31 dicembre 2010

Il nastro bianco (Michael Haneke, 2009)

Il recupero del bianco e nero come valore psichico, che regola e conduce il film nelle asperità della vita prebellica di un villaggio della Germania, sembra spezzare i cardini delle sfumature, riducendo l’idea contemporanea del bene e del male (ciò che oggi ci permette di giudicare e valutare altri mondi di altre epoche) a giochi cromatici i cui effetti inondano la visione, mescolati in una sorta di tavolozza colorata (il rosso del sangue, l’azzurro dell’acqua, il verde della pace e della serenità, l’oro della fatica e della sofferenza, ecc.). Le sfumature del bianco e nero, nel film di Haneke, tendono a uniformarsi, a irrigidirsi, trasfigurando la visione e riducendola a mera rappresentazione di una rarefazione culturale; per cui la dottrina, i doveri, l’educazione diventano dogmi indiscutibili e inattaccabili che tendono ad assorbire, lungo la visione del film, i colori immaginati. Sembra che vi sia una progressione direttamente proporzionale tra l'escalation degli eventi (la corda tirata per far cadere il dottore, il campo di cavoli distrutto, il canarino ucciso con le forbici, il piccolo paraplegico) e la perdita del colore, come se, nel prendere coscienza di una realtà sempre più drammatica, dovessimo assistere all’impoverimento di un mondo che non sembra trattenere le sue splendide e algide sfumature. Così come il potere definisce doveri e diritti quali regole a cui non è possibile affrancarsi, per non correre il rischio di essere classificati portatori del male e/o del disordine, tanto le reazioni di chi subisce gli effetti della Legge (non fare chiasso a scuola, non masturbarsi, non raccontare sogni) non sono finalizzate a denunciare lo squilibrio e l’infondatezza di dette regole quanto a “disturbare” e riversare le vessazioni subite anche e soprattutto su soggetti deboli. La dottrina genera mostri ma ha anche bisogno di non ingenerare e alimentare il germe della conoscenza, perché, al fine di proteggere lo status quo, non deve mai essere intaccata dal dubbio. Indagare e approfondire le perplessità del maestro potrebbe innescare una reazione a catena che metterebbe in discussione lo stesso potere. Soltanto le donne sembrano timidamente obiettare e discutere apertamente (entro i limiti della loro condizione sociale) le regole rigide e mirate al benessere dei leader (parroco, barone, dottore, intendente e così via). La donna viene trascinata nei gorghi del bianco e nero e “consumata” come oggetto di appagamento sessuale o ripudiata in quanto non più utilizzabile. La baronessa Marie-Louise esprime bene il suo dolore cercando una fuga verso un improbabile avvento della tavolozza cromatica (il mediterraneo) poiché la prima guerra “ripresa” in bianco e nero (documentari) è giunta alle porte. Lo sfaldarsi pertanto dei toni medi allontana quel mondo perso e annegato nella guerra e nel nazismo. In altri termini nel Nastro bianco la desaturazione è già avvenuta, pertanto la speranza di assistere ad eventi “saturi” (ribellione, violenza, passione, amore) non è possibile. Un mondo già scarnificato, rinchiuso nei suoi pregiudizi e nei suoi dogmi non poteva per Haneke partire o arrivare al colore. D’altronde la guerra mondiale non è mai stata a colori. Vediamo le immagini rovinate dal tempo di vecchi documentari di eserciti e folle che si muovono, che acclamano; vediamo i volti tumefatti dei soldati e quelli dei contadini bruciati dal sole e dalla miseria. Una bimba, guardando quei cinegiornali consumati, volle sapere da suo padre se una volta il mondo era in bianco e nero. Il padre indugiò un attimo; avrebbe voluto spiegarle il progresso della scienza e della tecnologia, dirle che il colore non era rappresentabile e che comunque il colore filmico cambia e si trasforma sempre, ma non potendo dilungarsi in spiegazioni tanto complesse le rispose di sì. Il mondo di Haneke, la sua idea di mondo prebellico, è in bianco e nero perché ogni cosa accade in bianco e nero. Il dottore in questo senso, che vorrebbe mediare tra i piccoli crimini degli orrori, certamente da censurare, imputabili alle giovani leve, e i crimini degli adulti faticosamente coperti da una patina di moralità preconfezionata, fallisce miseramente. La sua sconfitta non è neppure rappresentabile perché conosciamo solo dalla voce off di vecchio la storia di reduce mai ritornato (a guerra finita) al villaggio, che nei suoi ricordi rimarrà per sempre privo di colori. Ma ciò viene solo detto, mentre, per quanto concerne l'immagine, persino il maestro è costretto a rimanere congelato in quel mondo freddo e irrimediabilmente perduto, assorbito anch'egli da un'implacabile e disperante assenza. L'assenza è uno dei motivi portanti del film: assenza di un colpevole, assenza di un'indagine, assenza di un confronto e persino di un antagonista. E se è possibile rintracciare una performance del soggetto nel modello attanziale del film, posto il Soggetto nella figura del Maestro (Narratore omodiegetico), non è da rintracciare in una improbabile indagine (performance) atta a scoprire e denunciare i responsabili dei crimini (Oggetto), ma nella “capacità” di accettare la deriva di un mondo sfaldato e dei suoi falsi miti di legge, dovere, obbedienza (Oppositore). Haneke è riuscito ad evidenziare la debolezza della ricerca di una probabile verità che non riguarda gli atti “criminali” perpetrati dai ragazzi, ma si inserisce negli interstizi di dogmi tanto inutili quanto efficaci nel garantire l’ignominia del potere. L’Oppositore è assente in quanto presente in ogni luogo e tempo, eterno e indistruttibile, conservato nelle “ragioni” di una classe dirigente che serve solo se stessa. Nell'assenza cromatica non c'è spazio neppure per modelli narrativi sperimentati: un qualsiasi nemico da odiare e che sprigioni in noi tutta l'adrenalina possibile. La disperazione è l'orrore più grande, perché non riesce neppure a scuotere la carne, a far vibrare i nervi. Nell'attesa di una guerra che pare lontana, descritta da una distanza ancora più abissale nell'epilogo, mentre il paese si raduna in chiesa per sentire un'altra omelia, si consuma la tragedia di un mondo morto che aveva già generato i propri mostri. Un preludio drammatico e sconfortante, la descrizione puntuale e asettica di come un’infanzia, plasmata nei ritmi e nei “decori” di una pulizia (estetica e morale) che tutto giustifica e “gratifica” (una pulizia che si limita però a nascondere la sporcizia non a mostrarla al fine di esorcizzarla), non sia altro che l’intelaiatura dell’abominio prossimo venturo di un regime, quello nazista, proiettato sin nei suoi prodromi a un ben altri modi di intendere un’estetica di pulizia (o meglio, di una politica di pulizia) realizzatasi pochi anni dopo negli alti forni di campi di sterminio tristemente famosi come Dachau e Auschwitz.


Pubblicato su Rapporto Confidenziale

10 dicembre 2010

Scott Pilgrim vs the World (Edgar Wright, 2010)

Premessa
(Ricordo una gara scolastica di corsa campestre in cui lottai inutilmente fino all'ultimo per superare il fidanzatino di una ragazza da me amata. Arrivai sesto su oltre cento concorrenti, ma lui giunse quinto. Un buon risultato, ma per me una sconfitta: avrei preferito arrivare penultimo pur di finire davanti al mio vero, unico, avversario. Sorridevo davanti agli amici che si congratulavano, ma dentro di me ero amareggiato per avere visto tra il pubblico la ragazzina che incitava il suo amore a resistere fino in fondo a un mio eventuale sorpasso. Una doppia delusione: mi vedevo attraverso gli occhi della mia Beatrice, come un ragazzo sconfitto e allo stesso tempo un pericolo da scongiurare. L'esperienza mi fu salutare: imparai ad assaporare il gusto amaro di una doppia sconfitta e capii che intorno a me c'era un mondo da scoprire. Immaginavo di indossare la tuta dell'uomo pipistrello e di scivolare tra i palazzi della città usando funi robustissime di nylon, volando veloce tra le auto parcheggiate, di notte, alzando lo sguardo verso il cielo stellato, con i brividi della libertà scorrere lungo il mio corpo acerbo).


1) Le dodici fatiche di Eracle
Sudare sette camicie per dissolversi nel mondo con la propria amata, al fine di raggiungere l'età adulta scomparendo dietro la porta dell'oltre-cinema, non è molto importante, perché l'epilogo riproduce in fondo un'entrata (più che un'uscita). Aprendo una porta che immette direttamente nell'imperscrutabilità della vita, si rinuncia a mostrare un probabile ménage, felice o disperato che sia, con la ragazza dai capelli viola, pertanto donna speciale per "me", unica, irriducibile. Il futuro sarà un "forse" o un dubbio, sarà il mistero che accompagnerà una ricerca continua, costante, di conoscenza, di vita, di speranza o disperazione. L'Adesso al contrario è il mondo dell'adolescenza e dei giochi, dei sogni e dei fumetti. Scott, nerd timido e sognatore, è un eroe di se stesso che affronta il suo primo vero amore percorrendo una strada obbligata e faticosa ma con la possibilità di utilizzare strumenti a lui congeniali, armi indispensabili per superare i vari ostacoli che si frappongono al raggiungimento dell'obiettivo (che poi non è altro che il principio del mondo). Un ragazzo così quali armi può avere se non l'abilità di usare al meglio i videogame e una immensa cultura del fumetto? Il film non è soltanto enunciato fumettistico, rappresentazione di un mondo disegnato su carta, proponimento di cultura che si fa prosopopea indissolubile, ma è anche e soprattutto una ricetta, con possibili e probabili ripercussioni (speriamo) sul cinema futuro. Fumetto che occupa il filmico fin nelle fondamenta, pervadendolo e coprendolo quasi come una guaina leggera ma confortevole, sufficiente a mostrare la propria forma. O meglio: quando il cinema decide di “indossare” il fumetto si contamina e richiede una tecnica e una capacità notevoli, vuole continuare a essere protagonista nel far emergere gli stilemi e gli aspetti tipici dei cartoon. Si vedano ad esempio gli scontri tra Scott e i sette avversari, i momenti clou quando le forme dei concorrenti si irrigidiscono nelle classiche pose dei comic strip e vengono scaraventate dall'altra parte della “vignetta” senza un'ammaccatura, spezzando muri e sbattendo contro qualsiasi cosa senza scomporsi; o si veda il continuo apparire delle onomatopee che sottolineano i rumori del telefono o della musica suonata dalle band. Qui il fumetto è emerso alla superficie e sta mostrando la fantasia del ragazzo che vorrebbe frangere l'ottusità naturale del mondo attraverso le proprie esperienze culturali, sospendere il “senso ottuso” (Roland Barthes) per “pungere” lo stato delle cose e spezzare le catene dell'omologazione culturale con la forza delle proprie urla interiori (forza muscolare o musica che sia). Sconfiggere l'avversario con la musica al posto della armi significa volere lasciare un'impronta, imporre un'idea che contribuisca a migliorare lo status quo di una società assopita. Ma il film, già di per sé notevole solo per avere proposto anche un profilmico di “carta”, osa andare oltre affrontando l'epilogo degli scontri (ma non solo), utilizzando un altro aspetto della vita di un nerd degli anni ottanta: i videogiochi arcade, che tanto sono stati amati e tanto hanno fatto soffrire (perché le vite non bastavano mai per raggiungere i livelli più alti). Pertanto gli scontri si fanno sempre più duri e più difficili via via che si sale di livello, come allo stesso tempo i premi (la monetizzazione che simboleggia la distruzione del "mostruoso" nemico) diventano più cospicui.


