30 giugno 2010

Un americano a Parigi (Vincente Minnelli, 1951)

Un Americano a Parigi coinvolge soprattutto per le musiche di un compositore superlativo e al quale venne reso onore dallo stesso titolo del film che riprende il nome dell’omonima opera di Gershwin. Con i suoi sei premi Oscar tra cui miglior film, sceneggiatura, colonna sonora, scenografia, è uno dei musical più famosi girato nel periodo in cui il genere raggiunse l’apice e la danza diventò il respiro di una città, il ritmo di una storia avvincente. Eppure, nonostante il film venga osannato come uno dei migliori musical di tutti i tempi e rientri a pieno titolo nel genere, le sequenze di danza e canto non sono preponderanti. In quasi due ore di visione le performance musicali non raggiungono la mezz’ora di durata, ovviamente escludendo lo stupendo balletto finale di diciassette minuti. Anzi le sequenze diegetiche recitate rappresentano il nucleo narrativo della storia, mentre la regia di Vincente Minnelli ci mostra inquadrature prettamente classiche con movimenti di macchina calibrati e tesi essenzialmente ad incorniciare i volti e le espressioni degli interpreti. Lo spazio circostante è la ricostruzione di una Parigi popolare frequentata da artisti che vendevano i quadri lungo le strade o nelle piazzette, è una Montmartre evidenziata come luogo e simbolo di pittori, cantanti, musicisti desiderosi di sfondare e pertanto intenti a sviluppare uno stile personale sia nella musica che nel disegno. L’incipit quasi stupisce per l’impiego di tre narratori autodiegetici: in primis Jerry Mulligan ci presenta una florida e romantica Parigi anni cinquanta e ci introduce nel suo appartamento che sembra un loculo sapientemente arredato dove nessun oggetto è messo lì per caso (ad esempio il letto sul quale si sveglia al mattino viene sollevato contro il soffitto da una corda da fermare ad un chiodo infisso nel muro che agisce su una carrucola); quindi Adam Cook si presenta suonando il piano con la mdp che lo ha da poco sorpreso posizionandosi appena fuori della finestra (allo stesso modo di Jerry); infine Henri Baurel, o meglio la voce off di Baurel, dato che quest’ultimo narratore assume il punto di vista della mdp. Lungo il percorso seguito con una carrellata che costeggia i negozi, dalla reazione dei bottegai che salutano con riverenza e animo gioioso, veniamo a conoscenza del rispetto e della considerazione in cui è tenuto Baurel, finché finalmente non facciamo la sua conoscenza attraverso uno specchio sul muro che riflette il suo volto. Dopo l’incipit le voci off scompaiono per lasciare il posto, nelle sequenze non dialogate, alla musica. Ritengo che il film da questo punto di vista, nonostante la maestria di un grande regista come Vincente Minnelli, non aggiunga niente di nuovo rispetto alle incommensurabili commedie americane degli anni trenta, se non un uso molto attento delle inquadrature e delle scenografie (sia nel riprodurre la “realtà di una Parigi anni ’50 sia nel rappresentare le esperienze oniriche del balletto finale) che ci deliziano per l’abbondanza di oggetti e per la forza espressiva del colore. Probabilmente siamo davanti a un'opera costruita per affascinare il grande pubblico, in grado di sublimarsi nell’uso peculiare e continuo (anche durante le sequenze non musicate) della danza e dei movimenti simmetrici e ritmici del corpo. Una ritmica del corpo quindi che va oltre l’esteriorità formale del ballo e che s’innesta nella metafora stessa della narrazione (Lise Bouvier è una cenerentola che trova l’amore nel suo principe povero). Mentre la narrazione rimane sospesa in un romanticismo di maniera (il corteggiamento, l’apparente repulsione di Lise, la conquista di Jerry, Henry come terzo incomodo, l’amore impossibile, l’happy end con abbraccio e bacio finale sulla scalinata di Rue Foyatier), i movimenti sensuali e “astratti” delle danze ci conducono verso una liberazione del corpo dalle costrizioni dell'immagine-azione codificata da anni di cinema d’evasione. Il corpo, in particolare i corpi di Gene Kelly (Jerry) e Leslie Caron (Lise), mostra una prorompente sessualità che, pur rimanendo apparentemente velata, pare contraddire i luoghi comuni del plot negando le parole, i comportamenti e persino il pudore ipocrita dei benpensanti. Questo amore contrastato, poiché Lise sta per sposarsi con il buon Henri che non ama ma a cui è riconoscente per averla salvata durante la seconda guerra mondiale, si rivela tramite una danza che esprime, oltre alla