28 luglio 2009

INLAND EMPIRE. Io (non) sono Laura Dern (5/6)

INLAND è una poesia, o meglio un poema epico a cui è stata tolta l'epica, in cui l'eroe non è il personaggio con il quale identificarsi, personaggio che riassume il nostro immaginario esemplificativo, che cuce la nostra impotenza reale con la potenza della nostra forza morale interiore. Oppure: INLAND è un tentativo di disarcionare l'identificazione all'altro (nella maggior parte dei casi nei confronti del personaggio principale).« L'identificazione è una regressione di tipo narcisistico nella misura in cui essa permette di restaurare nell'Io l'oggetto assente o perduto e di negare, tramite questa restaurazione narcisistica l'assenza o la perdita. Se l' identificazione all'altro consiste nell'erigerlo nell'io, questa relazione narcisistica, al riparo dal reale, può tendere a supplire, con un evidente beneficio per il soggetto, alle incertezze di una scelta oggettuale» (1). Ogni identificazione comporta dei rischi, perché rappresenta una tendenza alla solitudine, un desiderio inconscio di ritirarsi dal mondo. Poiché nell'identificazione lo spettatore tende a sospendere il giudizio critico, ritengo che in INLAND Lynch (come ogni regista che cerca di sperimentare nuove vie alternative al meccanismo proiettivo operato dalla nostra mente, ma anche indotto dalla struttura "classica", ma non solo, del cinema) segua un percorso operativo che dovrebbe spezzare il complesso meccanismo psicologico dell'identificazione con il personaggio. Ma il problema è molto più complesso. Infatti non è sufficiente disarticolare il rapporto personaggio-evento per allentare la forza psichica che agisce sullo spettatore; persino la "scomparsa" anticipata dell'eroe o di altro "attore" (ad esempio un'organizzazione benefica o un intervento della natura che "elimina" il "cattivo") non scalfisce la forza dell'identificazione. Il lavoro di Lynch si accentra pertanto non sull'eliminazione del personaggio interpretato da Laura Dern ma su una sua esponenziale moltiplicazione, sia come corpo portatore di una moltitudine, sia come percorso corporale che attraversa più spazi (temporali-entropici) e più dimensioni (probabili cambiamenti narrativi senza preavviso). Laura Dern diventa il prototipo di un nuovo tipo di attore non più legato al nostro bisogno di identificazione, ma legato ad una perdita non negata, bensì "affermata". In altri termini le parti interpretate da Laura (Sue, Nikki, la prostituta, la versione Sue davanti al Confessore), che provvisoriamente e arbitrariamente definirei "Droni"(2), nonché tutti gli spazi entropici percorsi o assimilati da questi Droni (Il set, la Smithee House, la strada innevata, la villa, lo spazio Rabbits, ecc.), sono una disintegrazione esponenziale del personaggio duro e puro, sono il nostro stesso ego, rappresentano i nostri stessi cambiamenti e modificazioni che avvengono nel corso della vita. Proprio perché non siamo mai uguali a noi stessi (prendereste a schiaffi il vostro voi-stesso di qualche anno addietro?), proprio perché non potremmo riconoscere e capire certe scelte che abbiamo fatto nel nostro passato, fatichiamo a identificarci con noi stessi, mentre godiamo quando accendiamo quel meccanismo proiettivo di identificazione secondaria (3) che ci trascina dentro il punto di vista dell'altro. La sensazione di perdita, che purtroppo ogni giorno subiamo nel reale, viene compensata nel cinema dall'identificazione e pertanto da una sensazione di appropriazione. Purtroppo (o per fortuna?) anche i film più sperimentali, anche i racconti più destabilizzanti (supposto sia possibile scardinare l'identificazione col personaggio) trovano un ostacolo immane nell'identificazione primaria, «[...] quella per cui lo spettatore si identifica al proprio sguardo e si sperimenta come fuoco della rappresentazione, come soggetto privilegiato, centrale e trascendente della visione. [...] Questo posto privilegiato, sempre unico e sempre centrale [...] è il posto di Dio, del soggetto onnipercipiente, dotato di ubiquità [...] »(4). Supponendo sia possibile con consapevolezza e notevole forza interiore ammettere: io non sono Laura Dern (siamo sicuri che questa affermazione sia possibile, siamo sicuri di non esserci affezionati anche per un attimo al nostro corpo preso in prestito da Laura?), risulta complicato smarrire l'identificazione al nostro stesso sguardo, al nostro sentirci istanza percipiente onnisciente. Ma poiché «[l]’identificazione è […] una questione di collocazione, un effetto di posizione strutturale […]»(5) forse intervenendo sulla struttura è possibile almeno spezzare questa forza che lega l’identificazione al procedimento? Quello che il cinema classico (ma in gran parte anche quello post-moderno) accrescono (identificazione primaria e secondaria) potrebbe essere disconnesso al fine di consentire al cinema «[…] di essere descritto nei suoi effetti di siderazione e di terrore»? (6) In INLAND c’è almeno il tentativo di portare questa siderazione (questa morte per scossa elettrica) al di là dell’identificazione all’altro, quindi all’interno dell’orrore di una consapevolezza ingenerata e per questo alienata in una parvenza ondeggiante sullo schermo, la consapevolezza che il cinema, oltre che "mezzo" narrativo, potrebbe essere qualcos’altro. Forse una sorta di scarica elettrica che ci mostra l’alieno dentro di noi, un drone sconosciuto che emerge fatuamente nella percezione di un senso di perdita (oggetti, affetti, amicizie, discorso) immediatamente esorcizzata da una mente proiettata nel punto di vista di Dio (eroe, bene, percorso formativo, racconto). La struttura poetica è un percorso di conoscenza alternativo capace di liberare energie assopite, pensieri sottaciuti, forme non ancora omologate. INLAND è una poesia. Una poesia di cui tratterò nel prossimo post

