30 ottobre 2009

Eraserhead ( D. Lynch, 1975 ) Pt. II


ATTENZIONE SPOILER!!!!!
Il prologo del film è anche in questo caso esplicativo sulla struttura della narrazione, cosi come in INLAND EMPIRE un vorticoso movimento di un giradischi ci introduceva ad un logica circolare di spazi inscritti l’uno dentro l’altro, anche qui il movimento introduttivo ci porta all’interno di una logica dell’attraversamento di soglie: dentro il buco della fessura posta sul Pianeta, per arrivare all’uomo che azionerà la leva ( di un meccanismo), dentro il liquido in cui cade questo feto primordiale, all’interno di un buco che attraverso una dissolvenza in bianco ci porta nel mondo esterno, per giungere fino al primo piano del volto di Henry Spencer. E’ un movimento che parte da dentro per arrivare fuori, verso uno spazio che non ha confini distinguibili, “la mdp si tuffa dentro la voragine che il seme ha creato dentro la sua testa, animatosi durante la notte il buffo vermicello spalanca le fauci e urla un sibilo sottile, inghiottendo la visuale costringendo a tornare all’esterno del pianeta a osservare la superficie squarciata e il profillo di Henry all’interno, seduto sul bordo dell’letto. Ma nella stanza di Henry esiste un altro spazio, seppur creato dalla sua mente, un “caloroso” teatro, rifugio ultimo in cui trovare serenità. Ciò che risulta più interessante non è solo l’inclusione di spazi dentro spazi, ma l’investigazione di corpi dentro altri corpi. La nascita di una creatura aliena, venuta al mondo senza alcun rapporto sessuale ( come viene detto da Henry), bensì immessa, attivata da un “meccanismo” porta ad attivare una sorta d’indagine da parte di Henry che esplora la propria identità rapportandola a quella dell’alieno L’atto di smembramento della creatura è appunto l’ossessiva ultima analisi di un’identità violata. “L’ossessione identitaria di corpi che contengono altri corpi è connessa alla preservazione dell’involucro nel mentre la fecondazione e l’alimentazione la negano.” (1) Giungere all’ultimo livello, nel reperire la materia aliena porta tanto allo smembramento dell’involucro quanto a quello del pianeta stesso, dove l’uomo delle leve non è più in grado di controllare meccanismi di fecondazione. In questo senso l’atto di rottura dell’involucro coincide con un’ euforia sensoriale, nella mistura di materi propria e altra. Che trova giusta conclusione nell’abbraccio con la donna del termosifone all’interno di un luogo evanescente, proprio quello della sensazione. Concordo con Fossali nell’affermare che esiste una vertigine immaginativa, dive sul piano disforico abbiamo la dispersione della propria materia (grigia) sotto forma di gamma da cancellare, ma che sul piano euforico coincidono con una “ vertigine d’assoluto” tolaizzante Il rappresentabile è di per se una sintomatologia di stati vertiginosi, si rappresenta la dove c’è una finestra sbarrata, lì dove la co(no)scenza non può giungere, ne tanto meno immaginare, un’assurda commistione di carni. Cosi la luce ha intermittenza, cosi come il pavimento del palazzo dove vive Henry, e il pavimento del teatro termosifone alternano linee bianche e linee nere, avvertono dei contatti tra mandi in modo incoerente, affermando l’indeterminatezza di un percorso, qual è quello di Henry. L’intera sintassi narrativa poggia su questo effetto d’inderminatezza, non siamo di fronte a passaggi cronologici, ne tanto meno a una logica d’intreccio. C’è l’indeterminata apposizione di spazi e corpi, dove alla pluralizzazzione di spazi corrisponde una moltiplicazione dei punti di vista. Una possibile ricostruzione della fabulazione risulterebbe sempre parziale e incompleta. Proprio perchè Eraserhead riflette sulla fragilità dell’esistenza, ma nel momento in cui questa deve essere compresa, diventa necessario divenire altri sé.


