà quotidiana che risulta sempre più parcellizzata, caotica, e priva di senso. L'arte deve anche essere gioco, deve decostruire per rimontare ma deve anche evidenziare la falsità dei dogmi e i dubbi che dobbiamo tenere presenti di fronte alle invadenti ricostruzioni e interpretazioni monolitiche degli eventi propinateci dai media controllati dal potere. Con questo non voglio prendere in considerazione un discorso politico sulla società, ma evidenziare come l'arte abbia sempre portato avanti una visione alternativa o differenziata da quella del potere. Questo discorso rimane impreciso perché qui mi interessa focalizzare l'attenzione su altri aspetti. Ma lasciarsi andare credendo al mondo che ci viene mostrato può essere anche una cura peggiore del male. Credere che non esistano alternative al mondo dell'artista è un po' come rimanere schiavi della roulette di un casinò: giochiamo e perdiamo e ogni volta raddoppiamo la posta per recuperare tutti i soldi persi e se per caso dovessimo vincere punteremmo ancora l’intera posta per guadagnare sempre di più ottenendo soltanto una definitiva sconfitta. Questo gioco ci trascina in un incubo senza uscita: ci giochiamo lo stipendio, i gioielli di famiglia, i mobili, la nostra stessa vita. Alcune citazioni di Inception sono particolari perché non badano solo a intrattenere e stupire in quanto contengono come dei “filamenti” critici, dei modelli conoscitivi che tendono a superare l'abisso labirintico del mondo Escheriano in cui rischiamo o abbiamo rischiato di rimanere invischiati nel credere troppo in questo nuovo tipo di immagini seriali, risultato di un cocktail che comprende frammenti di storie e di sogni. Il pericolo di rimanere incastrati in questi mondi fantastici può essere superato con un semplice oggetto (una trottola o qualcos'altro) per ricordarci sempre del nostro corpo addormentato sulla sedia di un cinema che è magari situato in un quartiere dove hanno sfrattato famiglie non abbienti. Due citazioni in particolare mi hanno colpito emotivamente, ma senz'altro ve ne sono altre molto più interessanti.

1) Il ralenti delle esplosioni degli oggetti di Zabriskie Point.



Il ralenti delle esplosioni nell’epilogo di Zabriskie Point, al suono di Careful with That Axe, Eugene dei Pink Floyd, conclude e sottolinea una tragedia compiuta. Gli oggetti della vita quotidiana, ormai divenuti status symbol, indici di ricchezza e manufatti che catturano l’ambizione e il desiderio degli uomini, determinando le differenze tra le classi sociali e le razze, “devono” essere distrutti, annichiliti in una caleidoscopica sequenza di scatenato luddismo. Come ho scritto in uno dei primi post di questo blog, riferendomi a Zabriskie Point: “ il fallout di scatolette, auto, elettrodomestici ridotti in pezzi, obbliga lo sguardo a sostare sull'immagine, a contemplare i colori e le reliquie di un'epoca senza futuro. Ogni pezzo di reale che cola giù dallo schermo è un pezzo non ricostruibile, non assemblabile. La realtà si dissolve nell'immagine stessa ed è irrecuperabile” (1). Il ralenti di Antonioni è un “pensiero” che deve suscitare in noi una riflessione critica o per lo meno una preoccupazione per un mondo che sta perdendo la sua densità. Gli oggetti che esplodono devono essere osservati al ralenti perché solo in questo modo è possibile accelerare e accostare la loro disgregazione fisica alla disgregazione morale di un mondo esploso in mille pezzi: oggetti non intesi come manufatti prestigiosi, ma assimilabili al ciarpame da discarica, lo stesso ciarpame che infesta ogni attività dell’uomo contemporaneo. La coeva arte concettuale analizza questi aspetti cercando di uscire dalla dittatura dell’oggetto (materiali, tele, bronzi, crete) per rifiutare un mercato (aste, quotazioni, investimenti) che riesce ad annichilire la vera fonte dell’arte: l’idea e la riflessione che annullano il manufatto. E il nostro pensiero alla fine coincide con quello di Daria che se ne va con l’auto dopo aver guardato la villa ancora intatta: nulla è accaduto se non nella sua mente. In Inception non c’è tutto questo. L’utilizzo del ralenti, che evidenzia le esplosioni di oggetti e palazzi della via parigina, non è finalizzato alla conoscenza degli oggetti e del loro mancato riconoscimento, ma è orientato a mostrare la spettacolarità di un sogno lucido, teso a stupire lo sguardo che scorre da una visione “naturalistica” (la gente seduta ai tavolini dei caffè) a una visione “stupefacente” (il mondo che esplode senza che nessun passante rimanga coinvolto nella tragedia). Proprio perché gli esseri viventi non ne sono coinvolti, la spettacolarità si attenua, l’uomo rimane escluso dal disastro, non soccombe, è come se vivesse in un’altra dimensione e avesse ancora la possibilità di recuperare la sua umanità. Altrimenti vi sarebbe stata spettacolarizzazione dell'evento nel mostrare l’esplosione e la disintegrazione della carne. Il “filamento” è in questo caso il tentativo di evidenziare anche una violenza che può colpire all’improvviso in ogni luogo e chiunque (terrorismo, rapine, bombardamenti). L’oggetto non è aggredito, non viene messo a nudo e non c’è neppure il tentativo di raccontare la debolezza dell’uomo, ma c’è un incipit, c’è il desiderio di affrontare la surmodernità con determinazione, per non subirla o almeno per tentare di conoscerla senza subirla.



