30 giugno 2009

Rapporto Confidenziale Numero 15

RAPPORTO CONFIDENZIALE. rivista digitale di cultura cinematografica

NUMERO15 GIUGNO'09
EDITORIALE di Alessio Galbiati
L’impressione è di aver dato alla luce un numero davvero interessante. La quasi totalità dei contributi proposti tratta d’argomenti poco noti, marginali, emarginati, in cerca della giusta ricompensa alla propria qualità. Questo è senz’altro uno scoglio difficile da affrontare per il lettore poco curioso, che nell’informarsi cerca solo conferme a ciò che gli è noto, rifuggendo quel che ancora non è capitato sulla sua strada. Una delle idee principali di Rapporto Confidenziale è quella di trattare ciò di cui nessuno (o quasi) parla, perché per il resto avete a disposizione quintali di carta stampata e terabyte di informazioni online. Il nostro consiglio è dunque quello di lasciarvi coinvolgere ed incuriosire, magari andando a recuperare per gli occhi (e la mente) ciò di cui abbiamo scritto.
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Buona lettura.

SOMMARIO
04 La copertina. Lorenzo Vecchio
05 Editoriale di Alessio Galbiati
06 Brevi. appunti sparsi di immagini in movimento di Alessio Galbiati e Roberto Rippa
07 Jim Jarmusch’s The Limits of Control di Kathie Smith
09 LO SCHERMO NEGATO Contre toute espérance di Roberto Rippa
10 LINGUA DI CELLULOIDE Il marchese del Grillo cineparole di Ugo Perri
12 Il cinema della mente. Alcune osservazioni su Las Meninas di Velázquez di Luciano Orlandini
13 Che cosa sono le nuvole? di Luciano Orlandini
15 CINEMAHACKING Intervista a Paolo Gioli di Claudia D’Alonzo
Paolo Gioli. filmografia 18
20 IL VIDEOCLIP. Breve storia d’una forma breve di Maria Spezzacatene
30 Viaggio nel catalogo Malastrada. Capitolo primo: Una Ballata bianca di Stefano Odoardi di Alessio Galbiati
32 IL LEGNO, LA CRETA, IL BUFALO E LA RAMAZZA ovvero: L’immagine dell’lavoro di Lorenzo Vecchio
37 SECONDI POSTI IN PIEDI Troppo nude per vivere. The Centerfold Girls, un classico scomparso del cinema slasher, torna in circolazione di Roberto Rippa
40 QUELLA SPORCA DOZZINA. DODICI DOMANDE A... Luca Ruocco redattore di Indie.Horror.it di Alessio Galbiati
con le recensioni di: House of Flesh Mannequins di Giulio De Gaetano 43 Il mondo dei cattivi di Luca Ruocco 43
44 Serenata Calibro 9. Pilot, il primo album di Acusmatic Group di Roberto Rippa
Intervista a Romeo Sandri e Michele Berselli di Roberto Rippa 46
49 ABDICAZIONI Dell’a-bile travaso: ‘i begli occhi del ladro’. FINZIONI, Su Tristan Corbière di Luca Salvatore
51 http://www.rapportoconfidenziale.org/

23 giugno 2009

INLAND EMPIRE. Ellissi e flashback (3/6)