(1) Jacques Aumont, Alain Bergala, Michel Marie, Marc Vernet, Estetica del film, Lindau,Torino, 1995, p. 178.
(2) "Un drone è un robot con limitate capacità decisionali ma che può anche essere comandato da remoto" (Wikipedia). Ho utilizzato il lemma drone per sintetizzare una parte di noi (del nostro carattere) in balia dell'evento, condizionata e "priva" di autonomia decisionale e/o controllo del mondo circostante.
(3) Cfr. Jean-Louis Baudry, L'effet-cinéma, Albatros, Parigi 1978
(4) Aumont, Bergala, Marie, Vernet, cit., p. 183
(5) Ivi, p. 192
(6) Ivi, p. 200

10 commenti:

Noodles ha detto...

Molto interessante questo pezzo su INLAND. Mi fa pensare a una cosa che probabilmente potrebbe c'entrare poco, al che vuol dire che ho letto male e me ne scuso. Ma leggendoti mi veniva da pensare: forse la visione di INLAND è una tale esperienza (solo così la si può intendere per me, specie al cinema, non semplice visione ma esperienza della mente E del corpo), un'esperienza così "terribile" proprio perchè Lynch spezzetta lo spettatore come la Dern, lo obbliga a esplodere in mille pezzi rintracciando le parti di sé perdute e presenti, coscienti e non e dunque lo "distrugge" psicofisicamente, proprio come la Dern. Sto vaneggiando?

Luciano ha detto...

@Noodles. Volevo dire che l’identificazione col personaggio è spesso appagante, è un nostro bisogno (probabilmente innato e infatti penso che il cinema almeno “classico” ha preso forma nella nostra mente dopo il Rinascimento e si è sviluppato nel Barocco). Però la struttura ideata da Griffith all’inizio ha subito resistenze (bisognava abituare lo spettatore alla “violenza” del sintagma). Adesso è normale immedesimarsi. Lo facciamo anche vedendo uno spezzone di film nonostante non se ne conosca la storia. Pertanto più che alla storia (altrimenti non potremmo vedere film iniziati) ci “affezioniamo” alla struttura, quindi suppongo alla sintagmatica del film, a come è costruito e, se è costruito nel modo in cui è abituata la nostra mente, il gioco funziona. Forse basta cambiare la struttura (andando incontro però a una resistenza notevole). Perché fare questo? Perché l’arte deve sempre mostrare il lato nascosto, quello sconosciuto, non previsto, relegato nell’infimo, di cui ci si vergogna. Il nostro lato nascosto può essere il mostro interiore che non accetta la perdita (qualsiasi tipo di perdita) e vorrebbe urlare la propria disgregazione, la propria debolezza nei confronti della vita. Mentre al cinema proiettiamo i nostri sogni, i nostri bisogni, non solo sul personaggio (identificazione secondaria) ma anche sul meccanismo (sguardo onnisciente, io sono un dio). Laura Dern invece rappresenta ciò che forse vorremmo essere (tante vite, tante storie) ma anche ciò che più ci terrorizza (il drone comandato a distanza da un mondo parcellizzato, frammentato, incomprensibile, non ricostruibile). Pertanto non mi sembra che tu stia vaneggiando, mi sembra invece che (con le dovute differenze di interpretazione) abbiamo avuto lo stesso flash. In effetti vedendo INLAND ci sentiamo esplodere in mille pezzi, sentiamo le nostre ceneri volatilizzarsi nell’aria, sentiamo l’arrivo della siderazione. Il tuo commento mi sembra molto interessante e da tenere in considerazione.

Anonimo ha detto...