2) Il sottopasso pedonale del ponte Bir-Hakeim di Ultimo tango a Parigi.



Nel film di Bertolucci la sequenza viene mostrata nell’incipit quando ancora Jeanne e Paul sono due sconosciuti al momento ignari che si incontreranno nello stesso appartamento messo in affitto. Entrambi cercano un luogo “nuovo”, un ambiente dove abbandonare la loro vita precedente, ma Paul è lontano, assorto nei propri pensieri, poi sapremo, per la perdita della moglie; sta camminando sulla strada pedonale del ponte Bir-Hakeim. È talmente rapito dalla sua disperazione da non vedere neppure una ragazza che gli passa accanto. La plongé mostra Paul sulla sinistra dell’inquadratura mentre sulla destra è posta la più vicina, rispetto al nostro punto di vista, delle colonne in ferro che sorreggono la sopraelevata di Birk-Hakeim, le stesse insomma che vediamo in Inception. La mdp si avvicina dall’alto fino a mostrarci il capo piegato all’indietro (e che lascia così intravedere parte del volto) di Paul. Le mani portate agli orecchi per non sentire il frastuono del treno che sta passando poco più sopra e l’immediato urlo di Paul sono indizi di una disperazione in atto sottolineata da uno splendido PP di Paul sempre intento a tapparsi le orecchie mentre sta abbassando il capo. Svanito il frastuono comincia a camminare lentamente sulla passeggiata pedonale. L’immagine mostra Paul ripreso in PP e il fuori fuoco delle colonne del Bir-Hakein, nonché, a distanza, la figura intera di una donna, ancora immersa nello sfuocato, che si sta avvicinando. Quindi un campo lungo del ponte e poi Paul che è stato raggiunto dalla donna: lui sembra stia per piangere, lei si tiene il cappello con la mano destra; passandogli accanto, si volta lentamente per guardarlo; poi riprende a guardare in avanti fino ad avvicinarsi alla mdp: si tratta di Jeanne, una giovane donna apparentemente tranquilla. Adesso la situazione si è rovesciata: Jeanne è ripresa sulla sinistra in PP mentre Paul rimane indietro allontanandosi nel fuori fuoco del campo lungo posto sulla destra dell’immagine. Questa breve sequenza di un solo minuto, completamente senza dialoghi, è piena di segni che inducono lo spettatore a riflettere: l’uomo ha un problema grave, è talmente disturbato da non sopportare il rumore del treno che scorre in alto sui binari, talmente fuori “fuoco” da non vedere una bella ragazza che si volta per guardarlo. È un uomo di mezza età che vuole solo poter morire. Mentre Jeanne, la sua apparente fioritura, è ancora sfumata, distante. Per il momento il nostro sguardo non riesce quasi a scorgerla nell’indistinta passeggiata pedonale, nella selva dei piloni che sorreggono la sopraelevata. Paul è sulla sinistra finché non viene affiancato dalla donna. Adesso è Jeanne a entrare nella zona nitida dell’immagine mentre Paul rimane indietro, scomparendo quasi nell’indistinguibile selva delle colonne in ferro. Pare trasandato nel vestire, o meglio è ben vestito, ma i suoi abiti sono anch’essi fuori sintonia, indossati male; nel complesso rendono l’idea di uomo perduto. Lei al contrario pare sofisticata, si tiene un cappello con la mano per timore di vederselo portare via dal vento; indossa vestiti raffinati, forse appartengono a una donna di buona famiglia borghese, che non può avere niente in comune con l’uomo. Eppure… eppure si volta, lo ha visto; quell’uomo deve sembrarle così strano. La passeggiata dell'incipit è la metafora del film: nella prima parte Paul conduce il gioco, comanda la donna con la “violenza” della sua disperazione, trascinandola all'interno di un rapporto amoroso al di là di ogni limite; in seguito Jeanne lo raggiunge, lo supera, accetta di “subire” per poi imporre il suo stile. La sequenza (bellissima) è una anticipazione sintetica del loro rapporto che sta per nascere, un rapporto d’amore e morte, disperazione e deformazione del senso, come nei quadri di Bacon su cui scorrono i titoli di testa. Ogni aspetto della sequenza presuppone lo sguardo attento e vigile dello spettatore, il suo senso critico, la sua capacità di rimanere desto al fine di comporre il quadro. In Inception non è così; innanzi tutto vi sono dei dialoghi, soprattutto le domande di Cobb e la sua preoccupazione per il fatto che Ariadne abbia ricostruito un pezzo di realtà all’interno di un sogno; poi vi sono alcuni passanti, proiezioni convergenti del subconscio, che possono diventare pericolosi, ostacoli imprevedibili che distraggono lo sguardo, lo deviano su altre rotte al fine di catturare i sensi dello spettatore; infine sopraggiunge Mal, si