3 aprile 2009

Gran Torino (Clint Eastwood, 2008)

La tragedia degli Hmong affiora appena nel dialogo tra Sue Lor e Walt Kowalski. Nel pick-up che porta al sicuro Sue, dopo la sua disavventura in cui ha corso un grave pericolo per aver incontrato una gang di ragazzi poco raccomandabili, Walt le domanda come gli Hmong siano potuti arrivare nel suo quartiere (“Perché non ve ne siete rimasti la?”). Sue risponde che tutto ebbe inizio con la guerra del Vietnam quando gli Hmong, alleati degli americani, dopo la sconfitta subirono le ritorsioni e le persecuzioni dei vincitori (“Abbiamo combattuto dalla vostra parte. E quando gli americani se ne andarono i comunisti cominciarono ad uccidere tutti gli Hmong”). Il dramma di questo popolo che vive in più paesi (Laos, Vietnam, Cina), e con molti profughi in Thailandia che rischiano ogni giorno di essere rimpatriati nel Laos, dove probabilmente farebbero una brutta fine, è appena abbozzato nel film, quasi sussurrato, filtrato dal “razzismo” viscerale, genetico, del duro americano tutto d’un pezzo Walt Kowalski. Eppure gli elementi della Storia ci sono tutti: c’è la guerra in Corea combattuta da Walt, c’è la guerra in Vietnam, filtrata, anche se vagamente accennata, attraverso le parole di Sue, c’è la Gran Torino, la magnifica scintillante Ford del 1972, che è simbolo ambiguo di un’epoca non del tutto in linea con la logica ferrea di Walt perché Detroit (in particolare i quartieri più popolari) aveva già assunto le caratteristiche del ghetto e aveva già conosciuto (nel 1967) la “12th Street Riot”, cinque giorni di violenza e incendi per una rivolta popolare causata dal degrado di una città ormai annientata da un piano regolatore selvaggio e che vide coinvolto anche il fondatore delle Pantere Bianche, il poeta John Sinclair (1). C’è mezzo secolo di storia in quella strada abitata da vecchi e cinesi, assiepata da case fatiscenti, corrosa dalla ruggine della crisi e della disperazione. La dimensione della certezza, del sentirsi al proprio posto, del vivere nel giusto, del sentirsi degno delle proprie radici non è più un dato di fatto indiscutibile e inalienabile. L’emblema di questa passione è un’auto bellissima che rappresenta un’epoca e un mondo, rappresenta il lavoro alla Ford, la fatica per crearsi una casa, una famiglia, ma rappresenta anche un cinema che non è più proponibile, pur nella sua estasiante bellezza. Per lo meno non senza metterci alla guida uno Hmong. Ma l’auto scintillante non rimanda soltanto a un’apparente epoca “americana” in contrasto con la crisi (sia di valori che economica) che traspare dal film, ma anche a un’epoca che il duro Walt potrebbe non avere apprezzato o capito, in altri termini la Gran Torino è già emblema di nostalgia per un passato “ricostruito” dalla mente di Kowalski in modo del tutto accomodato al suo personaggio attuale che magari non coincide con quello vissuto o esperito quando il ghetto si stava formando e la Guerra in Vietnam stava per sfornare i futuri “mangiacani”. La certezza in una gravità in cui convergono e ricadono i pesi viene messa in discussione e Walt l’ha sempre saputo a differenza di chi si trascina nella semplice omologazione (vedi la nipote Ashley Kowalski). In effetti mentre Tao intraprende un percorso di conoscenza imparando a connettere l’estetica anni settanta dell’auto con il mondo così come si è determinato, storicizzando il valore di una macchina d’epoca (e con essa il valore della sua vita), Ashley chiede l’auto per identificarla in un contesto avulso da uno spazio-tempo che ormai ha deformato il senso stesso della magnifica Gran Torino (auto da museo). In altri termini Tao è il prodotto mentale di un nuovo modo di intendere mentre Ashley è una coscienza evanescente, uno sguardo che non medita sugli oggetti, che non cerca di conoscere. Walt farà la sua scelta, anzi il suo rimorso l’ha fatta da sempre, nell’attesa di un catalizzatore per mostrarsi come atto illocutorio(2). Una volta introdotto in una dimensione altra, connesso a una cultura prima scambiata per barbarie, Walt potrà percorrere la sua strada fino in fondo, una strada che aveva già scelto dopo l’esperienza coreana ma senza essere pronto. Gran Torino è un film in cui il tempo (nonostante una sceneggiatura apparentemente semplice e scontata) si piega bucando lo spazio. Soltanto che adesso le scelte sono cambiate, il film non è più una vittoria, un percorso che conduce ad una generica e vaga morale didascalica (insegnare che i buoni hanno ragione e vincono), ma una perdita (nel senso di smarrire qualcosa). Il film è un percorso in cui si perde sempre qualcosa, come quando camminiamo, o corriamo, perdiamo oggetti, liquidi, peso e il traguardo non rappresenta più un oggetto del desiderio finalmente acquisito, ma un ritrovarsi inevitabilmente sul filo di una nuova partenza, apparentemente simile alla precedente ma collocata su un altro livello qualitativo. In altri termini percorrere un film significa conoscere la storia di ogni pezzo, significa amare ogni minimo particolare. E’ come (mi si perdoni questo slancio emotivo) imparare nuovamente a vivere per trovare il senso di ogni cosa nella cosa stessa, scoprendo che l’anima del senso è consustanziale alla cosa. L’oggetto non è solo l’oggetto ma è un portatore di doni, una capsula temporale che ha attraversato il vissuto e si è arricchita di questo vissuto accumulatosi nella sua stessa patina. La patina è il respiro del mondo, la cultura che può e deve aiutarci a capire. Pertanto trovo alcuni aspetti di questo film magnifici: ne elenco tre ma potrebbero essere anche intesi come una trinità, divisi ma allo stesso tempo uniti.