L’intreccio non è neanche il tipico intreccio dei film più “audaci” mentre la narrazione non viene interrotta per mostrare il meccanismo (cinema moderno), per rompere l’arbitrarietà della storia, la magia delle inquadrature giustapposte che catturano e ipnotizzano il pubblico facendogli dimenticare il mondo che lo circonda. Il film ci trascina nella storia oppure il film ci ricorda che stiamo vedendo un film. In questo caso la narrazione non viene allentata ma, mi si scusi il termine, “vitaminizzata”. Non è naturale nel senso che non somiglia al modo di procedere del cinema classico o di un cinema che siamo abituati a vedere, ma non è neppure L'anno scorso a Marienbad (1), un’immagine cristallo dove convivono zone temporali differenti (Deleuze 1985). Per Deleuze nell’immagine cristallo si percepisce direttamente il divenire del tempo bypassando il montaggio stesso. Nell’immagine cristallo si ha reiterazione del tempo e i momenti di passato e di presente sono inscindibili : “In lui [Robbe Grillet] non vi è mai successione di presenti che passano, ma simultaneità di un presente di passato, di un presente di presente, di un presente di futuro, che rendono il tempo terribile, inesplicabile” (2). Questa immagine tempo potente non sopprime la narrazione, ma al contrario “[…] dà alla narrazione un nuovo valore, poiché la astrae da ogni azione successiva, in quanto sostituisce una vera e propria immagine tempo all’immagine movimento” (3). La narrazione di Marienbad decostruisce la sequenza classica confondendo i futuri e i passati, reiterando gli eventi secondo altri punti di vista (altrettanto legittimi) e facendo scontrare le differenti “realtà” dei personaggi. In INLAND invece è come se un sisma avesse sconquassato, rigirato, fuso, allentato e rinforzato le faglie freatiche del sottosuolo ingarbugliando i reperti (fossili, formazioni calcaree, epoche di formazione dei materiali) in modo da dare all’archeologo/geologo la possibilità di ricostruire gli eventi. Il problema è che gli eventi non si ricostruiscono. “Il film procede paratatticamente mettendo in fila dei mondi possibili paralleli: un radiodramma a puntate (Axxon) ambientato in una regione baltica, un incontro tra un uomo e una prostituta in una camera, una Donna reclusa in una stanza d’albergo, un frammento della sitcom surreale Rabbits. Se lo spettatore in seguito comincerà a trovare una ipotassi (un dispiegamento narrativo consequenziale) essa fin da subito dimostrerà di saltare da un mondo possibile all’altro, rimettendo in gioco via via il materiale inizialmente accumulato in maniera irrelata” (4). Ma questa ricostruzione ipotattica può avvenire solo attraversando i passaggi tra i vari piani narrativi, ossia attraversando le “porte” disseminate nel film. La vista non è solo lo sguardo sul film ma diventa lo sguardo diegetico nel film. La narrazione non nasconde o mette in mostra il discorso, ma lo fascia come fosse una guaina che contiene fili elettrici. Il discorso con la sua corrente ad alto voltaggio sta avvolto nella guaia ma non è celato come nel cinema classico o post-classico perché i barbagli del voltaggio rendono la guaina al tatto differente (non si tocca solo gomma, ma si assorbe l’energia e se ne ascolta il ronzio), e neppure viene mostrato come oggetto fondamentale del rapporto spettatore-autore (sappiamo che la forza dirompente dell'elettricità potrebbe carbonizzare la guaina eppure ci lasciamo trasportare lungo il suo dedalo di percorsi). Ossia, ritengo che in INLAND vi sia il tentativo di metabolizzare il discorso tramite un atto narrativo. Non si tratta di constatare l’impossibilità del racconto (Marienbad, cinema moderno) quanto di “vagare” nelle possibilità di una scarica mortale di ipernarrazione dove sia “dolce naufragare” (Tarantino) o al contrario drammaticamente diabolico deperire (Lynch). È possibile pertanto parlare di diegetizzazione dell’enunciato, o caso mai di ico-diegesi (iconico-diegetico)? Vi sono molti raccordi, al di là dell'innesto dei vari piani narrativi, che sembrano volere uscire dal discorso per penetrare direttamente la narrazione ottenendo un effetto non solo straniante ma che definirei paramimetico. Nella sequenza 7 (5) la Vicina punta un dito in un punto del salone e dice a Nikki "Se fosse domani lei sarebbe seduta su quel divano”, e infatti vediamo un sofà del salone vuoto; dopodiché Nikki si volta verso il divano (voce fuori campo della Vicina che dice: “Vede”) e sul raccordo del suo sguardo scorgiamo "il giorno seguente" in cui Nikki è seduta sullo stesso divano, poco prima vuoto, insieme a due amiche (sequenza 8) nel momento in cui per telefono viene a sapere di essere stata scritturata nel cast del film On High in Blue Tomorrows. Nella sequenza 29 (che rima con la 7) Sue, dopo aver oltrepassato una "frattura" (la porta con la scritta Axxon n.) che conduce da un mondo ad un altro, rivede la stessa sequenza (la n° 13) dove, seduti ad un tavolo dello Stage 4, vi sono Devon (che interpreta la parte del suo amante