materializza per uccidere Ariadne che si sveglia di soprassalto. La passeggiata sul passaggio pedonale non è la medesima e lo spettatore può permettersi molte distrazioni. Abbiamo già avuto modo di vedere Mal che in questa sequenza appare anche nel ricordo di Cobb; infatti mentre lui cammina dietro ad Ariadne, sulla passerella pedonale del ponte Bir-Hakeim, rivede se stesso abbracciato a Mal: sono entrambi appoggiati a una balaustra con vista sulla Senna proprio ai lati dello stesso sottopassaggio pedonale del Ponte Bir-Hakeim. Un ricordo all’interno di un sogno. In Ultimo tango a Parigi non siamo ancora stati informati dei motivi della sofferenza di Paul , non conosciamo le implicazioni e neppure Bertolucci è tentato di mostrare il ricordo di un tempo passato tra Paul e sua moglie, perché vi sono già troppi dati sulla scena, tutto è lasciato al montaggio e all’espressività degli attori: Paul e Jeanne non si conoscono e non dialogano, tutto deve essere estrapolato dallo sguardo vigile, critico. In Inception lo sguardo deve essere accalappiato, deformato, trascinato nel gorgo senza fondo. Cobb dapprima si trova dietro Ariadne e poi la supera, ma non basta, l’equilibrio viene spesso rotto dai rispettivi controcampi (prima Ariadne davanti a Cobb, rimasto indietro, inquadrati con carrellata a precedere, poi ripresi dal dietro con carrellata a seguire e di conseguenza Cobb “davanti”, più vicino alla mdp, e Ariadne “dietro”). La sequenza è frastagliata, piena di indizi che non sono veri indizi, perché non rimandano a una storia o a un “qualcosa” che accadrà, non informano ma affermano. Questa sequenza potrebbe vivere di vita propria, essere una sorta di cortometraggio in cui un uomo segue una donna e questa donna poi viene uccisa dalla moglie gelosa dell’uomo credendoli amanti. Paul e Cobb hanno perso entrambi la moglie ma mentre Paul esprime la sua disperazione nel mondo, Cobb l’ha apparentemente codificata in un labirinto mentale: il labirinto di Paul è nel fuori, all’esterno, lascia indizi per ricostruire gli eventi, educa lo spettatore a raccogliere la sfida. Nel contempo la disperazione di Cobb è interiorizzata, abbandonata nello stupore tutto postmoderno che deve soprattutto catturare l’attenzione. Nel primo caso vi sono i segni per sperimentare un’emozione, nel secondo l’emozione è fine a se stessa, ingigantisce per trascinarci nel carosello. Ma ritengo però che in Inception vi siano anche dei “filamenti” che escono dal manierismo per (o tentare di) stabilire un altro status della visione: quei “filamenti” sono i piloni che definiscono una location e soprattutto la vita che pullula nella prima parte della sequenza (prima della rottura dello specchio le vie erano deserte), i passanti che restituiscono il senso di un’apparente, eppure ricostruibile, “normalità”. In altri termini vi sono indizi che permettono di capire il rapporto tra i due “amici”. Anche il rapporto è a tre come in Ultimo tango e c’è una moglie defunta ma mentre nel film di Bertolucci il senso del film è raccolto e si incarna nei movimenti, nei vestiti e nelle espressioni dei protagonisti (non nel dialogo, non nel pensiero – focalizzazione esterna) in Inception ci è data la possibilità di controllare tutto (focalizzazione zero) di prevedere tutto senza alcuno sforzo; eppure qualcosa di impalpabile sfugge, qualcosa di vago, di indefinibile: nel mondo sur-moderno oltre alla liquefazione dei rapporti ci sono appigli per resistere, per ricostruire un evento ancora da conoscere basandosi su semplici dati: Ariadne sta a Cobb come Jeanne sta a Paul ma ad un livello diverso, più morbido insomma, più delicato, più abbozzato. Questa passeggiata è allo stesso tempo onirica, coinvolgente, finalizzata a trascinare dentro il Luna Park, ma allo stesso tempo cerca espellere lo spettatore dal gioco, rimettendo tutto in discussione. In altri termini: è solo una coppia che sta litigando? E’ solo un uomo che corre dietro a una donna? È intollerabile vedere il primo piano di una donna apparentemente indifferente e soddisfatta seguita da un uomo che sembra preoccupato per lei. Estrapolando questo brevissimo spezzone di sequenza (circa quaranta secondi, anche meno se si escludono i due flash di Cobb che si vede insieme alla moglie Mal nello stesso luogo) potremmo quasi trovarci in un film della Nouvelle Vague fino almeno al momento in cui i passanti circondano Cobb e Ariadne. La spinta centrifuga che cerca di espellere lo sguardo è molto forte, non densa, ma decisa, un accenno che tracima e indica un evento da venire.