2) Andamento a striscia-cartoon

I passaggi tra una sequenza all'altra o tra un'inquadratura all'altra tendono a riproporre l'interstizio netto (canaletto) ma allo stesso tempo "fluidificante" (assenza del canaletto) che separa le vignette. Proporre i flashback di Ramona come cartoon animati o scrivere le onomatopee, che riproducono i suoni all'interno di un'inquadratura o di una sequenza, equivale a percorrere le strisce dei comic, a fonderle in blocchi univoci, come se un'inquadratura fosse una vignetta e una sequenza una striscia composta da più inquadrature. Ma questo non è poi, pensandoci bene, un aspetto notevole in quanto la produzione del film si avvale (soprattutto negli USA) dello storyboard, ossia di un “fumetto” che mostra disegni o foto di ambienti, interni, personaggi ripresi da distanze differenti e con diverse angolature (piani e campi). In altri termini la capacità di Wright consiste anche nel riproporre una sorta di film-board che dà la sensazione di un “emergere” in fieri, ossia di un “esserci” nel momento in cui lo spettatore assiste allo spettacolo. Un modo come un altro di evidenziare un'ontologia del cinema, d'accordo. In fondo è una sua caratterista fondamentale e da questo punto di vista il film non dice niente di nuovo, ma la pregnanza dello storyboard che entra in campo “crudo e nudo” (notevole l'immagine di Matthew Patel che viene catapultato all'indietro girando su se stesso nella rigidità del disegno dei cartoon) fondendosi nelle immagini del plot, sintetizza e riproduce bene il senso di appartenenza di un ragazzo ancora coinvolto nei suoi sogni e nel suo mondo adolescenziale, pronto ad affrontare le prime battaglie della vita.


3) Andamento a livello-vita

Come se non bastasse Edgar Wright deve trascinare nella battaglia anche il desiderio inconscio di “uccidere” il nemico senza fargli del male, perchè i nemici sono i mostri che albergano nella nostra coscienza, i super-limiti che un super ego troppo manipolato dalle convenzioni mette davanti al nostro agire, impedendoci spesso di aprire il nostro animo all'altro. Con questo non è mia intenzione criticare l'importanza del super-ego, né intraprendere un discorso sulla psicanalisi, ma soltanto mettere in evidenza la capacità di Edgar Wright di fondere l' “action play” con i desideri e i sogni di un ragazzo che sfoga le proprie pulsioni anche davanti alla consolle. La “violenza” interna al game si manifesta, nel momento della sconfitta del nemico, non tramite il sangue (almeno nei giochi arcade) che dovrebbe ordinariamente uscire dai corpi feriti, ma attraverso la monetina, simbolo della sconfitta del “mostro" e allo stesso tempo premio in punti per il giocatore. Non cruor ma aes, premio, moneta offerta in pegno al vincitore o al concorrente durante il suo percorso senza soste e senza traguardi, poiché “sette” sta per molti, parecchi, ossia per una lotta senza fine (sette camicie, sette nani, sette peccati capitali, sette meraviglie, ecc.). Non ci sarà una linea da tagliare alla fine di un percorso, né una dissolvenza su un bacio, ma solo un nuovo gioco da accendere, una nuova esperienza da affrontare, un'altra porta da varcare. Quindi l'importanza dell'aes come emblema del successo monetizzato (avrebbe potuto essere anche un lungo applauso, o il rispetto, o il ricongiungimento con un'anima in sintonia - amata, moglie, figli, amici - o ancora l'approdo su un'isola incantata immersa nella natura come premio per una fuga audace dal cemento della metropoli). Percorrendo Scott Pilgrim vs The World è come trovarsi all'interno del game, nell'immaginazione di un “adolescente” che sogna ancora di sconfiggere e conquistare un mondo prima ancora di “uscire” in una nuova entrata. Pertanto discorso che si enuclea tramite uno scorrimento a comic strip e plot che scorre come un'esperienza di gioco arcade. Se questa era l'intenzione del regista, lo scopo è stato ottenuto: un'ibridazione riuscita, forse ancora da affinare, ma senz'altro notevole tentativo di proporre qualcosa di originale, aspetto quest'ultimo che è anche presupposto e continua ricerca artistica.

17 novembre 2010

L'uomo che verrà (Giorgio Diritti, 2009)

La storia è spesso un'utile costruzione a posteriori non percepibile in fieri. In altri termini, se si vuole rendere il senso profondo della storia, la sua "poesia", bisogna rilevarne l'apparente inconsistenza per la cultura studiata. La ricostruzione precisa di cultura e territorio (lavoro, letture, dialetto, topografia, relazioni, economia, ecc.), che lascio alla lungimiranza dello storico, pur da seguire nel cinema storico (immagino il lavoro di ricostruzione preciso e faticoso dietro la lavorazione del film) deve anche restituire il senso della vita quotidiana fatta di eventi impercettibili come il lavoro nei campi, le donne in cucina indaffarate a preparare un pranzo con i pochi alimenti offerti da una terra coltivata quasi di nascosto o perché razziati da truppe della SS e della Wehrmacht. Se poi la storia assume la prospettiva degli occhi di una bimba di otto anni, diventa ancora più impalpabile, leggera come un soffio di vento o dolce come una madre e una figlia accucciate nell'oscurità del loro letto mentre all'orizzonte bagliori di guerra illuminano il cielo. Al contrario la distanza dagli eventi, uno sguardo sul tempo trascorso, la somma di tante condizioni, sofferenze e soprattutto gli effetti sull'animo di una nazione, di intere nazioni, definiscono con nitidezza l'essenza dell'accaduto, la sua utile ed efficace ricostruzione. L'eccidio di Monte Sole non è soltanto un evento storico da ricordare, ma è anche un simbolo, una tragedia, e raccontarla come ha fatto Diritti significa ricordare non solo questa, ma anche tutte le altri stragi e nefandezze perpetrate contro i deboli di tutte le guerre di ogni epoca. Per quasi un'ora il film si sofferma a descrivere la grama giornata di lavoro dei contadini e le incredibili incongruenze che alimentano una sopravvivenza di frontiera in un periodo storico tra i più bui dell'umanità: la vita che deve andare avanti nonostante il pericolo costante delle pattuglie tedesche e la semplicità con cui donne e bambini condividono i rischi quasi senza rendersene conto («Vai, alle donne non fanno niente»). Ritengo che Diritti sia riuscito a restituire lo spirito di un'epoca con la puntuale "ricostruzione" di due situazioni emotive fondamentali: fiducia/speranza e paura/coraggio. La fiducia, che s'intreccia con la fede, risponde all'illusione che esistano regole rispettate da tutti e soprattutto dal Potere, la speranza risponde all'idea che prima o poi il tempo farà giustizia oppure appianerà ogni cosa. Ma il Potere non è un monolite inattaccabile e perfetto, non è sempre intermediario e mediatore degli interessi di ogni classe sociale e soprattutto, con una guerra in corso, può trasformarsi in forza bruta che scaturisce dal bisogno di ottenere obbedienza nel breve termine. L'obbedienza in effetti si ottiene anche e soprattutto (in tempo di guerra ma non solo) con l'applicazione di una sanzione che mette in moto la paura. La paura delle sanzioni e soprattutto delle ritorsioni è capace di bloccare e impedire qualsiasi volontà di azione e/o reazione La sopravvivenza dei governi democratici è garantita in buona parte anche dalla tendenza dei cittadini ad obbedire, i quali ovviamente condividono più o meno la necessità di rispettare le regole e le sanzioni comminate dal loro mancato rispetto. Il capitano delle SS, rispondendo al parroco («Tutti noi siamo quello che ci hanno insegnato ad essere. È questione di educazione»), definisce bene il presupposto tipico di una forma corrotta che si è arrogata il diritto di garantire un certo modo di vivere: l'educazione. Educazione ovviamente intesa non come rispetto dei diritti altrui ma come ordine, pulizia, regola assoluta della forza e della prepotenza, come logaritmo inattaccabile e pertanto garanzia di ogni azione, frutto di un insegnamento dogmatico. Educazione voluta da un Potere che è soprattutto Macht (potenza) nel senso definito da Weber, per cui il soggetto forte impone la propria volontà al soggetto debole (1). Quando la legittimazione del potere diventa Macht, allontanandosi dall' Herrschaft (potere legittimo riconosciuto anche dal soggetto debole), cadono o possono cadere i presupposti che alimentano il consenso tra cui, appunto, la paura delle sanzioni. Lo sviluppo di queste condizioni risulta ben ricostruito nelle sequenze del film e la tragedia che incombe, quando arriva, non è altro che il risultato logico, prevedibile, di un miscuglio instabile. Per la "Storia" rastrellare e uccidere povera gente vessata è atto nefando e vergognoso, ma non per un Potere che segue regole economico-sociali spesso in contraddizione con l'etica. Ogni Potere tende a giustificare i propri eccessi e a riplasmarsi al fine di rimuoverli, assumendo nuove forme amorfe di "educazione". La fiducia pertanto non salva dal pericolo, anzi porta irrimediabilmente verso la catastrofe. La guerra non ha regole di ingaggio, non si propone di seguire un'etica. Diritti è riuscito a inondare ogni sequenza con queste emozioni, nel mostrare uno spaccato della dura vita di povera gente che si esprime ancora in dialetto. Martina è l'unica a non parlarlo, sia perché i suoi pensieri (lasciati immaginare allo spettatore attraverso il suo sguardo e i suoi movimenti per le case e per la campagna) vengono rivelati come provvisoria voce off, che si trasforma nella voce in della maestra intenta a leggere a Lena il tema di Martina, ovviamente in italiano, sia perché è muta. La prospettiva pertanto non è completamente "dalla parte dei contadini": nessuna voce fuori campo dialettale racconta a posteriori quel periodo storico, mentre lo sguardo della bimba valuta e giudica le azioni dei partigiani: il suo è uno sguardo sofferente che non vorrebbe vedere, non vorrebbe vivere quei momenti e subire quelle esperienze. Gli eventi più drammatici da lei vissuti (il partigiano ferito curato da Beniamina e da Lena, l'uccisione del tedesco da parte dei partigiani, l'uccisione della puerpera) sono mostrati da un'asettica distanza o disturbati da "ostacoli" vari (un muro di pietra, le dita delle mani di Martina che coprono gli occhi), in quanto lo sguardo della piccola non può sostenere tanta atrocità (ha già sofferto per la perdita di un precedente fratellino che l'ha portata al mutismo) e anche per il fatto che Diritti è riuscito a trasmettere gli elementi indessicali del dramma non all'interno del dramma stesso (revolver, mitra e bombe nel momento delle morti violente ad esempio) ma nell'animo della bambina trasformandoli in simboli. In altri termini l'indice, che rivela un presupposto, si rivela attraverso lo sguardo e il comportamento di Martina, ad esempio per mezzo di una sorta di fuga provvisoria. Anche quando rimane coinvolta nella tragedia della chiesa, e si ritrova in mezzo ai cadaveri di tanta povera gente fatta saltare in aria dalle granate, Martina può solo fuggire (come ha sempre fatto). Fugge dai ragazzini che la sfottono per la sua gonna troppo lunga (povertà), fugge dopo aver visto l'esecuzione del tedesco (la pistola puntata alla testa), fugge dopo aver visto cadere a terra sua madre (la fuga davanti a un tedesco armato), fugge da quel luogo di sofferenza (la chiesa con i morti) e fugge dalla casa di chi l'ha accolta perché piena di tedeschi . La corsa (soprattutto quelle bellissime soggettive che trasformano la corsa in un volo radente) è uno stilema preciso e traumatico del film, è l'urlo di Martina davanti a tanto orrore. L'indice è l'effetto di una tragedia imminente, è come se il fumo non fosse l'effetto di un fuoco accesso ma solo un fumo simbolico estrapolato dal contesto. La tragedia è già accaduta, lo sappiamo, ma è anche sempre in accadimento e deve ancora accadere. Là dove invece non è possibile scorgere lo sguardo di Martina (perché non presente) la distanza si attenua, si dissolve e il dramma irrompe nei primi piani degli sguardi delle vittime riprese poco prima di cadere a terra: così durante l'esecuzione nel cimitero e davanti al casolare. Martina non è presente e il dramma adesso è mostrato direttamente ai nostri occhi in tutta la sua tragicità. Lo sguardo a volte si rifiuta di vedere restringendo il campo (il PP di Beniamina a altre vittime che cadono), altre nel trovare espedienti per non mostrare la strage (il tedesco che si rifiuta di sparare su donne e bambini). L'attimo della morte, prima ancora dei suoi effetti (i corpi esanimi delle vittime) esplode nella luce che inonda l'inquadratura trasformandosi in una dissolvenza di pura luminosità, quella luce accecante che sottolinea l'orrore e che i nostri occhi non possono sopportare. È come vedere il sole che irrompe per un attimo tra i boschi oscuri e le case grigie di Monte Sole. È come vedere sorgere il sole dalle fosse comuni che non smettono mai di venire alla luce, ieri come oggi.