Gran Torino è la flebile voce dell’anima che corrode la scorza dura delle convinzioni in quanto l’osservazione dei segni oppure dei rituali alieni è coordinata con la scoperta di un’altra America e dei suoi nuovi indigeni che comporta il coraggio di riuscire a smarrire il proprio spazio centralizzato. Eastwood ce ne dà un esempio sintetico e allo stesso tempo analitico nella sequenza dell’incontro con i parenti e gli amici di Sue. In pochi metri, superando la distanza che lo porta dalla sua abitazione a quella della famiglia Hmong, percorre uno spazio-tempo infinito, entra in una geografia diversa e in una cultura lontanissima dalla sua. Commette degli errori ma l’errore è il giusto prezzo da pagare per conoscere. Toccare il capo ai bambini e guardare gli Hmong negli occhi significa spostare un significato certo e compiuto (fare complimenti ai bimbi e mostrare la propria sincerità e desiderio incrociando lo sguardo degli altri) in un altro contesto in cui le certezze vacillano, il significato si trasforma. In questi gesti nuovi (“Mai toccare una persona Hmong sulla testa. Neppure un bambino. La gente Hmong crede che la sede dell’anima sia nella testa … E molti Hmong considerano molto maleducato guardare qualcuno negli occhi. Ecco perché guardano altrove quando li guardi”) si comprende benissimo come il senso non coincida con il significato (denotazione o coagulazione di valori) ma con un trans-significato (connotazione o liquefazione), ossia con una continua, interminabile trasformazione dei punti di riferimento che siano essi valori, rituali, convinzioni, ecc.
Gran Torino è come un saluto ap-parentemente scontato (se letto come cronaca il film potrebbe non piacere) ma tras-parentemente obliquo (se letto come produttore di senso il film potrebbe anche fare impazzire). Ammetto che l’epilogo del film è emozionante, sconvolgente. L’epilogo trascina l’anima nel baratro della disperazione per riportarla in un attimo nella forza della speranza. Da questa differenza di potenziale, lo spettatore, almeno per quanto mi riguarda, ne esce scosso oppure indifferente. Questa affermazione può sembrare la scoperta dell’acqua calda (una cosa o piace o non piace) e probabilmente in fondo sto cercando proprio di definire quale sia la temperatura oltre la quale la pelle passa da una sensazione di benessere a un’altra di dolore lancinante: un centesimo di grado prima è un gradevole sollazzo e un centesimo dopo un dolore insopportabile. La differenza sta nel percorso di Walt, nel suo passaggio dal gesto minaccioso e sicuro (la mano che mima una pistola che sputa fuoco) all’oggetto estratto in quanto oggetto adatto a svolgere la sua funzione (accendino per “infiammare” una sigaretta) ma anche oggetto-simbolo (accendino del 1951, della giovinezza e dell’eroismo della guerra in Corea) di un mondo che si completa adesso, nel presente, nel momento in cui “inganno” l’altro facendogli vedere il male (un revolver) che non ho ma che l’altro ha già creato nella sua mente. Pertanto un epilogo del genere può sembrare anche un ammiccamento al pubblico sensibile a certi cliché, ma secondo me è invece una sorta di ricerca propedeutica alla raggiunta consapevolezza che un mondo si è appena dissolto davanti ai nostri occhi, che un vecchio è riuscito finalmente, e per sua fortuna, a dare un senso alla sua vita, prima piena di significati (onore, tradizione, America, razzismo) divenuta adesso un’apertura infinita sulle variabili del mondo. E questo accade davanti ai nostri occhi o perlomeno Eastwood è riuscito a infondere la precarietà di questo gesto, già impresso sulla pellicola e sicuramente previsto e riportato sulla sceneggiatura, nell’attimo stesso in cui lo vediamo. C’è in questa sequenza un’amplificazione immane della capacità del cinema di sembrare continuamente un percorso in costruzione, ossia di dare l’idea che le cose accadano nel momento in cui le vediamo.