1) Mi si scusi per l’autocitazione, ma tenevo a specificare che queste parole sono state riprese pari pari da una delle mie prime recensioni postate su questo blog riguardante Zabriskie Point e che risale ormai al luglio del 2007.

20 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 2/3: Effetti di reale "onirici".

Premessa

L'automatizzazione del vedere quotidiano ha reso gli oggetti, gli avvenimenti, i paesaggi, forme imprecise della vista, apparati non analizzati ma a mala pena "sentiti", riconosciuti. "Dal processo di algebrizzazione, automatizzazione dell'oggetto, risulta una più ampia economia delle sue forze percettive: gli oggetti o si danno per un solo loro tratto, per es.: per il numero; oppure si realizzano come in base ad una formula, anche senza apparire nella coscienza" (1). La percezione prosaica della vita quotidiana, la routine, riduce gli oggetti (e spesso anche le persone) a mero rumore di fondo della nostra esperienza, i quali svaniscono nel nostro fuori campo senza che nemmeno ce ne accorgiamo. "Così la vita scompare trasformandosi in nulla. L'automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra" (2). Per Šklovskij lo scopo dell'arte è di trasmettere una impressione dell'oggetto come «visione» e non come «riconoscimento» e pertanto "[...] procedimento dell'arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione dal momento che il processo percettivo, nell'arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato [...]" (3). Il suo discorso è riferito all'arte in generale, ma ritengo che sia interessante per introdurre una premessa che ritengo importante: bisogna tracciare una netta linea di distinzione tra la realtà del sogno con le sue immagini più o meno evanescenti (ma questo potrebbe valere anche con la nostra percezione della realtà per cui la nostra mente estrae dal reale ciò che può, durante l'attimo, servire più o meno all'economia della propria vita quotidiana) e il procedimento di costruzione di un film che necessita di dati certi e concreti. E quando il cinema si interessa del mondo onirico non fa altro che focalizzare l'attenzione sulla peculiarità della visione, utilizzando una precipua grammatica filmica (messa in scena, ripresa, montaggio, suono) riconducibile al mondo onirico: sbalzi improvvisi dell’illuminazione, effetti speciali, movimenti rallentati o velocizzati, assenza di gravità, effetto flou, ecc., nonché movimenti di macchina e stili recitativi che evidenzino l'eccezionalità dell'evento. Il sogno, come spesso i flash-back, può essere in bianco e nero oppure reso con la correzione del colore in fase di post-produzione e con filtri (es.: un filtro flou) o ricostruendo con la computer grafica mondi onirici sui generis. Ma in ogni caso una sequenza onirica nel cinema, a prescindere dall'obiettivo che si prefigge (stimolare la percezione o stupire o spaventare) è sempre una sequenza da trattare e analizzare come qualsiasi altra sequenza. Credo che non esista niente di più postmoderno del mondo onirico, nel senso che quando sogniamo non siamo in grado di ricostruire eventi, organizzare percezioni, gestire mappe della realtà spesso utilizzate persino nella PNL aziendale (4): le storie si affastellano l'una sull'altra, si neutralizzano, si moltiplicano; il paesaggio varia in continuazione davanti ai nostri occhi; ci troviamo alla guida di un'auto eppure siamo a piedi; in un attimo una ragazza si trasforma in donna; i dialoghi sono stranamente frantumati, partono dal nulla e finiscono nel nulla... del risveglio. Può capitare che un oggetto o più oggetti prendano forma, si fissino sulla retina in tutta la loro perfezione; può capitare che questi oggetti risultino manufatti talmente perfetti da mettere in evidenza la loro efficacia pittorica. Tempo fa mi capitò di sognare di entrare in un bellissimo bagno pubblico: sulla destra una finestra luminosa sovrastava un mobile pieno di oggetti che non riuscii a identificare, perché nel sogno sentivo il bisogno di "utilizzare" il bagno e pertanto stavo cercando il w.c., situato sulla parte opposta: si trattava un normale vaso sanitario di ceramica bianca, molto pulito, lucido, con il sedile alzato. Per un attimo percepii il piacere di potermi liberare fin quando sul fondo del vaso apparve uno straccio di cotone per pavimenti. E a questo punto mi resi conto dell’abbagliante bellezza di questo umile oggetto: riuscii a vedere la trama delle cuciture, con i preponderanti fili bianchi intrecciati a quelli verdi e rossi, ma la nitidezza dei particolari era incredibilmente separata e allo stesso tempo unificata alla maestosità dell'insieme. Non mi trovavo davanti a un oggetto umile e dozzinale, ma davanti ad un'opera d'arte. In pratica mi domando: possibile che un sogno evanescente e vago, senza storia e senza "riconoscimenti" sia stato in grado di restituirmi una visione artistica? Giuro che durante la veglia non mi sono mai soffermato a osservare uno straccio. Ma cosa c'entra tutto questo con il film di Nolan?