1)P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi, edizioni Ets 2006

26 ottobre 2009

Eraserhead ( D. Lynch, 1975 ) Pt. I

Film come Eraserhead che sfidano le logiche della comprensione , sono film che si appellano all’interpretazione della coscienza dello spettatore, paradossalmente viene chiesto allo spettatore di chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie in modo che ogni immagine o suono che possa riportare ad una realtà terrena venga definitivamente allontanata a favore della realtà filmica. Il primo lungometraggio di Lynch è quello che per molti aspetti ha più cose in comune con il suo ultimo lavoro, ovvero INLAND EMPIRE. Due film che si situano all’estremità nella carriera del regista. Ovvio è che questo post non vuole essere motivo di riscontro di similitudini tra i due lavori, ma allo stesso tempo non posso esimermi da un breve accenno. Faccio riferimento a quella logica di introspezione che confonde lo sguardo dell’attore con quello dello spettatore, tale sguardo si muove all’interno di uno spazio eccessivo, selvaggio. Lo sguardo spaesato e turbato del protagonista Henry si unisce al nostro. Il corpo attoriale, non è assolutamente coeso con il mondo che lo circonda. Si ha una totale supremazia di un’immagine spregiudicata che entra con violenza a discapito di un dialogo che fa fatica ad inserirsi coerentemente nella sequenzialità delle scene, “Immagine quindi come capacità di mantenere un legame consustanziale con il sensibile e con il pulsionale che invece la parola con la sua matrice astratto-cognitiva, non potrebbe mai preservare al punto da non essere affatto in grado di tradurre il visivo.”(1) “ Il racconto di un incidente e la visione della stessa disgrazia appartengono a due ordini differenti. La sofferenza è una parola a cui l’emozione resiste con facilità, ma l’aspetto tragico di un volto scomposto suscita subito compassione e emozione. E’ questa la differenza primaria tra l’informazione per mezzo della parola e l’informazione per mezzo dei sensi, tra la coscienza ragionata e quella non ragionata.”(2)
La realtà è perturbata proprio nell’accezione Freudiana del termine dove il quotidiano si è fatto letteralmente altro mantenendo la sua matrice di riconoscibilità.
Sul piano temporale abbiamo una durata estesa che dunque ci immerge nel vissuto dell’attore, ma non come soggetto che agisce, ma come ho detto prima, come soggetto che percepisce simultaneamente con noi. Ma è anche un tempo che vive una frattura sia diegetico narrativa (tempo del soggetto, tempo onirico) sia discorsiva. Sul Piano spaziale attua la strategia dell’incassamento di più mondi in cui il soggetto entra. ( altri rimandi a IE)
Si configura per tutto il film una linea che attraversa il rapporto chiasmatico che c’è tra il corpo e il mondo, una sorta di continua transizione tra lo stato mentale delle cose e quello materiale della loro rappresentazione. “Per noi la materia è un insieme d’immagini. E per immagine intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione , ma meno di ciò che il realista chiama una cosa, - un’esistenza situata a metà strada tra la cosa e la rappresentazione.” (3)
L’immagine diviene un'istanza attiva nel soggetto come costante vibrazione di un continuo allontanamento dalla realizzazione di processi di comprensione del reale e della propria natura, come l’orrore di essere padre. Sul protagonista agisce una pressione esistenziale “La pressione esistenziale indica in Eraserhead l’esercizio distribuito di una forza in atto, rispetto ad una condizione di passività del soggetto che la subisce.”(4) Alla pressione esistenziale non si sottraggono nemmeno l’ambientazione visiva e sonora, se si pensa alla pressione acustica causata dai rumori delle industrie che inondano l’itero campo uditivo annullando qualsiasi altro suono diegetico. Essi non si presentano come suoni provenienti da definite macchine, bensì singoli suoni che ne determinano una sorta di sinfonia composta da stridii, boati, fischi rombi, che si confondono con rumori naturali, come soffio di vento, tuoni di temporali, quasi a sottolineare che malgrado l’assenza umana, la città risulta essere tutt’altro che morta. Un ‘aspetto interessante è notare come se da un lato ci sia una frattura narrativo/visiva dall’altro l’audio è in perfetta sincronizzazione con le immagini, le inquadrature sono organizzate armonicamente con l’audio, offrendo paradossalmente un ambiente chiuso e protetto.
Il delirio sensoriale che abbiamo di fronte nega, a mio personale parere, una ricostruzione rassicurante su un piano psicoanalitico, all’interno di una mente che costruisce ordina e poi cancella. La testa di Henry che compare nelle prime sequenze del film non è luogo della soggettività ma superficie materiale delle quinte sceniche del teatro della rappresentazione.