(1) cfr. Weber "Economia e Società" (1922) postumo, Donzelli, Roma 2003

Pubblicato su Rapporto Confidenziale

31 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 3/3: Solo citazioni? Due esempi.

Il cinema contemporaneo di qualità ci ha insegnato a giocare con il passato utilizzando filmico e profilmico come pezzi di "reale" di pari dignità. Intendo dire che oggi il cinema, oltre a mettere in opera uno sguardo ontologico sul mondo che ci avvolge, recupera inquadrature e sequenze di grandi film del passato che sono ormai entrate a far parte dell'immaginario collettivo. Da qui ne deriva l'aspetto ludico ossia la tendenza a giocare con l'arte del passato cercando di riproporla in un diverso contesto spazio-temporale. Questi riferimenti a sequenze di vecchi film arricchiscono il testo di significati ulteriori trascinando nel plot anche i propri significati originari e influenzando il "gioco" in atto. Lo spettatore, oltre a divertirsi nel cercare di "indovinare" il contesto originale storico, riesce più o meno consapevolmente a intuire l'esplosione esponenziale di nuovi significati e pertanto il senso globale dell'opera si allarga allo spazio circostante occupando nuovi territori: prende campo l'idea che cercare di definire e "incasellare" il messaggio dell'artista (ciò che vuole dire) sia un'operazione riduttiva. Chi gioca tende anche a trascinare nel game il proprio vissuto, ma soprattutto tende a deformarlo per adattarlo ad una personale visione del mondo. Questi aspetti positivi e interessanti, che meriterebbero un'analisi più approfondita della presente lettura, incontrano però dei limiti. Aumentando i livelli di esposizione al gioco (citazioni e immagini di mondo che si aprono su altre citazioni e immagini) si corrono dei rischi. Il gioco resta stimolante fin quando il giocatore riesce a mantenere ferma la sua attenzione: il sogno lucido e condiviso ha valore solo se la volontà rimane focalizzata e vigile. L'interprete-spettatore corre il rischio, evidenziato da Nolan, di confondersi e di non essere più in grado di operare distinzioni. Il mancato riconoscimento dei vari livelli di realtà equivale a trasferire nuclei semantici da un livello all'altro che potrebbero danneggiare la capacità critica e analitica. Rimanere sempre desti non significa rinunciare al gioco e al sogno proprio perché gioco e sogno rimangono due aspetti fondamentali della vita interiore, carburante utile per affrontare in condizioni ottimali lo “scontro” con i pezzi di una realtà quotidiana che risulta sempre più parcellizzata, caotica, e priva di senso. L'arte deve anche essere gioco, deve decostruire per rimontare ma deve anche evidenziare la falsità dei dogmi e i dubbi che dobbiamo tenere presenti di fronte alle invadenti ricostruzioni e interpretazioni monolitiche degli eventi propinateci dai media controllati dal potere. Con questo non voglio prendere in considerazione un discorso politico sulla società, ma evidenziare come l'arte abbia sempre portato avanti una visione alternativa o differenziata da quella del potere. Questo discorso rimane impreciso perché qui mi interessa focalizzare l'attenzione su altri aspetti. Ma lasciarsi andare credendo al mondo che ci viene mostrato può essere anche una cura peggiore del male. Credere che non esistano alternative al mondo dell'artista è un po' come rimanere schiavi della roulette di un casinò: giochiamo e perdiamo e ogni volta raddoppiamo la posta per recuperare tutti i soldi persi e se per caso dovessimo vincere punteremmo ancora l’intera posta per guadagnare sempre di più ottenendo soltanto una definitiva sconfitta. Questo gioco ci trascina in un incubo senza uscita: ci giochiamo lo stipendio, i gioielli di famiglia, i mobili, la nostra stessa vita. Alcune citazioni di Inception sono particolari perché non badano solo a intrattenere e stupire in quanto contengono come dei “filamenti” critici, dei modelli conoscitivi che tendono a superare l'abisso labirintico del mondo Escheriano in cui rischiamo o abbiamo rischiato di rimanere invischiati nel credere troppo in questo nuovo tipo di immagini seriali, risultato di un cocktail che comprende frammenti di storie e di sogni. Il pericolo di rimanere incastrati in questi mondi fantastici può essere superato con un semplice oggetto (una trottola o qualcos'altro) per ricordarci sempre del nostro corpo addormentato sulla sedia di un cinema che è magari situato in un quartiere dove hanno sfrattato famiglie non abbienti. Due citazioni in particolare mi hanno colpito emotivamente, ma senz'altro ve ne sono altre molto più interessanti.

1) Il ralenti delle esplosioni degli oggetti di Zabriskie Point.



Il ralenti delle esplosioni nell’epilogo di Zabriskie Point, al suono di Careful with That Axe, Eugene dei Pink Floyd, conclude e sottolinea una tragedia compiuta. Gli oggetti della vita quotidiana, ormai divenuti status symbol, indici di ricchezza e manufatti che catturano l’ambizione e il desiderio degli uomini, determinando le differenze tra le classi sociali e le razze, “devono” essere distrutti, annichiliti in una caleidoscopica sequenza di scatenato luddismo. Come ho scritto in uno dei primi post di questo blog, riferendomi a Zabriskie Point: “ il fallout di scatolette, auto, elettrodomestici ridotti in pezzi, obbliga lo sguardo a sostare sull'immagine, a contemplare i colori e le reliquie di un'epoca senza futuro. Ogni pezzo di reale che cola giù dallo schermo è un pezzo non ricostruibile, non assemblabile. La realtà si dissolve nell'immagine stessa ed è irrecuperabile” (1). Il ralenti di Antonioni è un “pensiero” che deve suscitare in noi una riflessione critica o per lo meno una preoccupazione per un mondo che sta perdendo la sua densità. Gli oggetti che esplodono devono essere osservati al ralenti perché solo in questo modo è possibile accelerare e accostare la loro disgregazione fisica alla disgregazione morale di un mondo esploso in mille pezzi: oggetti non intesi come manufatti prestigiosi, ma assimilabili al ciarpame da discarica, lo stesso ciarpame che infesta ogni attività dell’uomo contemporaneo. La coeva arte concettuale analizza questi aspetti cercando di uscire dalla dittatura dell’oggetto (materiali, tele, bronzi, crete) per rifiutare un mercato (aste, quotazioni, investimenti) che riesce ad annichilire la vera fonte dell’arte: l’idea e la riflessione che annullano il manufatto. E il nostro pensiero alla fine coincide con quello di Daria che se ne va con l’auto dopo aver guardato la villa ancora intatta: nulla è accaduto se non nella sua mente. In Inception non c’è tutto questo. L’utilizzo del ralenti, che evidenzia le esplosioni di oggetti e palazzi della via parigina, non è finalizzato alla conoscenza degli oggetti e del loro mancato riconoscimento, ma è orientato a mostrare la spettacolarità di un sogno lucido, teso a stupire lo sguardo che scorre da una visione “naturalistica” (la gente seduta ai tavolini dei caffè) a una visione “stupefacente” (il mondo che esplode senza che nessun passante rimanga coinvolto nella tragedia). Proprio perché gli esseri viventi non ne sono coinvolti, la spettacolarità si attenua, l’uomo rimane escluso dal disastro, non soccombe, è come se vivesse in un’altra dimensione e avesse ancora la possibilità di recuperare la sua umanità. Altrimenti vi sarebbe stata spettacolarizzazione dell'evento nel mostrare l’esplosione e la disintegrazione della carne. Il “filamento” è in questo caso il tentativo di evidenziare anche una violenza che può colpire all’improvviso in ogni luogo e chiunque (terrorismo, rapine, bombardamenti). L’oggetto non è aggredito, non viene messo a nudo e non c’è neppure il tentativo di raccontare la debolezza dell’uomo, ma c’è un incipit, c’è il desiderio di affrontare la surmodernità con determinazione, per non subirla o almeno per tentare di conoscerla senza subirla.