Oltre una visione ludica.

Il mondo di Nolan , il suo sogno multiversale che ci trascina nei livelli via via più profondi di un videogame con vite perse ma "sempre" recuperabili, mantiene desta la percezione narrativa e un certo grado di trasparenza; e in quanto movie-action intende anche trascinare nel limbo post-moderno un pubblico che scelga di lasciarsi trasportare dall'avventura mimetica in atto, sapendo di essere in un sogno alla terza potenza (ad ogni livello il tempo si dilata), ma sapendo anche di "vivere" un'emozione "sensibile". In questo, e per questo, Inception è uno dei tanti film post-moderni (anche se ormai sull'evoluzione attuale di questo termine ci sarebbe molto da discutere, ma questa è un'altra storia), perché lo sguardo sul film è soprattutto ludico (5) in quanto il senso estetico domina sul senso critico, e perché "[...] governato dal piacere della ri-creazione, che significa unione di gioco e citazione, di divertimento e deja-vu [...]" (6). Eppure in un film che pone il "sogno" in primo piano trascinandoci in un modo "irreale", chiedendoci allo stesso tempo di immaginarlo reale col sospendere il senso critico e/o etico, vi sono aspetti e stilemi che recuperano un modo di sentire più critico o, a seconda del punto di vista, superano l'impasse di un atteggiamento conoscitivo sospeso nel gioco e nel puro divertissement. Ed è curioso che Nolan abbia scelto (ma questi aspetti di superamento sono presenti anche in Memento, in The Prestige e nel Cavaliere Oscuro) (7) una sceneggiatura (ma teniamo conto che pensava a questo da molti anni) che predilige il mondo onirico e con esso il mondo della visione sensibile e, se il sogno diventa lucido, ludica.
Vediamo ad esempio la sequenza in cui Cobb insegna ad Ariadne a costruire l'intelaiatura dei sogni mentre si trovano in quella che sembra una via parigina seduti al tavolino di un bar. Consideriamo che Ariadne sta sognando senza rendersene conto e lo crede finché Cobb non le rivela la verità, trascinandola pertanto in un sogno lucido. Per renderla consapevole di vivere in un mondo onirico, le mostra l’esplosione “al rallentatore” di strade, oggetti e palazzi nello stesso istante in cui rimangono tranquillamente seduti senza subire danni, perché non si trovano nel mondo reale. In seguito Ariadne, camminando per le vie parigine, piega parte della città sovrapponendola alla parte che sta in basso; adesso sopra i tetti dei palazzi pullula la vita di un'altra città, una sorta di riflesso della Parigi onirica vista allo specchio. Ma nella rappresentazione onirica si tratta semplicemente del fatto che Ariadne ha piegato in due la città come si piega un lenzuolo su sé stesso. In questo spazio piegato la luce (ricordiamo che siamo in un sogno) non si attenua nonostante la "scomparsa" del cielo azzurro e inoltre è possibile varcare il confine ritrovandosi nella parte "superiore" della città stessa. In seguito Ariadne (adesso il cielo è "libero") tira a sé due porte a specchio che, dopo essere state aperte l'una di fronte all'altra, creano in tal modo un classico effetto Droste; infine solo dopo che Ariadne ha rotto gli specchi, ci accorgiamo di essere "entrati" in un paesaggio "reale", ossia nella passeggiata sotto la sopraelevata della metropolitana sul ponte Bir-Hakeim. In effetti in un primo momento durante la visione domina un senso di stupore e meraviglia nel rispetto di un reflusso manierista ormai tipico del cinema contemporaneo: città che si capovolge, paesaggi che si trasformano sotto i nostri occhi; ma è anche vero che il cinema post-moderno ci ha abituati a vedere simili trasformazioni, e non credo che "certe" sequenze costruite con la computer grafica (o anche con modellini in studio) possano da sole influenzare il gradimento di un pubblico abituato a un certo tipo di cinema. Piuttosto alcuni aspetti della sequenza tendono a dominare sull’idea di essere in un mondo onirico: in particolare la vita parigina dei bistrot e dei caffè, i suoi tetti caratteristici, la passeggiata (il meraviglioso che si trasforma nel reale) di Bir-Hakeim. I movimenti di macchina inoltre sono sufficientemente moderati nel senso che dominano campi e controcampi (Ariadne e Cobb seduti al bar) e brevi carrellate a seguire e a precedere (quando camminano per le strade di Parigi). Quindi, nonostante l'ambientazione onirica, i modi e i risultati delle riprese sono prettamente (diciamo per adesso) post-classicistiche. Non vi sono riprese da angolature particolari o riprese di macchina che portano lo sguardo in volo per le strade o cambi improvvisi e violenti di primi piani alternati a campi lunghissimi. Lo sguardo non accelera velocemente, dopo aver individuato i nostri eroi, da un campo lunghissimo "volando" velocissimo fin a mostrarci magari una lacrima in primissimo piano che esce da un occhio. Le riprese sono logiche nel senso che rispettano le leggi della “fisica” di un cinema più classico. Ovviamente questo non è sufficiente per definire Inception un film non post-moderno, perché gli stilemi di detto cinema ci sono tutti (e come sarebbe possibile oggi fare un passo indietro?), ma è anche curioso notare come il cinema di Nolan e in particolare Inception esprima una visione così legata all'effetto di reale, nel senso che lo straniamento slovskiano viene ottenuto non attraverso un modo di riprendere virtuosistico, ma tramite un'attenta ricostruzione del mondo "reale", con le sue strade e i suoi oggetti ben definiti e addirittura riconoscibili come luoghi del profilmico. Si potrebbe obiettare che la cura dei particolari si trova anche in tanto altro cinema postmoderno, anche in quello più dozzinale e di maniera, ma è anche vero che Nolan sembra porre l'attenzione su un modo di vivere la città che somiglia molto a quello del cinema moderno degli anni settanta. Questo non sempre viene evidenziato nel film, ma vedere un mondo determinato logicamente immerso in una narrazione debole con uno stile che a volte sembra superare lo stile mimetico-realista per approdare su lidi più autoriali-modernisti, la dice lunga sulle capacità di un autore che sembra intenzionato a superare l'impasse di un post-moderno ormai cooptato in un cinema sempre più surmoderno (8)