Billy) il regista Kingsley e l'aiutante Freddie. Scopriamo che Sue si trova nello stesso spazio tempo in cui aveva provato (in quanto Nikki) una scena con Devon e pertanto è lei stessa il personaggio misterioso che fugge al sopraggiungere di Devon. Prima di fuggire ha tempo di vedere l'intero gruppo (Kingsley, Freddie, Devon e se stessa), poi, dopo che Devon si è allontanato per andarle incontro, vede solo il regista e il suo aiutante. Poiché lo sguardo non è abituato a questo genere di raccordi la mente rimane confusa e non riesce a collegare con "naturalezza" le sequenze, pertanto il senso si carica di significati ulteriori e/o di interpretazioni che si perdono nel mistero e nella magia. Ossia, la vicina è una veggente? Nikki ha oltrepassato una soglia spazio temporale? Siamo davanti a due raccordi che vengono accompagnati dalla stessa diegesi. In altri termini: non ci troviamo davanti a due raccordi mimetici (il discorso "celato" dal racconto) come nel cinema classico, ma neppure ci troviamo davanti a due raccordi mostrati. In fondo Lynch si comporta allo stesso modo di Griffith quando nei primi anni dieci dello scorso secolo dette via a quello splendido progetto che portò alla nascita del cinema classico. Non era semplice “educare” lo spettatore al cambio di inquadratura, a spiegargli che “[...] da una scena all'altra , da un'inquadratura all'altra, c'è continuità spaziale e temporale; che l'azione si svolge, malgrado il cambiamento di inquadratura, in un'unità diegetica individuabile” (6). Tenendo conto delle dovute differenze potrebbe accadere la stessa cosa con Lynch. Se volessi “fondare” una nuova grammatica, “creare” un nuovo modo di vedere, dovrei rischiare proprio sui raccordi. L'unità diegetica all'interno del quadro è molto più semplice da comprendere. Il confronto/scontro avviene sulle linee di confine, nei punti in cui (mi si scusi la metafora) il sarto taglia e ricuce per dar forma all'abito. Ma mentre nel cinema classico il sarto nasconde magicamente le cuciture, e nel cinema moderno le ostenta, nel cinema di Lynch il sarto mostra la magia di cosa siano capaci di fare queste cuciture. Nella sequenza della Vicina siamo davanti ad un’ellissi, mentre in quella della Smethee House potrebbe trattarsi di un flash-back (il pensiero di Nikki?) che ci riporta al gruppo che pochi giorni prima si è radunato per leggere il copione, mentre nel proseguo della sequenza, Sue sta recitando nella Smithee House insieme a Devon e vede di conseguenza il regista e l'aiuto che li stanno guardando. Vi sono innumerevoli (forse infiniti) modi divedere il film e modi più complicati di connettere le varie inquadrature. Ad esempio nella sequenza 41 Nikki telefona a Billy, quindi vediamo una scena di Rabbits nel momento in cui squilla il telefono; l’uomo-coniglio si alza e risponde al telefono e dall'altra parte del filo udiamo la voce di Sue che chiede di Billy, “suscitando” le risate registrate della sitcom. In questo modo ho istintivamente considerato le risate registrate come una “risposta” (comica?) allo straziante richiamo di Sue, ma ritengo che le risate vadano per conto proprio, nel senso che fanno comunque parte della sitcom e che solo la mia mente le ha collegate alla voce di Sue sul raccordo che unisce le due sequenze. Poiché Rabbits è una parodia del mondo TV (che tra l’altro potrebbe rimare con la sequenza 10, quella del programma Tv in cui la conduttrice presenta Nikki e Devon come attori che avranno una relazione amorosa ) e poiché gli uomini-coniglio recitano (con risate registrate) e Sue recita nel suo remake, la connessione viene stabilita sul piano della recitazione: Sue chiede di Billy in un mondo di fiction e la sua voce emerge in un altro mondo, o forse si tratta solo di una voce che da mimetica diventa straniante sfondando un'altra sequenza (come spesso accade anche nel cinema classico). L'orologio con le lancette che girano all'indietro della sequenza 33 indicano lo scorrere del tempo all'indietro ma il cinema classico usava spesso espedienti simili della durata quali ad esempio i giorni del calendario stampati su fogli che si staccavano velocemente uno dietro l'altro (o anche le lancette dell'orologio che scorrevano veloci). L'orologio al di là della seta appena bucata e oltrepassata dalla macchina da presa è un avviso di pericolo, una marca dell'enunciazione che indica un altro flashback. La mente vaga in un apparente magma che in realtà presenta una solida struttura, una robusta impalcatura fatta di narrazioni complicate da vedere in maniera coerente dall’interno, perché anche lo sguardo percorre il film, indugia sulle soglie, sfiora delicatamente le costure e si angoscia lungo gli strappi spazio-temporali. Il guaio è che per vedere l’armonia-disarmonica, la perfetta sintassi di questo film, bisognerebbe possedere uno sguardo a 360° e un super cristallo temporale dove allignano non solo punte di presente e falde di passato ma genesi di sogni atemporali e sensazioni di vissuto: un cristallo telepatico.