(1)P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi, edizioni Ets 2006
(2)J.Epstein, Alcol e cinema, il principe costante edizioni, 2002
(3)H. Bergson, Materia e Memoria (A Pessina cur.) Biblioteca universale Laterza,1996
(4)ibid. (1)

16 ottobre 2009

Basta che funzioni (Woody Allen, 2009)

Basta che funzioni è un più o meno gradito ritorno ad uno stile molto caro a Woody Allen che informa molti suoi grandi film, soprattutto quelli degli anni settanta ed ottanta. Eppure, nonostante una certa rassomiglianza, questo lavoro col suo supposto lieto fine (ma è un lieto fine?) non si allinea del tutto al vecchio caro stile alleniano. Lo sviluppo dell'intreccio potrebbe anche essere fondamentale, ma un ostacolo insormontabile impedisce allo sguardo di accettare la storia e cavalcare la cresta dell'onda d'urto dell'incipit. Perché quello sguardo in macchina iniziale rivolgendosi a noi-pubblico non è solo un espediente del narratore autodiegetico per introdurre l'argomento trattato, ma è anche il tentativo di uscire veramente dallo schermo. Non è come nella Rosa purpurea del Cairo (1985) quando Gill Shepherd esce dallo schermo di un cinema incuriosito dalle numerose visioni di Cecilia (la quale si recava ogni giorno a vedere il film per dimenticare la grama vita della grande crisi sperando di affogare la disperazione nel mare in movimento delle immagini), perché lì il pubblico era simbolo e proiezione del pubblico reale (o meglio, dal punto di vista di Allen, ideale) che stava al di là del secondo schermo. In quel caso si sapeva che eravamo un pubblico al quadrato (forse anche elevato ad una potenza più alta ma non voglio complicare il discorso). In Basta che funzioni c'è il tentativo diretto di uscire dallo schermo. Ovviamente un tentativo ancora in nuce perché il desiderio di strappare dall'interno la tela può funzionare soltanto se chi strappa riesce a saltare il mondo fisico lacerando la tela che si forma nelle menti degli spettatori. Quel "basta che funzioni", oltre che un invito a subire le indicazioni della quantistica senza preoccuparsi dei cliché della conformità, è anche il tentativo di disintegrare tutto ciò che avverrà in seguito. Voglio dire che Woody Allen non intende solo sostenere che la felicità risiede nel coraggio di svelare il dentro (togliere il velo per mostrare l’orrore del nostro mondo interiore) ma che il cinema si assesta sul confine tra la paura di ovattare il milieu e il timore di perdere un contatto con il pubblico (orrore di mostrare una disperazione senza fondo). E come Boris Yellnikoff è un dio in quanto al di sopra di tutti (nella storia perchè un fisico quantistico nel discorso perché il "proprietario" unico di ciò che sta per raccontare), lo spettatore è un dio dell'altro versante, è il referente "invisibile" ed evanescente che esiste solo nella nostra mente e nei luoghi che possono interessare la sociologia (nel senso di pubblico come oggetto del mercato) ma che è parcellizzato, destrutturato, complesso, imprevedibile. Nel dialogo dell'incipit Boris si rivolge a me, non al pubblico in generale, mi guarda diritto negli occhi e cerca di uscire dallo schermo per entrare nel mio pensiero. Ho pensato a questo durante l'intera visione del film e ho scoperto che il lieto fine rimane come sospeso e immortalato in una foto di famiglia, come quando guardo una vecchia immagine e scopro i miei cari più giovani mentre oggi sono invecchiati o non ci sono più. Questo quadretto "funzionante" è la scoperta del valore di un ricordo, il carpe diem di un momento felice ed inalienabile, non il risultato del caso perché il caso non crea storie ma solo immagini. Per questo il film mi è sembrato allo stesso tempo divertente (stile di Woody Allen sempre encomiabile) e destabilizzante. Quel “basta che funzioni” non è solamente la constatazione di una scelta (amore, amicizie), ma la consapevolezza che un meccanismo si è messo in funzione (immagine in movimento) e per questo un'entropica decontestualizzazione storico-culturale (il tempo futuro di altre generazioni) disancorerà il senso profondo di un'immagine da happy end.