2) Il sottopasso pedonale del ponte Bir-Hakeim di Ultimo tango a Parigi.



Nel film di Bertolucci la sequenza viene mostrata nell’incipit quando ancora Jeanne e Paul sono due sconosciuti al momento ignari che si incontreranno nello stesso appartamento messo in affitto. Entrambi cercano un luogo “nuovo”, un ambiente dove abbandonare la loro vita precedente, ma Paul è lontano, assorto nei propri pensieri, poi sapremo, per la perdita della moglie; sta camminando sulla strada pedonale del ponte Bir-Hakeim. È talmente rapito dalla sua disperazione da non vedere neppure una ragazza che gli passa accanto. La plongé mostra Paul sulla sinistra dell’inquadratura mentre sulla destra è posta la più vicina, rispetto al nostro punto di vista, delle colonne in ferro che sorreggono la sopraelevata di Birk-Hakeim, le stesse insomma che vediamo in Inception. La mdp si avvicina dall’alto fino a mostrarci il capo piegato all’indietro (e che lascia così intravedere parte del volto) di Paul. Le mani portate agli orecchi per non sentire il frastuono del treno che sta passando poco più sopra e l’immediato urlo di Paul sono indizi di una disperazione in atto sottolineata da uno splendido PP di Paul sempre intento a tapparsi le orecchie mentre sta abbassando il capo. Svanito il frastuono comincia a camminare lentamente sulla passeggiata pedonale. L’immagine mostra Paul ripreso in PP e il fuori fuoco delle colonne del Bir-Hakein, nonché, a distanza, la figura intera di una donna, ancora immersa nello sfuocato, che si sta avvicinando. Quindi un campo lungo del ponte e poi Paul che è stato raggiunto dalla donna: lui sembra stia per piangere, lei si tiene il cappello con la mano destra; passandogli accanto, si volta lentamente per guardarlo; poi riprende a guardare in avanti fino ad avvicinarsi alla mdp: si tratta di Jeanne, una giovane donna apparentemente tranquilla. Adesso la situazione si è rovesciata: Jeanne è ripresa sulla sinistra in PP mentre Paul rimane indietro allontanandosi nel fuori fuoco del campo lungo posto sulla destra dell’immagine. Questa breve sequenza di un solo minuto, completamente senza dialoghi, è piena di segni che inducono lo spettatore a riflettere: l’uomo ha un problema grave, è talmente disturbato da non sopportare il rumore del treno che scorre in alto sui binari, talmente fuori “fuoco” da non vedere una bella ragazza che si volta per guardarlo. È un uomo di mezza età che vuole solo poter morire. Mentre Jeanne, la sua apparente fioritura, è ancora sfumata, distante. Per il momento il nostro sguardo non riesce quasi a scorgerla nell’indistinta passeggiata pedonale, nella selva dei piloni che sorreggono la sopraelevata. Paul è sulla sinistra finché non viene affiancato dalla donna. Adesso è Jeanne a entrare nella zona nitida dell’immagine mentre Paul rimane indietro, scomparendo quasi nell’indistinguibile selva delle colonne in ferro. Pare trasandato nel vestire, o meglio è ben vestito, ma i suoi abiti sono anch’essi fuori sintonia, indossati male; nel complesso rendono l’idea di uomo perduto. Lei al contrario pare sofisticata, si tiene un cappello con la mano per timore di vederselo portare via dal vento; indossa vestiti raffinati, forse appartengono a una donna di buona famiglia borghese, che non può avere niente in comune con l’uomo. Eppure… eppure si volta, lo ha visto; quell’uomo deve sembrarle così strano. La passeggiata dell'incipit è la metafora del film: nella prima parte Paul conduce il gioco, comanda la donna con la “violenza” della sua disperazione, trascinandola all'interno di un rapporto amoroso al di là di ogni limite; in seguito Jeanne lo raggiunge, lo supera, accetta di “subire” per poi imporre il suo stile. La sequenza (bellissima) è una anticipazione sintetica del loro rapporto che sta per nascere, un rapporto d’amore e morte, disperazione e deformazione del senso, come nei quadri di Bacon su cui scorrono i titoli di testa. Ogni aspetto della sequenza presuppone lo sguardo attento e vigile dello spettatore, il suo senso critico, la sua capacità di rimanere desto al fine di comporre il quadro. In Inception non è così; innanzi tutto vi sono dei dialoghi, soprattutto le domande di Cobb e la sua preoccupazione per il fatto che Ariadne abbia ricostruito un pezzo di realtà all’interno di un sogno; poi vi sono alcuni passanti, proiezioni convergenti del subconscio, che possono diventare pericolosi, ostacoli imprevedibili che distraggono lo sguardo, lo deviano su altre rotte al fine di catturare i sensi dello spettatore; infine sopraggiunge Mal, si materializza per uccidere Ariadne che si sveglia di soprassalto. La passeggiata sul passaggio pedonale non è la medesima e lo spettatore può permettersi molte distrazioni. Abbiamo già avuto modo di vedere Mal che in questa sequenza appare anche nel ricordo di Cobb; infatti mentre lui cammina dietro ad Ariadne, sulla passerella pedonale del ponte Bir-Hakeim, rivede se stesso abbracciato a Mal: sono entrambi appoggiati a una balaustra con vista sulla Senna proprio ai lati dello stesso sottopassaggio pedonale del Ponte Bir-Hakeim. Un ricordo all’interno di un sogno. In Ultimo tango a Parigi non siamo ancora stati informati dei motivi della sofferenza di Paul , non conosciamo le implicazioni e neppure Bertolucci è tentato di mostrare il ricordo di un tempo passato tra Paul e sua moglie, perché vi sono già troppi dati sulla scena, tutto è lasciato al montaggio e all’espressività degli attori: Paul e Jeanne non si conoscono e non dialogano, tutto deve essere estrapolato dallo sguardo vigile, critico. In Inception lo sguardo deve essere accalappiato, deformato, trascinato nel gorgo senza fondo. Cobb dapprima si trova dietro Ariadne e poi la supera, ma non basta, l’equilibrio viene spesso rotto dai rispettivi controcampi (prima Ariadne davanti a Cobb, rimasto indietro, inquadrati con carrellata a precedere, poi ripresi dal dietro con carrellata a seguire e di conseguenza Cobb “davanti”, più vicino alla mdp, e Ariadne “dietro”). La sequenza è frastagliata, piena di indizi che non sono veri indizi, perché non rimandano a una storia o a un “qualcosa” che accadrà, non informano ma affermano. Questa sequenza potrebbe vivere di vita propria, essere una sorta di cortometraggio in cui un uomo segue una donna e questa donna poi viene uccisa dalla moglie gelosa dell’uomo credendoli amanti. Paul e Cobb hanno perso entrambi la moglie ma mentre Paul esprime la sua disperazione nel mondo, Cobb l’ha apparentemente codificata in un labirinto mentale: il labirinto di Paul è nel fuori, all’esterno, lascia indizi per ricostruire gli eventi, educa lo spettatore a raccogliere la sfida. Nel contempo la disperazione di Cobb è interiorizzata, abbandonata nello stupore tutto postmoderno che deve soprattutto catturare l’attenzione. Nel primo caso vi sono i segni per sperimentare un’emozione, nel secondo l’emozione è fine a se stessa, ingigantisce per trascinarci nel carosello. Ma ritengo però che in Inception vi siano anche dei “filamenti” che escono dal manierismo per (o tentare di) stabilire un altro status della visione: quei “filamenti” sono i piloni che definiscono una location e soprattutto la vita che pullula nella prima parte della sequenza (prima della rottura dello specchio le vie erano deserte), i passanti che restituiscono il senso di un’apparente, eppure ricostruibile, “normalità”. In altri termini vi sono indizi che permettono di capire il rapporto tra i due “amici”. Anche il rapporto è a tre come in Ultimo tango e c’è una moglie defunta ma mentre nel film di Bertolucci il senso del film è raccolto e si incarna nei movimenti, nei vestiti e nelle espressioni dei protagonisti (non nel dialogo, non nel pensiero – focalizzazione esterna) in Inception ci è data la possibilità di controllare tutto (focalizzazione zero) di prevedere tutto senza alcuno sforzo; eppure qualcosa di impalpabile sfugge, qualcosa di vago, di indefinibile: nel mondo sur-moderno oltre alla liquefazione dei rapporti ci sono appigli per resistere, per ricostruire un evento ancora da conoscere basandosi su semplici dati: Ariadne sta a Cobb come Jeanne sta a Paul ma ad un livello diverso, più morbido insomma, più delicato, più abbozzato. Questa passeggiata è allo stesso tempo onirica, coinvolgente, finalizzata a trascinare dentro il Luna Park, ma allo stesso tempo cerca espellere lo spettatore dal gioco, rimettendo tutto in discussione. In altri termini: è solo una coppia che sta litigando? E’ solo un uomo che corre dietro a una donna? È intollerabile vedere il primo piano di una donna apparentemente indifferente e soddisfatta seguita da un uomo che sembra preoccupato per lei. Estrapolando questo brevissimo spezzone di sequenza (circa quaranta secondi, anche meno se si escludono i due flash di Cobb che si vede insieme alla moglie Mal nello stesso luogo) potremmo quasi trovarci in un film della Nouvelle Vague fino almeno al momento in cui i passanti circondano Cobb e Ariadne. La spinta centrifuga che cerca di espellere lo sguardo è molto forte, non densa, ma decisa, un accenno che tracima e indica un evento da venire.


1) Mi si scusi per l’autocitazione, ma tenevo a specificare che queste parole sono state riprese pari pari da una delle mie prime recensioni postate su questo blog riguardante Zabriskie Point e che risale ormai al luglio del 2007.

20 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 2/3: Effetti di reale "onirici".