Note
(1) L'anno scorso a Marienbad, un film di Alain Resnais, sceneggiatura di Alain Robbe Grillet, con Giorgio Albertazzi, Delphine Seyrig, Sacha Pitoëff, Françoise Spira, Pierre Bardaid. Titolo originale L'année dernière à Marienbad, Francia 1961
.
(2) Gilles Deleuze, L’immagine tempo, Ubulibri, Milano 19932, p. 116.
(3) Ibid.
(4) Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Edizioni ETS, Pisa, 2006, p.481.
(5) Citando le sequenze di INLAND mi sono servito della tavola sinottica pubblicata in Appendice al libro di Fossali, ivi, p. 523.
(6) Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, Torino, 2006, p.34.

Bibliografia
Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, Torino, 2006.
Noël Burch, Prassi del cinema, Parma, Pratiche editrice, 1980.

Gilles Deleuze, L’Image-temps, Paris, Editions de Minuit, 1985

13 giugno 2009

INLAND EMPIRE. Oltre il postmoderno? (2/6)

INLAND EMPIRE è un film sulla narrazione, racconta l’atto del raccontare, sublima il rapporto tra la “storia” e l’atto del guardare. Non è un film “astratto” o un film che predilige la deissi a discapito della diegesi. La stessa classica contrapposizione diegetico vs iconico (Chateau, 1983) viene messa in crisi, o meglio, viene considerata come un mezzo utile a mettere in atto un procedimento; l’importante è misurare il livello qualitativo del meccanismo, condurre la creazione stessa del film nell’impero della mente (1). È un modo come un altro di raccontare. Non si tratta di delegittimare il cinema più o meno “classicheggiante” o un cinema più “intelligibile”, ma si tratta di portare avanti un progetto narrativo alternativo per decostruire, disconnettere l’euforia del postmoderno. Pur rimanendo all’interno del sistema (cosa oggi non è postmoderno?) vi è il tentativo di ristrutturare l’estetica postmoderna per via di una inquietudine che non pare colmata/calmata dall’approccio contemporaneo alla visione di un film. In altri termini l’estetica postmoderna (citazione, intertestualità, rifacimento, ironia, scomparsa del tempo e numero infinito di direzioni spazio temporali) affermatasi in questi ultimi venti anni, questo impasto di citazioni, un pastiche formato da frammenti, pezzi sparsi di altri lavori, pur nella sua esaltante, appassionante, capacità di trascinare lo spettatore nel gioco, col tempo rischia di dar vita ad una nuova norma, un inamovibile locus terribilis della mente che potrebbe presentare (e per certi film sta accadendo) il rischio di determinare un pubblico passivo. L’estetica del remake (Bernardi, 2007), la nuova moda della iper-citazione (intesa ormai come gioco e pertanto nuovo status visivo), questo nuovo sapere (ma che sempre più spesso rischia di essere una nuova routine), queste cause concomitanti che stanno sempre più caratterizzando il cinema degli ultimi venti anni, riducono le possibilità del testo, annullando la dialettica testo-spettatore, trasformando lo spettatore in soggetto passivo o meglio post-passivo, nel senso che mentre nel cinema classico si rischiava di avere uno spettatore-sognatore, col cinema post-moderno si rischia di trovarsi davanti a uno spettatore-giocatore. Ovvio che la mia non vuole essere una critica al cinema post-moderno e in questo mi trovo in disaccordo con quei teorici che postulano la morte del cinema, ucciso dalla voracità estrema del postmodernismo pronto a divorare il logos per “conformare” ogni cosa, per trasformare le categorie estetico-culturali in un magma confuso ove tutto può avere senso, ma tutto si rimescola con il rischio di smarrire quello che secondo me è il senso dell’arte: la conoscenza. La forza di INLAND risiede nel tentativo di aprire una nuova strada che tenga conto delle esigenze positive del postmodernismo e pertanto vada oltre quegli aspetti più caratterizzanti del cinema dei nostri giorni. In realtà questo sembra essere sempre stato il proposito di Lynch; i suoi film pur raccontando storie riescono a mantenere “ […] il senso sospeso, incerto, alla maniera dei moderni” (2), “ […] contrastando il citazionismo euforico del gusto postmoderno” (3). Con Lynch l’immagine torna ad essere un mistero, un manufatto da esplorare, da riscoprire, da studiare, da conoscere. In INLAND utilizza la potenziale violenza della narrazione per ri-costruire (de-costruendo il giocattolo) la forza evocativa, angosciante di uno scontro violento, senza speranza, tra sequenze/blocchi narrativi. Le suture tra sequenze e addirittura tra una scena e l’altra, oltre a formare una "struttura a domino" (Bellavita, 2008), non compongono solo rettilinei "provvisori" (prima del nuovo innesto con un'altra tessera del domino), ma incroci in cui si assiste sovente all’urto incostante e pericoloso di immagini che provengono da ogni direzione. Un cinema dell’incrocio, dell’uscita, forse impossibile, dal pastiche e dalle nuove regole di un gioco fagocitante (anche se gradevole). Ritorno al moderno e a un cinema-saggio stile Godard? Probabilmente no, perché le condizioni storico-culturali non lo permettono e perché evidentemente non è semplice destabilizzare il racconto rimanendo nel racconto (nella Nouvelle Vague la citazione serviva a rompere la narrazione). Un nuovo assetto del post-moderno? Forse, perché la strada è lunga e spero che INLAND EMPIRE sia solo l’inizio di un percorso Lynchiano (un percorso seguito da altri autori anche se con diverse modalità, vedi ad esempio Sokurov) che potrebbe trascinare lo sguardo in altre dimensioni dinamico-conoscitive.