11 ottobre 2009

District 9 (Neill Blomkamp, 2009)

District 9 trascina l’emozione all’interno stesso del significante, nel senso che la metafora emerge evidente come rappresentazione di un contesto ma anche come presentazione di un intertesto. In altri termini il testo (film) lavora su due aspetti: metamorfosi ma anche contaminazione. Per quanto concerne il primo aspetto mi sembra evidente che col pretesto della sci-fi si assiste ad una duplice metamorfosi: da una parte assistiamo alla trasformazione fisica e “mentale” del protagonista, dall’altra ad una “desquamazione” delle inquadrature (macchina a mano, videocamera di cellulari, telecamere di sicurezza, mdp). Mentre il protagonista segue un percorso di redenzione (da rappresentante del potere a vittima, da portavoce di un manicheismo di facciata a simbolo del martirio più o meno volontario), le inquadrature scivolano dallo stile mockumentary ad uno più classico e/o topico scelto come modo più idoneo per “raccontare” una più o meno genuina redenzione del protagonista. Detto in questi termini sembra che la seconda parte del film sia un cedimento se rapportata ad uno stile senz’altro più riuscito, ma ritengo che mentre uno stile da intervista-tv sia adatto a rappresentare il punto di vista del potere, o meglio dei media controllati e manipolati dal potere, la tendenza a scivolare in una tecnica più collaudata sia perfettamente adatta a gestire questo percorso di uscita dal "buonismo" ipocrita di chi detiene le leve del punto di vista omologato. Il ribaltamento semantico del luogo comune mostro=male in umano=male è bene evidenziato dall’assunzione di un punto di vista asimmetrico: potere che cerca di dimostrarsi oggettivo in quanto documentario (tv), degrado che cerca di mostrarsi in quanto soggetto della visione (fiction). Insomma, noi siamo il male e l’alieno, ciò che ci spaventa, ciò che ci terrorizza, è il bene. Poco importa che il plot ci trascini ad identificarci (anche se non del tutto) nelle peripezie del meschino Wikus Van De Merwe, poco importa che le nostre simpatie cadano sui corpi da gambero degli alieni. In effetti la ricostruzione mentale dei “gamberoni” ci trascinerebbe in supposizioni ipocrite come ad esempio il pensare che potrebbero gestire le loro uova (non voglio fare spoiler) in un modo più igienico. Non è così perché il momento della gestazione e della nascita, l’attesa e il controllo del nascituro che rappresenta per noi “umani” un momento intenso e poetico, romantico e suggestivo, viene ribaltato in una putredine di carne in decomposizione che emana vapori mefitici. Il nascituro dell’alieno è distante anni luce dall’immagine pulita, stereotipata, che ci viene presentata dai media. In effetti anche il nostro “modo” (parto) non sarebbe scevro da momenti poco “salubri”, ma la cultura e la cura della “razza” (igiene, malattie, ecc.) ci ha condotti a concepire il momento della nascita come un momento “pulito” (il bebè nella culla profuma sempre di buono). Come allineare la nostra identificazione con i feti marcescenti degli alieni? Qui il film mette in evidenza un’ipotesi di contaminazione. Infettandosi Wikus contamina il proprio corpo, comincia a cibarsi dello stesso cibo dei “gamberoni”, la sua stessa carne entra nei desideri cannibaleschi dei nigeriani (1) che vorrebbero assorbire il potere e la perizia rendendo in tal modo onore al valore e alle capacità acquisite (far funzionare le armi aliene) dal grande guerriero (nuovo status di Wikus). La carne dell’alieno, che se mangiata non trasforma in cannibali (un’altra specie), emergendo nel corpo di Wikus trasforma l’uomo in cannibale. Quindi contaminazione della carne, ma anche contaminazione della tecnica che segue e sottolinea questo percorso all’interno della malefica covata (all'interno della bella città e dei bei palazzi tutto vetro e pulizia degli umani si nasconde l'atrocità della tortura e della vivisezione) e soprattutto progetto intertestuale che lega il film (e la sua evidente metafora del razzismo) ad una ibridazione culturale. Ovviamente non intendo dire che District 9 inviti a desiderare il modo di vivere dei gamberoni. Le immagini inducono caso mai a considerare l’opportunità, attraverso la contaminazione (o almeno indossando un braccio alieno), di allargare i propri orizzonti, guardando oltre i limiti della tridimensionalità e persino della quarta dimensione. Questo vuol dire che mentre per i modi di girare un film possiamo ipotizzare modalità e tecniche ancora da esplorare, per la metafora possiamo immaginare un percorso ad esempio che trascini l’umanità a comprendere non solo la cultura e le usanze delle razze (neri, bianchi, asiatici…) ma anche delle altre specie (animali, alieni?), questo in sintonia ad esempio col Progetto Grande scimmia (2) voluto e proposto da Peter Singer(3) e fiore all’occhiello dell’anti-specismo. La struttura deve essere il corpo della differenza. Contaminiamola.