Premessa

L'automatizzazione del vedere quotidiano ha reso gli oggetti, gli avvenimenti, i paesaggi, forme imprecise della vista, apparati non analizzati ma a mala pena "sentiti", riconosciuti. "Dal processo di algebrizzazione, automatizzazione dell'oggetto, risulta una più ampia economia delle sue forze percettive: gli oggetti o si danno per un solo loro tratto, per es.: per il numero; oppure si realizzano come in base ad una formula, anche senza apparire nella coscienza" (1). La percezione prosaica della vita quotidiana, la routine, riduce gli oggetti (e spesso anche le persone) a mero rumore di fondo della nostra esperienza, i quali svaniscono nel nostro fuori campo senza che nemmeno ce ne accorgiamo. "Così la vita scompare trasformandosi in nulla. L'automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra" (2). Per Šklovskij lo scopo dell'arte è di trasmettere una impressione dell'oggetto come «visione» e non come «riconoscimento» e pertanto "[...] procedimento dell'arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione dal momento che il processo percettivo, nell'arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato [...]" (3). Il suo discorso è riferito all'arte in generale, ma ritengo che sia interessante per introdurre una premessa che ritengo importante: bisogna tracciare una netta linea di distinzione tra la realtà del sogno con le sue immagini più o meno evanescenti (ma questo potrebbe valere anche con la nostra percezione della realtà per cui la nostra mente estrae dal reale ciò che può, durante l'attimo, servire più o meno all'economia della propria vita quotidiana) e il procedimento di costruzione di un film che necessita di dati certi e concreti. E quando il cinema si interessa del mondo onirico non fa altro che focalizzare l'attenzione sulla peculiarità della visione, utilizzando una precipua grammatica filmica (messa in scena, ripresa, montaggio, suono) riconducibile al mondo onirico: sbalzi improvvisi dell’illuminazione, effetti speciali, movimenti rallentati o velocizzati, assenza di gravità, effetto flou, ecc., nonché movimenti di macchina e stili recitativi che evidenzino l'eccezionalità dell'evento. Il sogno, come spesso i flash-back, può essere in bianco e nero oppure reso con la correzione del colore in fase di post-produzione e con filtri (es.: un filtro flou) o ricostruendo con la computer grafica mondi onirici sui generis. Ma in ogni caso una sequenza onirica nel cinema, a prescindere dall'obiettivo che si prefigge (stimolare la percezione o stupire o spaventare) è sempre una sequenza da trattare e analizzare come qualsiasi altra sequenza. Credo che non esista niente di più postmoderno del mondo onirico, nel senso che quando sogniamo non siamo in grado di ricostruire eventi, organizzare percezioni, gestire mappe della realtà spesso utilizzate persino nella PNL aziendale (4): le storie si affastellano l'una sull'altra, si neutralizzano, si moltiplicano; il paesaggio varia in continuazione davanti ai nostri occhi; ci troviamo alla guida di un'auto eppure siamo a piedi; in un attimo una ragazza si trasforma in donna; i dialoghi sono stranamente frantumati, partono dal nulla e finiscono nel nulla... del risveglio. Può capitare che un oggetto o più oggetti prendano forma, si fissino sulla retina in tutta la loro perfezione; può capitare che questi oggetti risultino manufatti talmente perfetti da mettere in evidenza la loro efficacia pittorica. Tempo fa mi capitò di sognare di entrare in un bellissimo bagno pubblico: sulla destra una finestra luminosa sovrastava un mobile pieno di oggetti che non riuscii a identificare, perché nel sogno sentivo il bisogno di "utilizzare" il bagno e pertanto stavo cercando il w.c., situato sulla parte opposta: si trattava un normale vaso sanitario di ceramica bianca, molto pulito, lucido, con il sedile alzato. Per un attimo percepii il piacere di potermi liberare fin quando sul fondo del vaso apparve uno straccio di cotone per pavimenti. E a questo punto mi resi conto dell’abbagliante bellezza di questo umile oggetto: riuscii a vedere la trama delle cuciture, con i preponderanti fili bianchi intrecciati a quelli verdi e rossi, ma la nitidezza dei particolari era incredibilmente separata e allo stesso tempo unificata alla maestosità dell'insieme. Non mi trovavo davanti a un oggetto umile e dozzinale, ma davanti ad un'opera d'arte. In pratica mi domando: possibile che un sogno evanescente e vago, senza storia e senza "riconoscimenti" sia stato in grado di restituirmi una visione artistica? Giuro che durante la veglia non mi sono mai soffermato a osservare uno straccio. Ma cosa c'entra tutto questo con il film di Nolan?

Oltre una visione ludica.

Il mondo di Nolan , il suo sogno multiversale che ci trascina nei livelli via via più profondi di un videogame con vite perse ma "sempre" recuperabili, mantiene desta la percezione narrativa e un certo grado di trasparenza; e in quanto movie-action intende anche trascinare nel limbo post-moderno un pubblico che scelga di lasciarsi trasportare dall'avventura mimetica in atto, sapendo di essere in un sogno alla terza potenza (ad ogni livello il tempo si dilata), ma sapendo anche di "vivere" un'emozione "sensibile". In questo, e per questo, Inception è uno dei tanti film post-moderni (anche se ormai sull'evoluzione attuale di questo termine ci sarebbe molto da discutere, ma questa è un'altra storia), perché lo sguardo sul film è soprattutto ludico (5) in quanto il senso estetico domina sul senso critico, e perché "[...] governato dal piacere della ri-creazione, che significa unione di gioco e citazione, di divertimento e deja-vu [...]" (6). Eppure in un film che pone il "sogno" in primo piano trascinandoci in un modo "irreale", chiedendoci allo stesso tempo di immaginarlo reale col sospendere il senso critico e/o etico, vi sono aspetti e stilemi che recuperano un modo di sentire più critico o, a seconda del punto di vista, superano l'impasse di un atteggiamento conoscitivo sospeso nel gioco e nel puro divertissement. Ed è curioso che Nolan abbia scelto (ma questi aspetti di superamento sono presenti anche in Memento, in The Prestige e nel Cavaliere Oscuro) (7) una sceneggiatura (ma teniamo conto che pensava a questo da molti anni) che predilige il mondo onirico e con esso il mondo della visione sensibile e, se il sogno diventa lucido, ludica.
Vediamo ad esempio la sequenza in cui Cobb insegna ad Ariadne a costruire l'intelaiatura dei sogni mentre si trovano in quella che sembra una via parigina seduti al tavolino di un bar. Consideriamo che Ariadne sta sognando senza rendersene conto e lo crede finché Cobb non le rivela la verità, trascinandola pertanto in un sogno lucido. Per renderla consapevole di vivere in un mondo onirico, le mostra l’esplosione “al rallentatore” di strade, oggetti e palazzi nello stesso istante in cui rimangono tranquillamente seduti senza subire danni, perché non si trovano nel mondo reale. In seguito Ariadne, camminando per le vie parigine, piega parte della città sovrapponendola alla parte che sta in basso; adesso sopra i tetti dei palazzi pullula la vita di un'altra città, una sorta di riflesso della Parigi onirica vista allo specchio. Ma nella rappresentazione onirica si tratta semplicemente del fatto che Ariadne ha piegato in due la città come si piega un lenzuolo su sé stesso. In questo spazio piegato la luce (ricordiamo che siamo in un sogno) non si attenua nonostante la "scomparsa" del cielo azzurro e inoltre è possibile varcare il confine ritrovandosi nella parte "superiore" della città stessa. In seguito Ariadne (adesso il cielo è "libero") tira a sé due porte a specchio che, dopo essere state aperte l'una di fronte all'altra, creano in tal modo un classico effetto Droste; infine solo dopo che Ariadne ha rotto gli specchi, ci accorgiamo di essere "entrati" in un paesaggio "reale", ossia nella passeggiata sotto la sopraelevata della metropolitana sul ponte Bir-Hakeim. In effetti in un primo momento durante la visione domina un senso di stupore e meraviglia nel rispetto di un reflusso manierista ormai tipico del cinema contemporaneo: città che si capovolge, paesaggi che si trasformano sotto i nostri occhi; ma è anche vero che il cinema post-moderno ci ha abituati a vedere simili trasformazioni, e non credo che "certe" sequenze costruite con la computer grafica (o anche con modellini in studio) possano da sole influenzare il gradimento di un pubblico abituato a un certo tipo di cinema. Piuttosto alcuni aspetti della sequenza tendono a dominare sull’idea di essere in un mondo onirico: in particolare la vita parigina dei bistrot e dei caffè, i suoi tetti caratteristici, la passeggiata (il meraviglioso che si trasforma nel reale) di Bir-Hakeim. I movimenti di macchina inoltre sono sufficientemente moderati nel senso che dominano campi e controcampi (Ariadne e Cobb seduti al bar) e brevi carrellate a seguire e a precedere (quando camminano per le strade di Parigi). Quindi, nonostante l'ambientazione onirica, i modi e i risultati delle riprese sono prettamente (diciamo per adesso) post-classicistiche. Non vi sono riprese da angolature particolari o riprese di macchina che portano lo sguardo in volo per le strade o cambi improvvisi e violenti di primi piani alternati a campi lunghissimi. Lo sguardo non accelera velocemente, dopo aver individuato i nostri eroi, da un campo lunghissimo "volando" velocissimo fin a mostrarci magari una lacrima in primissimo piano che esce da un occhio. Le riprese sono logiche nel senso che rispettano le leggi della “fisica” di un cinema più classico. Ovviamente questo non è sufficiente per definire Inception un film non post-moderno, perché gli stilemi di detto cinema ci sono tutti (e come sarebbe possibile oggi fare un passo indietro?), ma è anche curioso notare come il cinema di Nolan e in particolare Inception esprima una visione così legata all'effetto di reale, nel senso che lo straniamento slovskiano viene ottenuto non attraverso un modo di riprendere virtuosistico, ma tramite un'attenta ricostruzione del mondo "reale", con le sue strade e i suoi oggetti ben definiti e addirittura riconoscibili come luoghi del profilmico. Si potrebbe obiettare che la cura dei particolari si trova anche in tanto altro cinema postmoderno, anche in quello più dozzinale e di maniera, ma è anche vero che Nolan sembra porre l'attenzione su un modo di vivere la città che somiglia molto a quello del cinema moderno degli anni settanta. Questo non sempre viene evidenziato nel film, ma vedere un mondo determinato logicamente immerso in una narrazione debole con uno stile che a volte sembra superare lo stile mimetico-realista per approdare su lidi più autoriali-modernisti, la dice lunga sulle capacità di un autore che sembra intenzionato a superare l'impasse di un post-moderno ormai cooptato in un cinema sempre più surmoderno (8)

