29 novembre 2009

L'australiano (J. Skolimowski, 1978)


Nel villaggio di Lampton (Gran Bretagna), la squadra di cricket locale sfida quella del manicomio. Il ricoverato Charles Crossley funge da giudice con la collaborazione di Robert, un ragazzo sano di mente. Mentre la partita si svolge con alterne vicende, Charles racconta all'occasionale amico la sua storia. Dopo avere passato 18 anni presso aborigeni, da uno stregone ha appreso l'arte di concentrare la propria forza in un urlo distruttore e assassino. Pervenuto a Lampton, si è infilato di prepotenza nella casa dei giovani coniugi Anthony e Raquel sconvolgendone le loro vite.


“Ogni parola di ciò che sto per dirle è vera, solo che io potrei dirla diversamente, ma è sempre la medesima storia. Vario la sequenza degli eventi , vario il momento culminante di quel tanto che basta a far si che sia viva.”

Film come questo offrono una vastità di argomentazione così elevata che in un primo momento spaventa, la varietà dei temi messi in gioco è notevole, e in questo senso, mi son voluto occupare di uno degli aspetti più ovvi del film, ma che in qualche modo questo agisce in modo “silenzioso”. Lo straordinario protagonista de l’australiano è percezione sonora . Il percepito supera i limiti dell’inquadratura stessa. Lo schermo frontale che abbiamo dinnanzi a noi viene sfondato e noi con lui. Al cinema lo sguardo è un’esplorazione spazio-temporale delimitato che si mantiene dentro il quadro dello schermo. L’ascolto è invece un’esplorazione in un dato a udire anzi “un imposto a udire” molto meno delimitato sotto tutti i punti di vista a iniziare dalla localizzazione della sua provenienza, dai suoi contorni incerti e mutevoli, che in molte occasioni fa oscillare elementi tra ciò che è diegetico e ciò che non lo è. L’impatto visivo-sonoro del film è davvero imponente, ma se da un lato la narrazione o meglio le immagini che già di per se, come annuncia il protagonista Crossley, si presentano come una sequenza di eventi modificata, che ci vengono restituiti con una paradossale unità narrativa, dall’altro il montaggio sonoro per sua natura non restituisce unità, proprio perché in qualsiasi film le giunte sonore, sia la colonna sonora o i suoni “in” e “off”, non sono ben identificabili da poterne suddividerne in blocchi. Nel senso che uno spettatore solitamente non si impone l’obbligo di riconoscere questi stacchi, proprio perché in balia di un flusso sonoro eterogeneo ma indistinto. Qui in modo perentorio avviene qualcosa di diverso, ciò che sentiamo ha un volume decisamente più alto di ciò che vediamo. Siamo quasi sempre dinnanzi a dei climax psico-sonori/visivo-musicali che rendono la rappresentazione una maestosa sinfonia contrappuntistica, ma applicata in questa sede sul valore aggiunto (1) L’urlo micidiale di Crossley si oppone per analogia al mestiere dell’altro protagonista, Anthony. Questo è un musicista che campiona suoni e rumori provenienti da oggetti di uso quotidiano. Crossley descrive la produzione musicale di Anthony «musica che non esiste, vuota». Anthony riproduce numerosi effetti sonori nel suo laboratorio; biglie su vassoio di metallo con acqua; scatola di sardine suonata con archetto; sigaretta accesa con fiammifero e aspirazione del fumo; pelo di cane strofinato col microfono. Dei successivi esperimenti sembra volerne misurare il ritmo col metronomo, come del ronzio d’ape intrappolata nel vaso di vetro dal microfono, che poi si libera; del soffio sul microfono; del tintinnio della scatola di sardine e del trillo di una vecchia sveglia. Il micidiale urlo di Crossley viene emesso in totale tre volte, Nel ricordare che siamo comunque dentro il racconto di un pazzo, la tripartizione dell’emissione dell’urlo segna una regolarità interna, al quale non voglio attribuire logiche d’incastro. Crossley, come dice lui stesso, ama inventare storie per il suo medico curante, la sua è una costruzione che poggia su altre parti, l’anima si ripartisce in quattro pezzi che posso assumere diverse forme. Cosi come sono quattro le parti in cui il racconto e suddiviso. Ma alla fine siamo noi ad essere uccisi, l’emissione dell’urlo sembra più diretto verso di noi, ed è sempre a noi che viene puntato l’osso dall’aborigeno. Suono e rumore possono essere contrapposti a ciò che nel testo risulta essere “sensato” e ciò che invece è matto. Si vive dentro questa frattura, in una continua percezione fuori sincronia frammentata.

1) Con il termine di Valore Aggiunto nel campo degli audiovisivi, designamo il valore espressivo e informativo di cui un suono arrichisce l'immagine data, sino a far credere, nell impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che se ne conserva, che quell'informazione o quell'espressione derivino "naturalmente" da ciò che si vede, e siano già contenute nella stessa immagine. Chion M. L'audiovisione suono e immagine nel cinema, Lindau 1990

4 novembre 2009

Red Cliff ( la battaglia dei tre regni) J. Woo, 2009

Anno 208 a.C. : sono i giorni finali della dominazione della dinastia Han. Il primo ministro Cao Cao convince l’imperatore che l’unico modo per riunire tutta la Cina è dichiarare guerra ai regni confinanti di Shu e di Wu dell’Est: parte così una campagna militare d’inedite proporzioni, condotta dallo stesso Cao Cao. Per contrastare le forze che li stringono sotto assedio, i due regni attaccati decidono di stringere un’alleanza. Sarà l’inizio di una guerra combattuta per terra e sulle acque del fiume Yangtze, che culminerà nella Battaglia delle Scogliere Rosse, il cui andamento segnerà tutta la storia della Cina a venire.