Il limbo

Il sogno dovrebbe acquisire la sua massima intensità nel limbo ossia il luogo in cui si può invecchiare pur rimanendo giovani (luogo dov'è possibile trascorrere una vita mentre il corpo dormiente rimane giovane nella sua alcova). Il limbo pare un luogo meraviglioso. Una spiaggia, le onde che carezzano la sabbia (o l’alta marea che s’infrange sulla scogliera dei palazzi che crollano), un uomo e una donna che si amano, il loro idillio, sono i più consumati luoghi comuni della storia non solo del cinema ma dell'immaginario collettivo, le più usuali e tipiche proiezioni che ciascuno di noi prima o poi ha sviluppato pensando a un mondo esotico e allo stesso tempo esoterico. Eppure questi semplici topoi dell'immaginario, oggi più che mai realizzabili nel mondo reale: un volo low cost, un bungalow a poche migliaia di euro per sette giorni ai Caraibi o a Papete e un'anima gemella da amare, sono oggi più o meno alla portata di tutti. In fondo il limbo più che un sogno potrebbe essere la rappresentazione di una realtà idealizzata, ossia un luogo esotico come punto d'arrivo di un viaggio organizzato in agenzia turistica senza la sua organizzazione preliminare (agenzia, biglietto aereo, carte d’imbarco, passaporti, ecc.). Detto questo non intendo banalizzare il livello estremo del mondo onirico creato da Nolan, piuttosto mettere in evidenza che in fondo la ricerca più profonda, più intensa, più onirica immaginabile, collimi con la semplicità di una vita slegata dal "logorio della vita moderna" (9). Il limbo è l'esotico idealizzato ma anche e sopratutto la ricerca di una soluzione indelebile, di una città personalizzata, ideale, ma anche usufruibile. Poiché non riusciamo più a connetterci con il mondo urbanizzato e disumanizzato, troppo distante e lontano dalla nostra natura più profonda, ci rifugiamo in un limbo dove poter liberamente realizzare la nostra idea di città. Ma la nostra personale città ideale risente degli influssi di una realtà meno appagante. La città del limbo, disabitata e senza auto, somiglia in maniera impressionante ad una metropoli (una sorta di Venezia surmoderna), la casa dei due amanti (Cobb e sua moglie Mal) è più “naturale”, più distante dal grattacielo tecnologico proiettato verso l’alto, ma ad ogni modo il mondo onirico del limbo ripete una certa fluidità come costante della vita contemporanea (perdita di ogni punto di riferimento, amore liquido, vaporoso, rapporti interpersonali ridotti ai minimi termini, precarietà come nuova religione economico-morale: lavoro, amore, famiglia, viaggio, locus, ambiente, idee, ecc.). Il limbo non è lo stadio più profondo del sogno, né il luogo più distante in cui sia giunto l’onironauta, ma è rappresentazione del bisogno di mondo dell’uomo perso e smarrito a caccia di un’eternità di tempo per recuperare il suo posto nella precarietà del reale. L’immagine del limbo di Nolan non è una vaporosa, artistica, evanescente immagine proiettata verso la conoscenza dell’inconscio o almeno verso anche una sua parziale percezione (vedi ad esempio il mondo onirico di Io ti salverò di Hitchcock in cui si trovano echi del cinema surrealista degli anni venti), ma la consapevole ricostruzione di un immaginario del quotidiano da cui non è possibile affrancarsi se non generando nuovi postulati, anche propedeutici, al fine di riformare un certo modo di “vivere” il cinema (e l’arte in generale) anche a costo di perdersi nell’eternità, senza possibilità di ritorno, in un luogo che è ormai simulacro della massificazione della società globalizzata. Se vedere significa anche un po’ conoscere e ricostruire con consapevolezza un percorso di conoscenza e interazione con l’arte, il cinema a cui Nolan sembra ambire è quello di una modernità a-surmoderna, una sorta di neorealismo al quadrato in cui per “quadrato” intendo l’andamento esponenziale di un “differente” modo di percepire il logorio continuo e inenarrabile del nostro inconscio.