(1) Ovviamente mi riferisco ai nigeriani del film che vivono all’interno del Distretto 9.
(2)
http://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_Grandi_Scimmie_Antropomorfe
(3) Peter Singer, è un filosofo morale, nato a Melbourne nel 1946. I suoi libri più famosi sono: Liberazione animale, Arnoldo Mondadori Editore, 1991; Il progetto grande scimmia, Theoria, 1994.

6 ottobre 2009

Bastardi senza gloria ( Q. Tarantino, 2009)


Nella Francia occupata dai nazisti, la giovane ebrea Shosanna Dreyfus assiste all'uccisione di tutta la propria famiglia per mano del colonnello nazista Hans Landa.La ragazza riesce a sfuggire miracolosamente alla morte e si rifugia a Parigi, dove assume una nuova identità e diviene proprietaria di una sala cinematografica.
Contemporaneamente, in Europa, il tenente Aldo Raine mette assieme una squadra speciale di soldati ebrei: noti come i Bastardi. I soldati vengono incaricati dai loro superiori di uccidere ogni soldato tedesco che incontrano e prendere loro lo scalpo. La squadra di Raine si troverà a collaborare con l'attrice tedesca Bridget Von Hammersmark, una spia degli Alleati, in una missione che mira ad eliminare i leader del Terzo Reich, in una trappola attesa durante la premiere di un film del partito.