Un’ ipotetica definizione di “genere” trova, nel cinema contemporaneo, un terreno pieno di lacune, per quanto la battaglia dei tre regni ne evidenzia uno ben preciso, quale potrebbe essere quello del kolossal epico, anch’esso si sottomette a delle logiche temporali che fanno della definizione di genere una forma di tendenza ad un certo modo di fare cinema, o meglio delle forme di soggettività (dove per soggettività non s’intende il regista, o la produzione ma il film ( soggetto) stesso) e non un marchio di coerente identificazione. Perché se è vero che il genere individua un determinato prodotto indirizzato ad un pubblico che identifica l’oggetto della sua visione come qualcosa che, in un certo senso, se ne conosce il sapore in anticipo. E’ anche vero che l’etichettatura di genere limita e in un certo senso condiziona la visione, come ad esempio dire che Matrix è un film di fantascienza misto a trhiller e azione, si sta parlando di indicazioni che hanno un riscontro solo sul piano generico del oggetto film, se dicessi che è un film filosofico nessuno potrebbe darmi torto eppure non basta ad identificarlo. Il discorso sul genere è stato affrontato ( e continua ad esserlo) per lungo tempo sul piano teorico e risulterebbe molto complicato e dispendioso poterlo affrontare in questo breve spazio.(1) Mi muovo su queste linee per parlare di film indipendentemente dal loro regista dalla loro natura produttiva e tematica, ma attraverso la loro produzione di senso.
Di sicuro ciò che accade anche in questo film, non si sottrae alla classica rappresentazione di genere epico: eserciti in tutta la loro magnificenza, scenografie imponenti, eroi disposti a sacrificare qualsiasi cosa pur di preservare la loro integrità e quella del loro paese. Eppure il percorso intrapreso dal testo stona con il genere stesso al quale lo si vorrebbe attribuire, infatti non mancano nel film elementi di tipo western e melodrammatico, anche se quest’ultimo non particolarmente approfondito. Sembra che la volontà dell’eroe sia spesso condizionata sul proprio agire. Sul piano sintattico “il soggetto”, rappresentato dai regni del sud ribelli e “l’anti-soggetto” rappresentato dal regno del nord vivono una costante “dissonanza” nel loro personale modus operandi. Seppur entrambi dispongano di abilissimi strateghi quest’ultimi agiscono secondo delle volontà condizionate dall’ambiente pendendo più su un lato sensibile/istintivo. In realtà sembra che in un primo momento lo scontro non avvenga tra i regni del sud e quelli del nord ma, su un piano del tutto figurativo, ci sia uno scontro tra i regni e l’ambiente circostante, e solo grazie alla “conquista” di quest’ultimo, che può veramente esserci lo scontro, che sul piano narrativo, coinvolge i regni del sud con quelli del nord. A elementi di geometria militare strategica si contrappongo i quattro elementi della natura (acqua, fuoco, aria, terra) che attuano un vero e proprio scontro con le parti in causa, ma alla voracità di agire prevale la ritualità della guerra. I soggetti dunque agiscono in relazione a dei “movimenti di mondo”(2) e da questi sono condizionati, come la direzione del soffio del vento o la difficoltà che hanno i regni del nord ad integrarsi al clima del sud. La natura non potendo essere contrastata la si sfrutta, ma non può mai esserci un dominio totale su di essa, infatti genera una costante oscillazione sulla conclusione della battaglia. Data l’impossibilità di controllo non resta che affidarsi all’ambiente; Ad una colomba viene affidato un compito dal quale dipenderà parte della riuscita dell’impresa. La musica e l’armonia diventano elementi essenziali per l’andamento ritmico visivo, tant’è che un intero dialogo viene sostituito da un fraseggio armonico-musicale sostenuto dai protagonisti, sempre a favore di una armoniosa ritualità d’intenti. C’è un assunto di base implicito che si muove di scena in scena: il conflitto è componente integrante della vita umana, si trova dentro di noi e intorno a noi. Anche il dialogo musicale, che ho citato prima, ha una costruzione visiva che richiama più ad una sfida che ad una conversazione. La conoscenza di sé comprende la consapevolezza di quali siano le nostre forze quando sono al massimo, ma prende forma da qualcosa di più intimo, ovvero dalla conoscenza della nostra mente. L’apertura della mente diventa attività principale come mezzo di introspezione. Nel mondo in cui viviamo è impossibile evitare le aggressioni, di qualsiasi natura esse siano, dobbiamo conoscere l’altro perchè si possa attirare la sua attenzione. È quindi diventa necessario imparare a gestire il conflitto direttamente nell’ambiente circostante, senza ignorarlo o far finta che esso non esista. Per quanto profonda possa essere la saggezza individuale, essa non inciderà sul mondo reale. L’idea di conquistare non coincide con l’idea di distruzione, bensì l’intento di un dominio volto a preservare l’integrità del nemico(3). La distruzione pur essendo presente non ha mai il fine ultimo della devastazione totale, che spesso porta a colpire lo stesso conquistatore. La vera vittoria è la vittoria sull’aggressione, una vittoria che rispetti l’umanità del nemico rendendo così inutile un ulteriore conflitto.


(1)Altman R. Film/genere Vita e Pensiero edizioni, 2004
(2)Deleuze G. L'immagine-movimento, Ubulibri, 1984
(3)Sun Tzu, L'arte della guerra