L'ipotesi che vi sia una relazione di «incassamento»tra i diversi piani narrativi del testo(Basso Fossali, 2006) è molto interessante e lungimirante, come è interessante l’analisi di Andrea Bellavita che postula una relazione di «arborescenza». In altri termini in queste giunzioni, passaggi di mondo, in queste giunzioni-suture, la narrazione acquista una valenza ulteriore, accresce la vitalità immanente all’immagine stessa suscitando nello sguardo dello spettatore un senso di angoscia, di smarrimento. Guardando un film di Lynch e in particolare guardando INLAND EMPIRE si corre il pericolo di farsi male. Rischiare di subire danni non è ovviamente gradevole e teoricamente parrebbe una soluzione da evitare, ma per farsi male non intendo il subire un danno mentale (cosa che accade caso mai lasciandosi trascinare passivamente dall’esclusiva visione di certi blockbuster) piuttosto intendo il procurarsi un danno emotivo, poiché può essere spiacevole “entrare” nel quadro per tentare di conoscere il grande enigma lynchiano. Per appassionarsi alle vicende di INLAND EMPIRE bisogna pertanto frequentare i punti di sutura tra mondi, rischiando di "farsi tagliare un occhio" (4) o meglio di trovarsi tra le mani un cacciavite come unica arma da taglio capace di innestare due sequenze. Il taglio dell’occhio buñueliano è qui il buco nella tela o sono le mani portate a coprirsi gli occhi allo scopo di oltrepassare/saltare da una via all’altra, come se le strade fossero diventate canali d’acqua la cui corrente non trascina alla presunta conclusione (il ma[r]e?) ma in un groviglio kafkiano di altri canali (il ma[l]e?). L’epilogo è insomma situato in ogni passaggio, posto ai bordi di un mondo-sequenza perché l’altro lato è un altro angosciante mistero. Ritengo che questo encomiabile lavoro risponda a esigenze intrinseche e sempre presenti nel cinema di Lynch e che Lynch abbia operato più o meno casualmente (volutamente per caso non casualmente per volontà) per produrre un metodo operativo (a questo punto possibile solo grazie all’utilizzo del digitale), o meglio un discorso narrativo che sia innovativo. Insomma la narratività effettua un salto di qualità soprattutto tramite due procedimenti apparentemente contrapposti ma in realtà (e qui per me sta la grandezza di questo regista) (con)fuse in un unico meraviglioso metodo: operazioni sull’intreccio; operazioni sul discorso. In altri termini iconico = diegetico (?).