Il limbo

Il sogno dovrebbe acquisire la sua massima intensità nel limbo ossia il luogo in cui si può invecchiare pur rimanendo giovani (luogo dov'è possibile trascorrere una vita mentre il corpo dormiente rimane giovane nella sua alcova). Il limbo pare un luogo meraviglioso. Una spiaggia, le onde che carezzano la sabbia (o l’alta marea che s’infrange sulla scogliera dei palazzi che crollano), un uomo e una donna che si amano, il loro idillio, sono i più consumati luoghi comuni della storia non solo del cinema ma dell'immaginario collettivo, le più usuali e tipiche proiezioni che ciascuno di noi prima o poi ha sviluppato pensando a un mondo esotico e allo stesso tempo esoterico. Eppure questi semplici topoi dell'immaginario, oggi più che mai realizzabili nel mondo reale: un volo low cost, un bungalow a poche migliaia di euro per sette giorni ai Caraibi o a Papete e un'anima gemella da amare, sono oggi più o meno alla portata di tutti. In fondo il limbo più che un sogno potrebbe essere la rappresentazione di una realtà idealizzata, ossia un luogo esotico come punto d'arrivo di un viaggio organizzato in agenzia turistica senza la sua organizzazione preliminare (agenzia, biglietto aereo, carte d’imbarco, passaporti, ecc.). Detto questo non intendo banalizzare il livello estremo del mondo onirico creato da Nolan, piuttosto mettere in evidenza che in fondo la ricerca più profonda, più intensa, più onirica immaginabile, collimi con la semplicità di una vita slegata dal "logorio della vita moderna" (9). Il limbo è l'esotico idealizzato ma anche e sopratutto la ricerca di una soluzione indelebile, di una città personalizzata, ideale, ma anche usufruibile. Poiché non riusciamo più a connetterci con il mondo urbanizzato e disumanizzato, troppo distante e lontano dalla nostra natura più profonda, ci rifugiamo in un limbo dove poter liberamente realizzare la nostra idea di città. Ma la nostra personale città ideale risente degli influssi di una realtà meno appagante. La città del limbo, disabitata e senza auto, somiglia in maniera impressionante ad una metropoli (una sorta di Venezia surmoderna), la casa dei due amanti (Cobb e sua moglie Mal) è più “naturale”, più distante dal grattacielo tecnologico proiettato verso l’alto, ma ad ogni modo il mondo onirico del limbo ripete una certa fluidità come costante della vita contemporanea (perdita di ogni punto di riferimento, amore liquido, vaporoso, rapporti interpersonali ridotti ai minimi termini, precarietà come nuova religione economico-morale: lavoro, amore, famiglia, viaggio, locus, ambiente, idee, ecc.). Il limbo non è lo stadio più profondo del sogno, né il luogo più distante in cui sia giunto l’onironauta, ma è rappresentazione del bisogno di mondo dell’uomo perso e smarrito a caccia di un’eternità di tempo per recuperare il suo posto nella precarietà del reale. L’immagine del limbo di Nolan non è una vaporosa, artistica, evanescente immagine proiettata verso la conoscenza dell’inconscio o almeno verso anche una sua parziale percezione (vedi ad esempio il mondo onirico di Io ti salverò di Hitchcock in cui si trovano echi del cinema surrealista degli anni venti), ma la consapevole ricostruzione di un immaginario del quotidiano da cui non è possibile affrancarsi se non generando nuovi postulati, anche propedeutici, al fine di riformare un certo modo di “vivere” il cinema (e l’arte in generale) anche a costo di perdersi nell’eternità, senza possibilità di ritorno, in un luogo che è ormai simulacro della massificazione della società globalizzata. Se vedere significa anche un po’ conoscere e ricostruire con consapevolezza un percorso di conoscenza e interazione con l’arte, il cinema a cui Nolan sembra ambire è quello di una modernità a-surmoderna, una sorta di neorealismo al quadrato in cui per “quadrato” intendo l’andamento esponenziale di un “differente” modo di percepire il logorio continuo e inenarrabile del nostro inconscio.


(1) cfr. Vistor Šklovskij, L'arte come procedimento, Mosca 1929. Ho ripreso queste citazioni da: Luigi Rosiello, Letteratura e strutturalismo, Zanichelli Bologna 1974, p. 51.
(2) Ibid.
(3) Ivi, pp. 51-52
(4) Programmazione neuro linguistica.
(5) Cfr. Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci editore, Roma 2010. Interessante a proposito è la lettura del paragrafo "Tra moderno e postmoderno" (pp. 131-145).
(6) Ivi p. 144. Ho decontestualizzato la citazione di Buccheri riferita in particolare ad un paragone tra il cinema moderno rappresentato da Blow-up di Michelangelo Antonioni e quello post-moderno rappresentato da Blow-out di Brian De Palma. Intendo sottolineare che per me il primo è un capolavoro e il secondo un film di grande levatura, quindi due grandi film e pertanto il termine "ludico” non ha per me (come mi pare di aver capito non l'aveva neppure per Buccheri) una connotazione negativa. Mi sono solo servito di questa distinzione perché mi pare di avere scorto in Inception qualche "germe" di una "svolta" o, a seconda dei punti di vista, un "ritorno", di un cinema post-moderno che mi sembra in questi ultimi anni (ad esclusione di alcuni film di grandi registi) tenda ad atrofizzarsi.
(7) Per Memento e The Prestige mi riservo di rivedere i due film perché li ho visti una volta sola anni fa.
(8) cfr. Augé M., Non-liux, 1992, trad. it. di Rolland D., Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Eléuthera, Milano.
(9) “Contro il logorio della vita moderna” era una celebre frase di una pubblicità dell’amaro Cynar reclamizzato in diversi spot televisivi (Carosello) negli anni sessanta interpretati da Ernesto Calindri..

7 ottobre 2010

Inception (Christopher Nolan, 2010) 1/3: Sogni lucidi.

L'orrore non sorge dall'acquisita consapevolezza del rischio che si frappone al raggiungimento di uno scopo: sapere di trovarsi davanti a un film, anche se coinvolti emotivamente, attenua la paura, allontana l'angoscia, trascinando lo spettatore, sempre consapevole dell'innocuità del film (1), nel godimento estetico. La sua passività nell'oscurità della sala e il rilassamento di un corpo adagiato in una comoda poltrona, avendo molto in comune con le condizioni del sogno, agevolano la percezione realistica, lo spettatore "[...] sa di assistere a uno spettacolo inoffensivo, mentre il sognatore crede nella realtà assoluta del suo sogno assolutamente irreale" (2). Lo spettatore riconosce l'irrealtà del film anche se viene percepito oggettivamente, mentre al contrario il sognatore crede profondamente nell'irrealtà del sogno. In un caso non c'è credenza in un mondo immaginario costruito con materiale preso dal mondo reale, nell'altro si crede in un mondo completamente irreale (3). Ma se il sogno diventa lucido l'orrore può essere controllato, la paura trasformarsi in piacere estetico e quindi in creatività artistica. Essere consapevoli di vivere un sogno significa riuscire a manipolarlo cimentandosi a costruire un mondo. L'idea, il desiderio di viaggiare con la mente nell'avventura, come nel meccanismo di una cultura più o meno remota, nasce nello stato di veglia. In Inception accade proprio questo, ma accade anche proprio il contrario di questo. In altri termini Cobb, come i suoi compagni di viaggio, è un sognatore lucido, un onironauta, e pertanto trasforma e deforma la meccanica del "reale" onirico (mi si scusi l'ossimoro) a suo piacimento anche se Nolan riesce a inserire Mal, espressione del senso di colpa di Cobb, come ostacolo in grado di demolire l'architettura dei paesaggi e dei mondi "impossibili". Accade nel plot che il gruppo dei sognatori abbia acquisito consapevolezza di essere navigatore dell'onirico e addirittura di "iniettare" un'idea nella mente di Robert Fischer . Un progetto di paesaggio, così come la trasformazione del volto di Eames nel volto di Peter Browning, determinano il sogno inconsapevole (o quasi) di Fischer, ossia la credenza, per dirla con Morin, che ci si trovi coinvolti in una realtà assoluta ma irreale. L'idea pertanto non rappresenta la consapevolezza dell'onironauta, ma la capacità di lasciarsi trascinare più o meno consapevolmente nei meandri narrativi di un sogno a più livelli creato da un artefice. Metafora del cinema, ma anche percorso che conduce da un'ignara immersione nella narrazione (trasparenza del film) alla sua più densa opacità (strumenti di costruzione, materiale, progetti). Il cinema è anche lucidità e conformazione dell'irreale al reale. Gli onironauti di Inception sono parte del cast che ha girato Inception e il più o meno ignaro Robert Fischer potrebbe essere metafora dello spettatore manipolato dalle immagini, dal plot, e dalle emozioni indotte. Ma il fatto è che noi spettatori non siamo ignari sognatori, perché sappiamo di assistere ad uno spettacolo "inoffensivo" e irreale, sappiamo di vivere un "sogno" e pertanto esprimerei la seguente dipendenza funzionale: lo spettatore sta al film come il sognatore lucido sta al suo sogno. Ad un altro livello, a pensarci bene, neppure Fischer è un sognatore ignaro (di quelli che si spaventano perché credono nella verità del sogno) e Nolan lo sa e ce lo dichiara in continuazione (gli "ostacoli" che i nostri onironauti incontrano per far aprire la cassaforte al terzo livello): Fischer-Murphy è anch'egli un attore del cast e recita per noi sognatori lucidi (solo al cinema però). Non voglio proporre un'equivalenza tra spettatore seduto sulla poltrona, sempre predisposto a recepire mondi fittizi e a credere in essi pur avendo sempre coscienza della propria paralisi temporanea (come nella fase REM del sonno), e sognatore lucido del suo stesso sogno capace di trasformare materiali (case, paesaggi, persone) e storie (ridurre un mostro a oggetto o neutralizzare eventuli ostacoli), perché nel primo caso prende corpo la capacità critica (il film mi ha emozionato, mi è piaciuto, non l'ho capito, ecc.) nel secondo la capacità artistica (sono io che plasmo il materiale e produco mondi). In Inception accade però anche il contrario di tutto questo: ossia, Cobb e il suo gruppo, in quanto personaggi interpretati da attori, non sono sognatori lucidi ma rappresentazioni psichiche, immateriali, sono ombre proiettate che navigano in mondi costruiti dalla computer grafica (o da ricostruzioni in studio), sono pseudo onironauti perché qualsiasi personaggio di un film in fondo è onironauta del suo film (e questo vale anche per il cinema più trasparente come quello classico). Ma, e questo mi ha entusiasmato non poco, Nolan sa anche questo. Non si è accontentato di girare un film sul sogno (come ne sono stati fatti tanti) ma sul non-sogno. In altri termini Nolan, sequenza dopo sequenza, tiene a mostrare l'incredibile "verosimiglianza" del mondo onirico di Inception con il mondo reale. Parigi, anche se rigirata su se stessa come un sandwich imbottito, è sempre così terribilmente Parigi. L'effetto droste degli specchi aperti sul mondo da Ariadne dà forma al sottovia della sopraelevata del Pont de Bir-Hakeim. Le macchine viaggiano per le strade come macchine vere e anche se improvvisamente appare un treno questo compie comunque il suo dovere di treno. La splendida determinazione di questa volontà viene raggiunta nel limbo, il luogo che dovrebbe essere il più onirico ma che al contrario è il più filmico di tutti nel senso che è quello che affascina di più noi spettatori adattati a viaggiare nei vari livelli. Ritengo che il limbo, la parte più interessante e notevole di un film che vuole ricostruire storie e ambientazioni oniriche, sia il tentativo (riuscito) di riformare l'oggettività del mondo reale all'interno dell'irrealtà del film, col mostrare la frantumazione di un mondo (quello contemporaneo) che non siamo più in grado di tenere in piedi, un mondo in cui si invecchia velocemente, in cui i giovani sono vecchi e che pare non voler morire mai. L'idea pertanto è creata e trascinata dentro le nostre menti di spettatori pronti e adattati a navigare all'interno del film, coinvolti nell'estrema vivacità di un post-modernismo all'apice del suo fulgore, ma anche consapevoli di sognare da svegli. Come afferma Morin più "[...] vicino al cinema è il sogno da svegli, anch'esso a cavallo fra la veglia e il sogno [...] pur vivendo amori, ricchezze, trionfi, continuiamo a essere noi stessi, dall'altra parte del sogno, sulle prosaiche rive della vita quotidiana"(4).