I film che esplicitamente trattano di nazisti, con i relativi riferimenti allo sterminio, sono da sempre stati sottoposti alla questione, nell’ambito cinematografico, della rappresentabilità, ovvero il problema della rappresentazione dell’irrappresentabile, ciò che potenzialmente non è possibile rappresentare, misurando la possibilità che hanno l’immagine e l’immaginario, di confrontarsi con l’idea dell’eccidio di massa. Il problema infatti pone al centro l’atto stesso dell’inevitabile manipolazione delle immagini nell’uso della macchina da presa; il concetto d’inquadratura, in quanto una scelta soggettiva di visuale e il montaggio, riducono il testo filmico ad una creazione di linguaggio che rimane su superficie sempre del tutto personale dei fatti accaduti, facendo restare il testo filmico, sia di finzione che documentaristico, qualcosa di parziale. Ma è innegabile che la proliferazione di film, documentari, reportage, testimonianze hanno accresciuto e operato un’attività di conservazione della memoria non indifferente. “E’ solamente ricordando questi elementi del lavoro cinematografico, audio e televisivo, l’inquadratura e il montaggio, che l’opera per immagini può essere considerata come memoria essendo anch’essa un ‘interazione tra cancellazione e conservazione. Non di meno l’utilizzo dell’immagine come testimonianza di verità e la creazione di opere cinematografiche e audiovisive che pretendono di lottare contro l’oblio avanzano con costante vivacità. La Memoria è diventata una sorta di esperienza audiovisiva collettiva”(1) ciò sarà sempre più evidente nelle prossime generazioni. Il Film trattato in questa sede sembra però prendere delle posizioni paradossali, esso ci mostra ciò che non è mai stato rappresentato,in quanto mai immaginato, cioè la rappresentazione di ciò che non è accaduto. Se in un certo senso lo strumento cinema si ritrova parzialmente limitato nel restituirci una memoria oggettiva, tuttavia ci dà una variante completamente stravolta, che paradossalmente tende quasi a voler sostituire le lacune dei precedenti propositi. Vediamo dunque che la riproduzione cinematografica può tutto. “La macchina da presa ha la capacità di riprodurre una realtà filtrata e trasformata, sia pur al di fuori di una psicologia tradizionale dall’altro lo schermo da un’evidenza inviolabile di ciò che è soltanto pensabile.”(2) Ma la presenza di quel rimosso incolmabile che l’audio-video non può restituire muta, per lo più si ribalta, nel movimento della leva del proiettore effettuato da Shosanna Dreyfus, il raggio di proiezione diventa una vera e propria arma. Cambiando quindi per ribaltamento, o quasi per contrappasso, la finalità dei perseguitati, che una volta mutata, si trasforma nell’attuazione della combustione dei nazisti sotto il fuoco della finzione. Nel loro personale campo di concentramento che è la sala del cinema. L’unica arma che risulta essere efficace.
L’esigenza di voler imprimere una memoria da parte dei bastardi contro i nazisti, arriva a tal punto da prendere lo scalpo del nemico morto e incidere il simbolo dell’eccidio sulla fronte del nemico che sopravviverà, perché potrà raccontarlo. In questo film lo schermo giustifica la moralità attuata dai bastardi attraverso la finzione. Come ad esempio, tra i nazisti del film che sembrano comprendere l’orrore, c'è un soldato, eroe di guerra, ingaggiato per interpretare la parte di se stesso in quanto eroe, un eroe in/di un film, egli oscilla tra una finzione diegetica ed una realtà extra diegetica che sembra riportare lo spettatore ai reali problemi del discorso, quelli legati ad una violenza rappresentata dal film, infatti la proiezione di questo film avviene in entrambe le sale, sia la nostra che la loro.
Il rapporto che s’instaura tra i due poli osservatore e osservato, si raddoppia; l’osservatore partecipa al destino dell’osservato, si muove sul suo stesso terreno, nello stesso campo di forze, ma intrecciando la sua esistenza con l’oggetto del suo sguardo finisce anche col perdere la sua posizione di vantaggio, fino a confondersi con quanto a di fronte.
Abbiamo in definitiva la riascrizione della storia, ma una storia che è possibile vedersi attuata solo all’interno di una sala cinematografica, sia sul piano diegetico che su quello extradiegetico, come a voler dire che in fondo il compito del cinema non è ancora terminato.



(1) E. Sivian, Memoria, archivi. Gli archivi della memoria, in Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte Auschwits, di Monicelli F. Saletti C. (cur.) Cierre edizioni 1998
(2) Casetti F. L'occhio del Novecento, Bombiani, 2005