Note
(1) Sarebbe interessante vagliare il film attraverso i concetti espressi da Dominique Chateau nel suo lavoro Diégèse et énonciation , in Communications, 1983, 38, pp.3-29. trad. it., Diegesi ed enunciazione, in Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati, Il discorso del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 1987
(2) Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia, 2007, p. 320.
(3) ibidem.
(4) Alla maniera di Buñuel.

Bibliografia
- Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un linguaggio, Marsilio, Venezia, 2007.
- Paolo Bertetto, David Lynch, Marsilio, Venezia, 2008. Il volume presenta lavori in cui ciascun autore analizza un film di Lynch. INLAND EMPIRE viene analizzato da Andrea Bellavita.
- Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati, Il discorso del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli-Roma, 1987
- Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Edizioni ETS, Pisa, 2006.
- David Lynch, In acque profonde, Meditazione e creatività. Mondadori, Milano, 2008.

6 giugno 2009

INLAND EMPIRE. Tre considerazioni. (1/6)

1. Affrontare la visione di INLAND EMPIRE significa relativizzare la percezione degli eventi che si sottraggono da un ipotetico continuum narrativo immaginato dal fruitore. L’attesa per un risultato (un epilogo o uno scioglimento di uno o più nuclei narrativi) col tempo si è trasformata in una sorta di bisogno, nel senso che il racconto filmico non solo produce risultati ovvi e scontati, ma è il prodotto stesso del nostro bisogno di mondo. La speranza di cambiamento, o il desiderio di una Legge al disopra delle parti, o per altri versi la paura di subire l’arroganza del potere ed anche il bisogno di rappresentare le proprie o altrui costernazioni, contribuiscono a forgiare un mélange apparentemente fertile e denso di idee, bisogni, risultati, dimostrazioni, considerazioni, che è sempre stato presente nella nostra mente. Il nostro sguardo ormai spento, addormentatosi nel fluire di decenni di visioni luminose, di proiezioni ripetitive, di storie sempre più somiglianti a se stesse, fatica a cavalcare l’onda portante dell’immagine, invischiato nel pantano del racconto, senz’altro importante ma col tempo automatizzatosi a causa dell’utilizzo di forme e strutture narrative canonizzate. Con questo non intendo affermare, come scrive Lynch (1), che il cinema è morto o, come direbbe Greenaway, che deve ancora nascere, e neppure negare cento anni di grandi filmografie (mi riferisco ai molti grandi registi del passato e ai pochi grandi registi di oggi). Il problema è che spesso ci accingiamo a vedere il film con (legittime) aspettative e comunque nell'ambito di consolidate relazioni ambientali e culturali. Insomma lo sguardo non è più vergine mentre sappiamo già cosa aspettarci. Semplificando (e sbagliando) verrebbe da affermare che un film è buono quando non riesce a supportare le nostre attese, non riesce a restituirci le nostre proiezioni ed è pessimo quando risponde esattamente alle nostre domande. Andiamo al cinema cercando noi stessi. Ovviamente è vero anche il contrario, ossia quando non entriamo in sintonia con il plot o non gradiamo le immagini (o perché sporche o difettose o sgranate o troppo “buie”) possiamo definire tragicamente il fallimento di un film. De gustibus… Ancora ricordo un amico che definiva “filmoni” solo i film da lui graditi. Non so in base a quali criteri potesse confermare il suo giudizio (perché non esprimeva nessun altro tipo di commento) ma una volta rimasi impressionato dal suo entusiasmo suscitato dalla vista di un grande frigorifero a due porte (mi pare che il film fosse uno dei primi tre Rambo ma non ne sono sicuro): “Questo è un frigorifero Americano” , disse con orgoglio mostrandomi uno smagliante sorriso. Compresi che il film era diventato “filmone” nel momento in cui era riuscito a far breccia nella sua mente (per me