(1) cfr. Edgar Morin, Il cinema o l'uomo immaginario, Feltrinelli, Milano 1982.
(2) Ivi p. 154
(3) Ib.
(4) p. 155.

27 settembre 2010

City Island (Raymond De Felitta, 2009)

City Island è un gioco in atto a cui è possibile partecipare solo omettendo l’importanza della confessione (ognuno nasconde qualcosa che non vuol far sapere agli altri). Ma accade invece che la confessione si affermi sequenza dopo sequenza come scioglimento positivo dell'intreccio senza che le sue potenzialità intrinseche escano alla luce, restando nel vago e nell'indeterminato come unico e definitivo mezzo di sviluppo narrativo, anziché divenire motivo di analisi e conoscenza. Sono soprattutto due i momenti in cui la struttura scricchiola , si allenta, rischiando di far precipitare l’intero film nel cliché: assunzione della menzogna come momento fondante dello spannung e ascensione del figlio nei piani alti del gradimento attualizzato. Il gioco del poker è un topos meno nobile del gioco della fiction (la scuola di recitazione) ma serve a dare valenza positiva alla menzogna, poiché dopo tutto mentire entro certe regole indotte dal senso comune (o meglio, dal senso determinato dai media) rientra nei limiti di garanzia di una performance omologata; nel momento in cui Vince Rizzo nasconde alla moglie le sue lezioni di recitazione, giustificando le uscite serali con il gioco del poker, non solo non altera, né sconvolge il valore normalizzato di un'etica attestata sulla medietà, ma trasferisce l'atto "negativo" e potenzialmente pericoloso nel limbo delle cose buone e rassicuranti; infatti il gioco del poker (menzogna evidente e indiscutibile che persino sua moglie Joyce riconosce come tale) acquista connotazioni diverse in base al valore dato all'altra espressione dell'equazione. Il poker che nasconde un incontro d'amore non è la stessa cosa del poker che occulta una scuola di recitazione. Scelta non lungimirante, perché se il poker avesse mantenuto lo stesso valore costante in entrambi i casi (o positivo o negativo) a mio avviso il film ne avrebbe guadagnato in originalità. Steven come "catalizzatore" del racconto non è solo un personaggio-funzione fallito per via dell'eccessiva semplificazione caratteriale (riflessivo, galante e addirittura capace di resistere alla tentazioni - insomma il personaggio perfetto di tanti film di tendenza), ma è pure personaggio-accadimento necessario per ordinare e dipanare tutte le linee narrative non completamente funzionali, sebbene non idoneo a far convergere i numerosi motivi enucleati nel plot (tradimento, passione, originalità, obesità come desiderio, pole dance come momento più ludico che espressione di sofferenza e di una scelta dolorosa, ecc.). In effetti, pur non mettendo in dubbio le scelte narrative adottate che "riducono" un carattere a un'algida funzione (bisogno di un fattore esterno che rompa l'equilibrio instabile dell'incipt per restaurare un altro equilibrio più rassicurante per la middle class americana ma non solo), ritengo che sarebbe stato più utile trovare un altro tipo di funzione restauratrice da trovarsi nel senso stesso del segreto, ampliando e approfondendo magari il personaggio di Steven e innalzandolo al rango di ulteriore "promotore" di instabilità. Eppure, nonostante questo, il film funziona perché il valore del segreto in sé, come momento fondante di un ragionamento e di uno sviluppo narrativo, acquisisce continuamente nuove valenze. Un segreto non è tale se non lo si racconta agli altri e durante l'incontro-happening col professore di recitazione, con conseguente formazione di una coppia (Vince e Denise) allo scopo di liberarsi dei propri segreti, sostiene la bellezza del film proprio nello stabilire un nuovo livello di "verità", che non equivale alla "rivelazione del segreto", ma al suo stesso evolversi da dogma (paura di Vince nel rivelare un suo fallimento come attore, i tre bimbi che Denise ha abbandonato, ecc.) a principio di costruzione, costantemente fluido e in movimento e pertanto non definibile (la verità non è solo il traguardo di un nuovo equilibrio raggiunto dalla famiglia Rizzo, ma è soprattutto il percorso seguito lungo il quale è stato possibile conoscere la metamorfosi di una famiglia). In effetti, per dirla con Sant'Agostino “[…] Signore, pure così mi confesso a te per farmi udire agli uomini” (Le Confessioni, 10, 3, 3), Vince si confessa con Denise per rivelare al mondo il suo segreto poiché come sarebbe possibile l’esistenza di una verità sottaciuta? Senza questa rivelazione (tra l'altro poco incisiva in un film per lo più non focalizzato), questo City Island non avrebbe avuto senso e probabilmente sarebbe stato un'altra cosa. Dal momento che comunico di nascondere un segreto, già navigo in un canale che sfocerà nel racconto del mio segreto, con la conseguenza di non avere più segreti dal momento in cui affermo di nascondere qualcosa nell'anima. Lasciare insomma indizi per portare alla superficie le nostre turbe è l’espressione del bisogno di condividere la malattia che ci soffoca quasi come per cercare una boccata di ossigeno. Questa boccata arriva con una delle più belle sequenze di Rizzo che imita Marlon Brando durante un provino, trasformando un banale esame nell’ecfrasi tutta personale di Andy Garcia intento a imitare il grande interprete del Padrino attraverso la voce impacciata ed emozionata di Vince. Una splendida sequenza. City Island un po' meno.

19 settembre 2010

Lebanon (Samuel Maoz, 2009)

Il mondo esterno visto attraverso il mirino di un carro armato può essere qualsiasi cosa: una città rasa al suolo dall'aviazione israeliana, con le rovine, i morti, ma anche con i poster attaccati ai pochi muri non crollati che una volta ospitavano sale arredate, cucine, camere. I poster mostrano la Torre Eiffel, il Big Ben ed anche, immagine emblematica, il World Trade Center di New York che all'epoca era ancora in piedi. La realtà, vista dalla distanza di un mirino (anche se vicina), continuamente "interrotta" da immagini del mondo occidentale, si fa amorfa, si mescola, diventa qualcosa di impalpabile, etereo, che non ha più valore. L'unica realtà tangibile, consistente, si trova all'interno del carro, si sviluppa nell'umidità dell'acciaio delle pareti, al di sopra della pozza d'acqua che ricopre la base del mezzo e sui volti sempre più sporchi e sofferenti dei soldati. Ogni tanto il mondo di fuori irrompe con violenza e forza dall'apertura del portello della torretta del carro con l'entrata di un ufficiale, di un prigioniero siriano, un soldato israeliano ucciso, un falangista cristiano loro alleato: spezzoni di reale trasferitosi dal "mondo" esterno visto dall'interno attraverso il mirino, emblemi del fuori che sorgono nel dentro come incarnazione di un'inquadratura. La realtà in questo modo mostra la sua ineluttabile cogenza, la pertinenza del mondo-ambiente, la sua forza cruda, che deve essere utilizzabile anche al di qua del mirino poiché una coscienza precisa del mondo ci appartiene anche quando non ne siamo consapevoli (1). In questo modo la distruzione relegata nel fuori, la morte, le torture, la disperazione, non sono uno spettacolo distante e angosciante, anche se a volte possono sembrarlo. La distruzione mostrata dallo schermo, trasportata nell'etere fin nelle nostre case, non è percepita come tale; non per questo viene negata ma, essendo solo una proiezione, un riflesso, viene spesso rimossa e/o allontanata. Nel carro invece non è possibile perché il sangue (il cadavere del soldato), la politica con le sue ambiguità e perversioni (il falangista), il potere (l'ufficiale israeliano), il nemico (il prigioniero siriano) si mostrano in tutta la concretezza, il simbolo s'incarna e si fa tangibile, verificabile. Il carro non è solo ferraglia che serve a uccidere e a proteggere, è anche una sorta di ossimoro. Il metasemema si forma dalla compenetrazione di due forze apparentemente opposte: ferocia all'esterno, ossia capacità del mezzo di portare morte e distruzione (i palestinesi uccisi dalle raffiche), dolore e sofferenza (il trasportatore di polli e la moglie che ha appena perso il marito); protezione all'interno della tana per i soldati che ci vivono, sperando che l'operazione finisca il prima possibile. Il carro armato è come una fiera in azione che aggredisce ma anche rassicura almeno noi spettatori con l'apparente immunità degli "eroi" e con la forza distruttiva del mezzo. Contribuisce a sottolineare questa "doppia personalità" l'estrazione di una realtà vista come riflessa da uno specchio e pertanto non percepita in tutta la sua drammaticità: in fondo la distruttività del mezzo è come tenuta a distanza, nascosta dal mirino, come una bomba al fosforo camuffatasi da fumogeno. Il "ritorno" al campo di girasole e il momento in cui il soldato, illuminato dal sole, appare sulla torretta, non rappresenta il classico finale di un film di guerra. Il nemico sembra assente, il paesaggio sembra un momento di riposo, una pausa bucolica prima di altri tragici fatti; la guerra non è finita: solo tre mesi dopo la prima guerra libanese (giugno 1982) avvenne il massacro di Sabra e Shatila compiuto dai Cristiani falangisti con la connivenza dei comandi militari della forza d'invasione in Libano che non intervennero per evitare la carneficina. La guerra non finirà mai perché non assistiamo al ritorno del soldato nella "pace" della famiglia in trepida attesa. Rimane soltanto l'immobilità della natura, impotenti girasoli mossi dal vento che accolgono loro malgrado la ferraglia di un carro e i loro uomini persi, incapaci di determinare un cambiamento.
(1) cfr. Heidegger, "Essere e tempo"

15 settembre 2010

L'uomo nell'ombra (Roman Polanski, 2010)