Dunque una sorta di immedesimazione/non immedesimazione che ci fa fare i conti con noi stessi in maniera non proprio lineare, andando a scavare nel profondo e nel buio dei nostri ricordi, della nostra anima.
Almeno è quello che ho colto leggendo questo straordinario post, e se così fosse non può che essere un'ulteriore conferma dell'enorme talento di Lynch nello scavare a fondo dei nostri inconsci.
Ale55andra

Luciano ha detto...

@Ale55andra. In effetti "spezzare" almeno l'identificazione col personaggio è compito difficile e ritengo che la "frantumazione" dei personaggi e la reiterazione di situazioni-condizioni simili su piani narrativi divergenti potrebbe essere una strada da seguire e ritengo che Lynch stia portando avanti una sua idea. Lo spettatore può non ritrovarsi e/o immedesimarsi con Laura perché c'è tutt'intorno un lavoro che tende a interrompere o disturbare la nostra tendenza a identificarci nelle "avventure" di Laura che in fondo avventure non sono. Ora non so quale sia (ammesso esista) il "piano" di Lynch: le mie sono solo elucubrazioni di sensazioni provate durante e dopo la visione. Comunque sia Lynch sa il fatto suo e i soi film sono fonti inesauribili di conoscenza. In effetti hai sintetizzato benissimo il momento in cui lo spettatore viene "disarcionato" dalla difficoltà di proiettarsi nell'altro vivendo il film non come regressione narcisistica ma come momento di disagio e angoscia.

Noodles ha detto...

Si quella è una delle poche cose che m'erano chiare nel magma del film, sin dall'uscita del cinema e cioè quel processo di disintegrazione, la volontà di Lynch di distruggere l forma del cinema per crearne un'altra. Ovviamente, come scrivi, abituati alla classica identificazione, siamo un po' restii ad accettarla, perchè fatichiamo moltissimo a seguirla, ma se riusciamo a metabolizzarla evidentemente l'esperienza sarà più che appagante.

Luciano ha detto...

@Noodles. In effetti condivido il tuo punto di vista anche se devo ammettere che non ho ancora approfondito il problema dell'appagamento al cinema. Credo che l'appagamento (come anche l'identificazione e la proiezione) sia una questione che interessa soprattutto la Psicologia del cinema. Indubbiamente certe "pulsioni", che nel mondo siamo costretti a "trattenere" e/o a differire, nel cinema (tramite l'identificazione e la suggestione) sono seguite e accettate fino a provocare veri e propri comportamenti di imitazione (del divo o del personaggio). D'altronde il cinema (come anche il sogno) permette di allentare il nostro autocontrollo (che spesso è una vera e propria lotta interiore) e pertanto tramite la catarsi sperimentiamo un appagamento atto a stabilire l'equilibrio che le nostre pulsioni inconsce (se insoddisfatte) tendono ad alterare. Invece in INLAND credo non via sia (almeno in questa fase) un appagamento o per lo meno Lynch tende (con molta fatica perché la mente umana è incredibilmente adattabile e identificativa) ad evitare una narrazione catartica; con difficoltà, mi rendo conto, perché forse vuole proprio evitare che le nostre pulsioni inconsce si "sfoghino" con il cinema preferendo forse che escano fuori in quanto nostra essenza mostruosa, nostro inconscio privo di condizionamenti ed auto-censura. E a cosa potrebbe servire tutto questo? Non saprei. La capacità di adattamento della mente umana è notevole e supera ogni più nefasta previsione; la mente riesce comunque a trovare una scappatoia celando il mostro dell'inconscio e forse riuscendo anche a trovare una catarsi nel cinema difficile e complesso di Lynch.

Unknown ha detto...

Ciao Luciano,

Ho letto l'intervista di Cinedrome, una delle più belle sul cinema che abbia mai letto. Complimenti!

Leggo che hai come riferimento teorico anche il professor Sainati, è stato il mio professore di Cinema. Il suo rigore, talvolta faticoso da seguire, è stato alla fine fruttuoso per il mio occhio.
Concordo, che più di tutto, nella critica ci vuole lo sguardo. Anche nel guardare la tv, e tutto quello che ci accade.
Un saluto!

Luca Marra
www.leparolehannogliocchi.splinder.com

Luciano ha detto...

@Luca. Purtroppo non ho avuto il piacere di conoscere Sainati e me ne rammarico di più alla luce di quanto mi scrivi. Ho conosciuto invece Aumont, De Vincenti e altri, persone molto alla mano e capaci di spiegare concetti difficili con molta semplicità. Grazie e a presto!

Anonimo ha detto...

Spesso è meglio non spiegare un capolavoro...ma se proprio lo si fa credo sia meglio essere surreali...e tu lo sei stato!

Jeger.

Luciano ha detto...

@Jeger. Il tuo commento mi lusinga molto. "Surreale" è per me il complimento migliore che potessi ricevere. Grazie e scusami per il ritardo dovuto a "problemi" molto seri (purtroppo).