27 febbraio 2010

Sogno (bi-mong) (Kim ki-duk, 2008)


Jin intaglia timbri e Ran cuce abiti. Non si sono mai conosciuti ma entrambi hanno una storia alle spalle di cui ancora combattono il ricordo lui ancora disperatamente innamorato della sua ex-ragazza, Ran invece detesta il suo ragazzo che ha da poco lasciato. Una notte lui sogna di provocare un incidente e lei da sonnambula lo provoca davvero, pur perdendone il ricordo. Da quel momento tra i due si crea un legame difficile da comprendere, che avrà effetti devastanti.

È per opposizioni e paradossi che, anche nell’ultima opera di Kim ki-duk, ci viene mostrato un angolo di esistenza, dove aporie coesistono e creano equilibrio con le rispettive conseguenze. Ran e Jin sono gli opposti che creano l’equilibrio di un meccanismo fisico e mentale, entrambi reduci da due diverse esperienze d’amore. Ciò che è umano, ciò che è presente sia nel nostro corpo che nella nostra mente diventa materia concreta. Il corpo così, diventa timbro da intagliare, dove incidere le espressioni e pulsioni, ed è proprio sul corpo che inizia e finisce l’indagine sul vissuto dei personaggi. Per quanto la forte natura onirica del film sia di derivazione fruediana, ovvero dove sono i desideri dei personaggi a manifestarsi e a scontrarsi rispettivamente, questi non possono e non devono prendere il soppravvento. Il sogno non sembra collocarsi come luogo ultimo dell’appagamento, ma ne evidenzia delle soglie tra luoghi, una mediazione tra la realtà ed un luogo “altro” è che per molti aspetti proprio l’amore indissolubilmente legato alla morte, ad essere identificato come “altro” come rispettivo gioco delle parti. La dottoressa sottolinea nel film; soltanto se entrambi s’innamorassero, i disturbi di sonnambulismo cesseranno. La spazialità dei luoghi è di natura pittorica, e la scarsa presenza di costatanti movimenti di macchina o di spezzettare la visione per creare senso, cedono il passo alla forza del quadro, che spesso diventa astratto come nei momenti in cui la violenza sul corpo inizia a diventare insostenibile per entrambe le parti allora tutto scivola in questo “spazio d’altrove”, un dirottamento improvviso dallo spazio reale ad un altro spazio di tipo mentale che nel film sono dei luoghi ben precisi, luoghi dove si riscopre se stessi e chi si ha accanto; nel primo caso la scena nel campo di grano dove le rispettive coppie sono legate dall’evidente abbigliamento di colore bianco e nero, il secondo luogo è il tempo buddista e il terzo è il raggiungimento di questo luogo ghiacciato, statico come in un limbo. In questo senso ho trovato una sorta di percorso dell’amore. L’amore non è un sentimento, e di per se non lo è mai stato, quest’ultimo è qualcosa di astratto, che non ha una tangibilità vera, i personaggi che sono spinti dai soli sentimenti finiscono sempre per fraintendersi, agire, parlarsi e urlarsi su piani di realtà differenti; lui che sogna di far l’amore con la sua ex ragazza e lei che da sonnambula raggiunge il suo detestato ex per fare l’amore dimostra appunto questo, ma i due protagonisti legati oniricamente , hanno un dialogo che è ridotto allo stretto necessario, caratteristica costante quello del mutismo esistenziale, dell’inadeguatezza della parola, come pesci dentro acqua che non vediamo, scoprono la loro unione senza sapere ancora cosa realmente sia. E’ ciò che accade nel tempio buddista dove tutto sembra fermarsi, e si mette alla prova la capacità di attesa verso l’atro, quanto si è disposti ad aspettare. si ama non a causa di un sentimento, ma a causa di un legame corporale, che diventa sacrificio ed è grazie a questo l’amore diventa una realtà altra ma paradossalmente concreta. L’ultimo luogo, il fiume ghiacciato, l’acqua si e solidificata trattenendo con se ciò che c’era dentro. S’intaglia se stessi fino alle estreme conseguenze, ma solo ed esclusivamente per amore dell’altro.