Immobilità del testo

L’auto abbandonata sul ponte del traghetto, mentre le altre escono subito dopo l’approdo, indica un evento accaduto: qualcuno (poi scopriremo essere il ghostwriter di Adam Lang) non ha potuto ultimare il viaggio per annegamento. L’immobilità del mezzo, che viene superato dagli altri al fine di uscire dall’imbarcazione, giustifica la ricerca di un altro ghostwriter e diventa indice di una situazione, effetto di un accadimento (in questo caso la morte del primo scrittore). L’immagine è inquietante perché l’assenza di movimento induce a ricostruire un evento misterioso: qualcuno è stato ucciso. Un oggetto appartiene sempre a qualcuno che prima o poi si presenterà a ritirarlo. Il fatto che lo stesso oggetto venga “abbandonato” sul traghetto dal secondo ghostwriter per sfuggire a due probabili killer, potrebbe amplificare il valore dell’indice (ossia l’autovettura dell’incipit indica una morte), ma questo non accade perché vediamo lo scrittore saltare sulla banchina prima che sia troppo tardi, mentre non ci è dato vedere il secondo arrivo del ferry boat con l’auto abbandonata. L’automobile “ritorna” come nuovo potenziale indice (il cui oggetto in questo caso è un evento che deve accadere) nell’epilogo, quando la vediamo accelerare mentre il ghostwriter sta attraversando la strada. Stavolta è un mezzo in veloce movimento che annuncia un evento funesto. I due veicoli potrebbero comporre un equilibrio, una sorta di equazione inversa, ossia immobilità (chi l’ha abbandonata e perché?) e accelerazione (aiuto, potrebbe colpire il ghostwriter!), potrebbero regolare una perfetta simmetria se non fosse che l’auto dell’epilogo non indica la conseguenza di un accadimento, ma presuppone un’anticipazione che non garantisce un esito certo; non indica un risultato bensì una probabilità, un proposito che ha bisogno di un altro indice quale a esempio i fogli del manoscritto che volano lungo il viale, così come i passanti che corrono in direzione del fulcro dell’evento posto nel fuori campo, sulla destra del fotogramma. La mente ricuce un’assenza, una mancanza (immagine) e ricostruisce un epilogo. Se non vi fossero state le pagine del dattiloscritto avremmo potuto sentire le urla di qualche passante o il rumore sordo della lamiera che ferisce la carne oppure niente, ma in tal caso il dubbio avrebbe preso il sopravvento: è stato investito o no? Non sembrano esservi dubbi, e al manoscritto, più che all’auto, spetta il compito di indicare il fatto. L’auto in questo caso diventa più che altro un mezzo, un gesto, in altri termini un motivo (avviso di pericolo) che ritorna e riemerge in molte circostanze (ad esempio la vettura che insegue il ghostwriter dopo che è uscito dalla casa di Paul Emmett). La bellezza del film scaturisce anche dall’abolizione di revolver e coltelli, mitra e bombe, esplosioni e acrobazie, poliziotti e agenti. O meglio, gli agenti ci sono ma si trovano nell’ombra e sta a noi scoprirlo, i poliziotti forse ci sono forse no. Al contrario l’unico colpo che viene sparato (e che prende in pieno la vittima), concreto, tangibile, udibile, colpisce all’improvviso Adam Lang e quasi dispiace constatare che la funzione del cattivo non sia interpretata da Pierce Brosnan, perché in fondo l’affezione al personaggio induce a volerlo “mente” più che mero esecutore di altrui volontà. Eppure queste sono le regole del thriller: depistare per sorprendere, ma anche regolare la narrazione con motivi e oggetti per svelare senza rivelare, raccontare l’impronunciabile con intensa affabulazione, in altri termini dire molto senza dire niente e lasciare alle immagini, come al montaggio, la più ampia espressività. Riuscire a innervare un plot con immagini apparentemente descrittive (il mare, la pioggia, la spiaggia), lasciar scorrere il sangue nelle vene di una pellicola che sembra non averne bisogno (la suspense, una storia di sesso, un bigliettino che passa di mano in mano, vecchie foto) non significa rinunciare ad una “storia movimentata”.

Accelerazione dell'acronimo

L’accelerazione, impressa nell’auto dell’epilogo, si attesta dentro le inquadrature. Ogni volta che ho sentito dire, all’uscita del cinema: non mi è piaciuto perché lento, mi sono sempre chiesto cosa sia la lentezza. Forse lunghe inquadrature, magari in CL, seguite da panoramiche che lasciano all’occhio il tempo di distinguere, vedere, analizzare il paesaggio. Mentre la velocità, e suppongo l’affezione per il film (perché lo sguardo “non può” rimanere in sospeso per troppo tempo), si evincono da un montaggio più “frenetico” ove dominano inquadrature brevi, campi, contro campi, magari veloci movimenti di macchina (che non permettono di distinguere) e carrellate e/o voli della mdp che schizza in ogni direzione e altezza. Però questa storia aveva bisogno di mostrasi con delicatezza, essere assorbita lentamente per permettere alle immagini di accelerare. E questo è stato possibile con un montaggio accorto e preciso dove nessuna inquadratura sembra giustapposta casualmente tanto per far progredire la storia. Le sequenze sembrano partire “lente” (molto descrittive) per accelerare quasi come per giungere in tempo all’epilogo o meglio all’intenzione di un epilogo (È morto? Si è solamente ferito?). Come l’auto da statica e concreta (la vediamo) diventa statica e ideale (quando viene abbandonata la seconda volta), poi simile a un automa condotto dal navigatore, infine sempre più veloce, allo stesso modo un cellulare può diventare protagonista: dapprima mero oggetto utilizzato per scoprire la voce di un misterioso numero telefonico, poi addirittura in movimento sul tavolo indotto dalle vibrazioni causate da una chiamata a cui il secondo ghostwriter non intende rispondere (da oggetto a funzione). Così lo stesso manoscritto: prima un volume di oltre seicento pagine apparentemente insignificanti (lo scrittore ne cancellerà molte) poi oggetto ricercato e desiderato (Per il suo valore? Ma non può valere niente!) in quanto rubato nell’incipit e quindi consultato nell’epilogo per rivelare un codice che non si trova celato nel racconto di una vita, ma si dispiega nella rivelazione di un segreto, fino ad aprirsi e volare nei flutti del vento come acheni col pappo appena soffiati via dall’infiorescenza del tarassaco. Pertanto un motivo che ritorna sempre sotto una nuova pelle: causa efficiente di un progetto, corpo da revisionare per rifondare una vita e infine vacue parole che celano un codice, un “dispiegamento". Ciò che interessa non è il racconto del manoscritto, lo svelamento del motivo della scelta e della personalità di Adam Lang, ma la sua stessa struttura, in altri termini la verità mimetizzata nell'acronimo (le prime parole di ogni capitolo svelano un mistero) è il termine del viaggio dell'eroe; poi non importa se quel bigliettino che passa di mano in mano cede sintropia al sistema reintegrando nuova energia (ossigenando per un attimo il plot), perché niente è più pericoloso di un manoscritto che cambia per l'ultima volta la sua pelle indicandoci l'inutilità della storia: lo scrittore rischia grosso ad amare i propri personaggi fino a fare sesso con la donna del capo (un classico) che poi sarà la sua prevedibile nemesi solo per aver disvelato il senso profondo di un testo.

6 settembre 2010

Io Sono L'amore ( L. Guadagnino, 2009)


Incentrato sulle vicende della ricca famiglia lombarda dei Recchi, composta da Emma e Tancredi e dai loro figli Elisabetta, Edoardo e Gianluca. Tra riti borghesi e convenzioni sociali, si consumano le storie dei vari membri della famiglia, alle prese con gli affari dell'azienda familiare e ruoli che la loro posizione gli impone. L'algida Emma troverà conforto e amore tra le braccia del giovane cuoco, Antonio. La passione che scoppia tra i due distruggerà equilibri e rapporti all’interno della famiglia.

Probabilmente un film dalle grandi pretese, ma che affascina per una sua particolare eleganza che si protrae come un sussurro perpetuo e asfissiante. In una Milano assente e lontana dai soliti stilemi da metropoli con il quale si è soliti descriverla, una Milano intima, da interni apparentemente caldi e familiari si trovano le vicende della famiglia Recchi. Nel dettaglio, esteticamente curato, che si trova, tra il susseguirsi delle immagine raccolte, una sinfonia del gusto sociale e culinario, dell’amore sempre devastante e della formale “clausura“ borghese. Lo spazio aperto si è chiuso per lasciarsi conoscere meglio nei suoi angoli più intimi. Piccoli angoli di calore sconosciuti. Tra i possibili concetti che il film, bene o male, può mostrare c’è quello della forma del gusto, un gusto che nella borghesia trova solo il sapore “dell’ esserci”, della manifestazione di fatto come semplice oggetto che appare, ma che, fuori da schemi preordinati trova invece piacere nel palato e non solo. L’arte culinaria diventa metafora della borghesia che ama possedere le cose mantenendo la giusta distanza e che né evidenzia la loro distinzione. sociale La classe borghese è qui rappresentata attraverso la loro disposizione estetica che come ricorda Boridieu è una disposizione che tende a mettere tra parentesi la natura e la funzione dell’oggetto rappresentato e tende ad escludere qualsiasi reazione “ingenua”, (1) come l’orrore di fronte all’orribile, desiderio di fronte al desiderabile e, come in questo caso di amore di fronte a ciò che è amabile, o meglio , di fronte a ciò che deve essere amato. In questa estetica della distanza tutta borghese sono la moglie Emma e la figlia Elisabetta che si ribellano a ciò, la prima attraverso la sua relazione con il cuoco Antonio, amico del figlio Edoardo e la seconda scoprendo la sua omosessualità che ha rivelato solo alla madre. Edoardo è una figura che sta in mezzo, da un lato come figlio maschio,portatore del nome del nonno, amato dalla madre che non dovrebbe deludere le aspettative dei “padri”, ma che invece cade per ben due volte, inizialmente perdendo una gara di canottaggio dall’altro vorrebbe aiutare l’amico Antonio a realizzare un ristorante a discapito dell’azienda di famiglia che è già in declino quanto i suoi proprietari. Si rivela il più sensibile, ma non è lui colui che darà il colpo di grazia a questa farsa del buon vivere, Il nonno, padre fondatore della famiglia funziona come una vite che tiene in piedi una struttura di comportamenti rigorosi, Il nonno "non ama le sorprese": non tollera che l'unica nipote femmina cambi, da pittrice a fotografa, senza averlo avvertito; o che il nipote prediletto abbia perso l'ultima gara di canottaggio. Già deve digerire Tancredi, il figlio smidollato e senza carisma, cui i diritti di successione imporranno, suo malgrado, di affidare il vertice della sua fabbrica. Sarà Emma, la moglie venuta dal freddo che, come un complesso innesco silenzioso, modificherà del tutto il gusto circostante, il suo volto come specchio rivolto a noi ci mostra il turbamento inquieto che è già nostro sin di primi minuti del film, ci costringe a cercare una via di fuga, a chiederci se è possibile tutto questo per poi confortarci attraverso i suoi occhi e attraverso il suo corpo, disperato e desideroso di potente amore. Così Emma pone a sè quella differenza che potremmo in questa sede definire come la differenza tra il gusto e la gastronomia. Se il gusto è il dono naturale di riconoscere e di amare la “perfezione”, dove Emma si è completamente immersa, la gastronomia è l’insieme delle regole che presiedono all’educazione del gusto, ma Emma ha voluto eccedere alla regole, portandosi dietro le naturali conseguenze che tanto amore può causare.


1)Bordieu P. La distinzione Critica sociale del gusto, il mulino, bologna, 2008)