malinconia della situazione (tipica del romanticismo) il desiderio represso, soprattutto sessuale, dei due innamorati. Mi riferisco in particolare al magnifico balletto sul lungo Senna (Love is Here to Stay) che sancisce un momento topico della tipica storia d’amore (il ballo, l’abbraccio, la fuga della donna ad un’ora stabilita – qui le ventitré anziché la mezzanotte), ma allo stesso tempo informa sull’attrazione fisica, decisamente carnale, tra i due. La sequenza sulla Senna appena sotto il Quai parigino (così come gli altri momenti musicali) va oltre l'apparente impasse della "commedia", poiché tanto l’intreccio ripete gli stilemi della commedia sofisticata americana (appunto happy end, buonismo, assenza di conflitti sociali, ecc), rasentando il cliché e il luogo comune (e il plot non ne è che l'ennesima dimostrazione), quanto la danza, al di là dei momenti in cui domina, sembra occupare lentamente le sequenze diegetiche, attestandosi sotto la superficie, quasi per non interrompere ed incrinare la struttura essenzialmente stereotipata. Eppure appena sotto la superficie traspare un ritmo continuo e interattivo, una sorta di brusio in controtendenza, contraddittorio, che potrebbe minare l'intera organizzazione narrativa. Questi disturbi o forme del movimento sono essenzialmente di due tipi: movimenti ritmici dei corpi e tendenze destabilizzanti della musica. I movimenti dei corpi (soprattutto di Jerry), anche quando la diegesi del racconto scorre e lo spazio si distende tutt'intorno a uso esclusivo dei personaggi, sono legati strettamente all'espressione dei sentimenti e alle esigenze dello spazio e in tal modo, ad esempio, nell'incipit ogni più piccolo gesto di Jerry (dal sollevare il letto a guardare il suo volto dipinto sulla carta, ad aprire la finestra) è una sorta di danza tesa a sottolineare una gestualità strettamente relazionata al senso di benessere e gioia di vivere e di dipingere a Parigi, nonché agli oggetti che occupano l'angusto spazio del monolocale. La musica inoltre, anche quella extradiegetica delle sequenze descrittive, come qualsiasi altro suono (voce, rumori) è sempre legata all'espressione dei sentimenti dei personaggi e soprattutto alla presenza ingombrante e sempre ribadita di una Parigi che cerca di dimenticare gli orrori di una guerra terminata da pochi anni. La musica e i corpi (suoni, e movimenti) sono il respiro della città e del suo fascino. Lo stereotipo si stempera fino ad eclissarsi nel ritmo poetico di musica e danza. La poesia della musica sopperisce alla debolezza del plot con il suo ritmo vitale, il suo substrato polisemico, con la sua tendenza centrifuga ad annullare gli eventi ripetitivi e prevedibili. Come se non bastasse Minnelli ci regala un epilogo imprevisto o meglio un tentativo di disinnescare l'happy end già annunciato nei titoli di testa. Gli ultimi diciassette minuti sono l'apoteosi del colore e del movimento accompagnati da una delle più belle musiche del novecento, il tema di An american in Paris di Gershwin. La danza parte flebile e dimessa prendendo spunto da un disegno che Jerry ha strappato, ma si inoltra presto in territori inesplorati, si inerpica in percorsi esclusivi. In una Place della Concorde disegnata, i movimenti si intersecano, si amplificano tra piroette, danze, passi di tip tap e movimenti di folle (soldati, passanti, bambini, marionette giocolieri, ecc.). Jerry balla con Lise, balla nella piazza, balla nei locali, balla nei manifesti di Lautrec, nei dipinti degli impressionisti e forse in quelli di Van Gogh (dico forse perché, nonostante il riferimento a Van Gogh sia citato da più fonti non ho visto le pennellate dense, quasi gettate con rabbia sulla tela, del grande pittore olandese). Jerry e Lise ballano nei colori, non solo nella città reale idealizzata dalle quinte disegnate (prima appena stilizzate poi sempre più definite cromaticamente), ma in quella ideale sottomessa al desiderio e alla gioia di vivere dei protagonisti (e del popolo francese che vuol ricominciare una nuova vita dopo la barbarie dell’occupazione nazista). Il colore in particolare prende il sopravvento, quasi staccandosi dagli oggetti nella caleidoscopica sequenza del ballo nella fontana di Place de la Concorde quando l'acqua stilizzata in vapore o nebbia si tinge di viola, di porpora, di giallo e i due ballerini amanti sembrano sospesi nella rappresentazione stessa, non nella loro storia simile a tante, ma nella rappresentazione dell'amore stesso al di là di ogni banalizzazione.