18 febbraio 2010

Avatar (James Cameron, 2010)

Il Pittoresco ingigantisce sequenza dopo sequenza prendendo il sopravvento come unica possibile redenzione, come motivazione fondante di un racconto che non è una storia ma il mito stesso della nostra umanità, ciò per cui noi siamo, pensiamo, crediamo. Simbiosi con la natura, connessione "naturale" (i capelli dei Na'vi) con ogni essere senziente (vegetazione, animali, indigeni), senso panico della vita inenarrabile (come raccontare e definire l’Origine?) atto a estrarre i nostri sogni più reconditi dal nostro cassetto dimenticato. Applausi al termine della proiezione (persino in 3D) come liberazione di uno stress da over-visione accumulato sequenza dopo sequenza, immagine dopo immagine. La perfezione del digitale che contribuisce al meraviglioso, come la struttura canonica di un plot collaudato, fanno di Avatar un altro successo di Cameron, un film di cui discuteremo per anni e che lascia lo spettatore appagato per cui un giorno potremo/potranno definirlo capolavoro (?). Intreccio pertanto tipicamente classico (eroe introdotto nel plot dal caso, la sua formazione, i suoi errori, tradimenti, la sua conversione, redenzione e amore) ma spazio narrativo topicamente post-moderno (nostro coinvolgimento, smembramento dell'io, decostruzione e ricomposizione di oggetti in uno spazio non gravitazionale). La luce in particolare sembra uscita dal proiettore e assorbita dalla notte di Pandora; non potendo fuggire dal vaso (come la speranza) rimane in sosta, depositata sulle piante e sul terreno a mo' di brace opalescente per illuminare la vegetazione, immagino per il piacere dello sguardo (perché altrimenti la luce di notte?), forse per scolpire nel nostro ricordo una natura che non abbiamo mai conosciuto. Il dilemma, ciò che mi preoccupa, si trova nello iato tra la meravigliosa e straziante bellezza del creato e la sua stessa angosciante estraneità. Non si respira (la meravigliosa "miscela" dei Na'vi è per noi una velenosa sostanza che ci fa soffocare), non si cammina se non alla guida di enormi robot armati o tramite connessioni con avatar non riconosciuti dagli indigeni. Mentre la forza proiettiva della mente ci trascina nel meraviglioso mondo di Pandora, il nostro corpo rimane recluso nel sarcofago, l'occhio cellofanato sotto occhialetti di plastica "offerti" all'entrata della sala per aumentare il senso di stupore (e di angoscia), l'occhio bloccato al di là del vetro perché tutta questa meraviglia non sarà nostra a meno che non si possieda la capacità di connettersi al di là, imparare a guardare oltre la luce (la notte lattiginosa di Pandora), oltre le apparenze (gli animali feroci sono amici per la vita), oltre le forme (metamorfosi di tutti gli esseri che non sono quel che sembrano ma sono ciò che vogliamo). Il corpo dello spettatore abbandonato nel sarcofago-poltrona na'vi-ga nello spazio cibernetico di Cameron, nel suo mondo idilliaco, solo per lo sguardo o meglio per una speranza di sguardo (anche la connessione per noi non è che una presa usb); così l'occhio del Na'vi aperto a nuova vita definisce l'estrema metamorfosi di un essere umano che ha imparato a conoscere l'impossibilità di comprendere il mondo ma anche la possibilità di compenetrarsi con questo mondo. Per questa sola, unica, imponderabile emozione, per questa sensazione di aver sentito un appagamento amaro nel cuore (sarò capace di aprire veramente gli occhi?), di aver provato una sorta di repulsione-attrazione per gli indigeni e il loro mondo (se non divento Na'vi soffoco e so benissimo quanto sia costoso respirare), Avatar è stato per poco meno di tre ore la mia preziosa, irrinunciabile maschera (occhialetti?) dell'ossigeno.