(1) cfr. Vistor Šklovskij, L'arte come procedimento, Mosca 1929. Ho ripreso queste citazioni da: Luigi Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Zanichelli Bologna 1974, p. 51.
(2) Ibid.
(3) Ivi, pp. 51-52
(4) Programmazione neuro linguistica.
(5) Cfr. Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci editore, Roma 2010. Interessante a proposito è la lettura del paragrafo "Tra moderno e postmoderno" (pp. 131-145).
(6) Ivi p. 144. Ho decontestualizzato la citazione di Buccheri riferita in particolare ad un paragone tra il cinema moderno rappresentato da Blow-up di Michelangelo Antonioni e quello post-moderno rappresentato da Blow-out di Brian De Palma. Intendo sottolineare che per me il primo è un capolavoro e il secondo un film di grande levatura, quindi due grandi film e pertanto il termine "ludico” non ha per me (come mi pare di aver capito non l'aveva neppure per Buccheri) una connotazione negativa. Mi sono solo servito di questa distinzione perché mi pare di avere scorto in Inception qualche "germe" di una "svolta" o, a seconda dei punti di vista, un "ritorno", di un cinema post-moderno che mi sembra in questi ultimi anni (ad esclusione di alcuni film di grandi registi) tenda ad atrofizzarsi.
(7) Per Memento e The Prestige mi riservo di rivedere i due film perché li ho visti una volta sola anni fa.
(8) cfr. Augé M., Non-liux, 1992, trad. it. di Rolland D., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Eléuthera, Milano.
(9) “Contro il logorio della vita moderna” era una celebre frase di una pubblicità dell’amaro Cynar reclamizzato in diversi spot televisivi (Carosello) negli anni sessanta interpretati da Ernesto Calindri..

7 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 1/3: Sogni lucidi.