aliena) capace di provare un’emozione davanti alla vista di un frigo di grandi dimensioni. Eppure mi pare di ricordare che il suo freezer di casa non fosse poi tanto piccolo. Il modello narrativo di Greimas definisce un numero ridotto di funzioni attanziali che riportano la struttura profonda della narratologia, mentre lo schema narrativo canonico si divide in quattro fasi necessarie per lo sviluppo e l'epilogo del racconto (2). In fondo un racconto per immagini si adatta alle caratteristiche della nostra mente che si comporta allo stesso modo davanti al mondo. La mente non “vede” il mondo ma lo ricostruisce. La realtà viene ricostruita dalla nostra mente in base a certe nostre attitudini e tendenze. Il giardino della mia infanzia (che all’epoca mi sembrava immenso) rivisto da adulto ha assunto le dimensioni di un piccolo fazzoletto di pochi metri quadrati. Lo scippatore che ha strappato la borsetta all’anziana signora aveva i baffi eppure avrei giurato che fosse invece quel ragazzo tarchiato e senza baffi.
2. Un altro aspetto importante è la testimonianza di mondo, ossia la rappresentazione di un esserci nel mondo. La pittura (ma non solo) ha superato questo scoglio da tempo liberandosi dall’ “obbligo” di dover formare proporzioni attendibili, logiche, prevedibili, confrontabili con la “natura”. Poiché sono miope, se mi tolgo gli occhiali, il mio sguardo smarrisce la nitidezza della realtà e si deve accontentare di un mondo più sfumato dove i colori e le forme cominciano a perdere consistenza e a confondersi. Se sono triste, o peggio, sconvolto, cammino tra la folla senza accorgermi della gente che mi sta intorno; e giuro che ogni santo giorno, assorto nei pensieri, passo davanti all’autovelox della superstrada senza rendermi conto della velocità della mia auto. I pensieri si mescolano alle parole, lo sguardo vede porzioni di boschi, una luce lampeggiante riflessa dallo specchietto retrovisore di un veicolo che sta per impegnare la corsia di sorpasso; la mente costruisce un’immagine futura, ad esempio l’ingresso in ufficio o all’università; talvolta un ricordo del giorno prima si fa strada nella bolgia di immagini più o meno “reali”: è l’immagine di un uomo malato che sorride sdraiato su un letto di ospedale e attende l'arrivo di un nuovo giorno come fosse l’ultimo suo giorno. L’altra notte ho sognato un paese sul mare, camminavo per le strade vuote, era in pianura ed era in collina, il mare era ai miei piedi eppure era lontanissimo, la tv mi sorrideva oltre quella finestra di una casetta a due piani; era notte e il paese era cambiato. Mentre guidavo sulla superstrada tutto questo accadeva in un attimo. Come raccontare questo momento?
3. INLAND EMPIRE è più reale di tanti film supposti reali. Ho sentito spesso dire: “Un bel film perché tratto da una storia vera”. Se questo fosse un metro pertinente per valutare la qualità di un film, torneremmo alla teoria dell'arte specchio del mondo. A volte mi chiedo quale sia la vera essenza dell’acqua. È un lago di montagna? È un fiume inquinato? Un’alluvione? Una crociera con escursione a Santorini? Oppure è un nubifragio, una barca di disperati che giunge a Lampedusa. È l’acqua che penetra nel terreno, in profondità, tra radici e lombrichi come in una poesia di Quasimodo: "Fitta di bianche e di nere radici/ di lievito odora e lombrichi, /tagliata dall'acque la terra.// Dolore di cose che ignoro/mi nasce: non basta una morte/se ecco più volte mi pesa/ con l'erba, sul cuore, una zolla"(3). Oppure è l’arida formula chimica H2O? INLAND EMPIRE forse aiuta anche ad intuire la forma variabile dell'acqua che cambia e fluttua nella sostanza magmatica delle nostre emozioni.

(1) cfr. David Lynch, "La morte del cinema", in Acque profonde, Mondadori, Milano, 2008
(2) cfr. Algirdas Julien Greimas, Del senso, Bompiani, Milano, 1974.
(3) Salvatore Quasimodo, "Dolore di cose che ignoro" in Acque e Terre (1920-1929).