L'orrore non sorge dall'acquisita consapevolezza del rischio che si frappone al raggiungimento di uno scopo: sapere di trovarsi davanti a un film, anche se coinvolti emotivamente, attenua la paura, allontana l'angoscia, trascinando lo spettatore, sempre consapevole dell'innocuità del film (1), nel godimento estetico. La sua passività nell'oscurità della sala e il rilassamento di un corpo adagiato in una comoda poltrona, avendo molto in comune con le condizioni del sogno, agevolano la percezione realistica, lo spettatore "[...] sa di assistere a uno spettacolo inoffensivo, mentre il sognatore crede nella realtà assoluta del suo sogno assolutamente irreale" (2). Lo spettatore riconosce l'irrealtà del film anche se viene percepito oggettivamente, mentre al contrario il sognatore crede profondamente nell'irrealtà del sogno. In un caso non c'è credenza in un mondo immaginario costruito con materiale preso dal mondo reale, nell'altro si crede in un mondo completamente irreale (3). Ma se il sogno diventa lucido l'orrore può essere controllato, la paura trasformarsi in piacere estetico e quindi in creatività artistica. Essere consapevoli di vivere un sogno significa riuscire a manipolarlo cimentandosi a costruire un mondo. L'idea, il desiderio di viaggiare con la mente nell'avventura, come nel meccanismo di una cultura più o meno remota, nasce nello stato di veglia. In Inception accade proprio questo, ma accade anche proprio il contrario di questo. In altri termini Cobb, come i suoi compagni di viaggio, è un sognatore lucido, un onironauta, e pertanto trasforma e deforma la meccanica del "reale" onirico (mi si scusi l'ossimoro) a suo piacimento anche se Nolan riesce a inserire Mal, espressione del senso di colpa di Cobb, come ostacolo in grado di demolire l'architettura dei paesaggi e dei mondi "impossibili". Accade nel plot che il gruppo dei sognatori abbia acquisito consapevolezza di essere navigatore dell'onirico e addirittura di "iniettare" un'idea nella mente di Robert Fischer . Un progetto di paesaggio, così come la trasformazione del volto di Eames nel volto di Peter Browning, determinano il sogno inconsapevole (o quasi) di Fischer, ossia la credenza, per dirla con Morin, che ci si trovi coinvolti in una realtà assoluta ma irreale. L'idea pertanto non rappresenta la consapevolezza dell'onironauta, ma la capacità di lasciarsi trascinare più o meno consapevolmente nei meandri narrativi di un sogno a più livelli creato da un artefice. Metafora del cinema, ma anche percorso che conduce da un'ignara immersione nella narrazione (trasparenza del film) alla sua più densa opacità (strumenti di costruzione, materiale, progetti). Il cinema è anche lucidità e conformazione dell'irreale al reale. Gli onironauti di Inception sono parte del cast che ha girato Inception e il più o meno ignaro Robert Fischer potrebbe essere metafora dello spettatore manipolato dalle immagini, dal plot, e dalle emozioni indotte. Ma il fatto è che noi spettatori non siamo ignari sognatori, perché sappiamo di assistere ad uno spettacolo "inoffensivo" e irreale, sappiamo di vivere un "sogno" e pertanto esprimerei la seguente dipendenza funzionale: lo spettatore sta al film come il sognatore lucido sta al suo sogno. Ad un altro livello, a pensarci bene, neppure Fischer è un sognatore ignaro (di quelli che si spaventano perché credono nella verità del sogno) e Nolan lo sa e ce lo dichiara in continuazione (gli "ostacoli" che i nostri onironauti incontrano per far aprire la cassaforte al terzo livello): Fischer-Murphy è anch'egli un attore del cast e recita per noi sognatori lucidi (solo al cinema però). Non voglio proporre un'equivalenza tra spettatore seduto sulla poltrona, sempre predisposto a recepire mondi fittizi e a credere in essi pur avendo sempre coscienza della propria paralisi temporanea (come nella fase REM del sonno), e sognatore lucido del suo stesso sogno capace di trasformare materiali (case, paesaggi, persone) e storie (ridurre un mostro a oggetto o neutralizzare eventuli ostacoli), perché nel primo caso prende corpo la capacità critica (il film mi ha emozionato, mi è piaciuto, non l'ho capito, ecc.) nel secondo la capacità artistica (sono io che plasmo il materiale e produco mondi). In Inception accade però anche il contrario di tutto questo: ossia, Cobb e il suo gruppo, in quanto personaggi interpretati da attori, non sono sognatori lucidi ma rappresentazioni psichiche, immateriali, sono ombre proiettate che navigano in mondi costruiti dalla computer grafica (o da ricostruzioni in studio), sono pseudo onironauti perché qualsiasi personaggio di un film in fondo è onironauta del suo film (e questo vale anche per il cinema più trasparente come quello classico). Ma, e questo mi ha entusiasmato non poco, Nolan sa anche questo. Non si è accontentato di girare un film sul sogno (come ne sono stati fatti tanti) ma sul non-sogno. In altri termini Nolan, sequenza dopo sequenza, tiene a mostrare l'incredibile "verosimiglianza" del mondo onirico di Inception con il mondo reale. Parigi, anche se rigirata su se stessa come un sandwich imbottito, è sempre così terribilmente Parigi. L'effetto droste degli specchi aperti sul mondo da Ariadne dà forma al sottovia della sopraelevata del Pont de Bir-Hakeim. Le macchine viaggiano per le strade come macchine vere e anche se improvvisamente appare un treno questo compie comunque il suo dovere di treno. La splendida determinazione di questa volontà viene raggiunta nel limbo, il luogo che dovrebbe essere il più onirico ma che al contrario è il più filmico di tutti nel senso che è quello che affascina di più noi spettatori adattati a viaggiare nei vari livelli. Ritengo che il limbo, la parte più interessante e notevole di un film che vuole ricostruire storie e ambientazioni oniriche, sia il tentativo (riuscito) di riformare l'oggettività del mondo reale all'interno dell'irrealtà del film, col mostrare la frantumazione di un mondo (quello contemporaneo) che non siamo più in grado di tenere in piedi, un mondo in cui si invecchia velocemente, in cui i giovani sono vecchi e che pare non voler morire mai. L'idea pertanto è creata e trascinata dentro le nostre menti di spettatori pronti e adattati a navigare all'interno del film, coinvolti nell'estrema vivacità di un post-modernismo all'apice del suo fulgore, ma anche consapevoli di sognare da svegli. Come afferma Morin più "[...] vicino al cinema è il sogno da svegli, anch'esso a cavallo fra la veglia e il sogno [...] pur vivendo amori, ricchezze, trionfi, continuiamo a essere noi stessi, dall'altra parte del sogno, sulle prosaiche rive della vita quotidiana"(4).

(1) cfr. Edgar Morin, Il cinema o l'uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982.
(2) Ivi p. 154
(3) Ib.
(4) p. 155.