Gran Torino è una porta aperta sulla disgregazione delle certezze e sulla celebrazione di un arricchimento dovuto al confronto continuo e critico con l’altro, è la scoperta di un nuovo tipo di coraggio che non coincide con il coraggio del guerriero (Corea) ma con quello del vecchio stanco e debole che trova la forza di farsi aiutare da un giovane Hmong. Così come ci mostra una nitida enucleazione di significati (ghetto, crisi, immigrati, malavita, i ragazzi non sono quelli di una volta), il film tende anche a indebolire questi stessi significati cercando di farci notare una loro continua rarefazione, un’evanescenza che rende insicuri ma che aiuta a “vedere” oltre l’orizzonte limitato dei luoghi comuni (il ghetto siamo noi, la crisi c’è per tutti, la malavita colpisce prima quelli che credi nemici, gli immigrati possono essere tuoi amici, i ragazzi sono il ragazzo che eri). In altri termini le varie sequenze non tendono a spingerci verso una catarsi tanto appagante quanto sterile, ma verso un continuo arrovellamento mentale per cui la sensazione liberatoria non può e non deve essere sufficiente per definire le sequenze, i punti di vista, le inquadrature, perché le nostre aspettative, anche se forse risolte nell’epilogo, vengono nuovamente messe in discussione nell’ultima sequenza che è un’apertura sul mondo, una ridefinizione, partendo da nuovi presupposti, di un altro modo di proporre storie e forse uno sguardo su quello che potrà domani diventare il cinema.


(1) Sinclair (nato a Flint, Michigan nel 1941) poeta beatnik e pacifista, amante della musica jazz è stato manager del gruppo MC5, nonché responsabile di una casa editrice underground e fondatore del partito delle Pantere Bianche. Nel 1969 venne arrestato dalla polizia per detenzione di marijuana e fu liberato soltanto grazie alla lotta di un movimento popolare che culminò in un concerto organizzato da John Lennon che aveva scritto per lui la canzone “Sinclair”. Dal 2004 vive ad Amsterdam dove si esibisce con la sua band e gestisce programmi radiofonici.
(2) La funzione illocutoria in pragmatica è definibile come il tipo di azione che compiamo nell'emettere un particolare enunciato: domanda, richiesta, ordine ecc. Cfr. John L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Torino 1987.

27 commenti:

Ale55andra ha detto...

"Gran Torino è come un saluto ap-parentemente scontato (se letto come cronaca il film potrebbe non piacere) ma tras-parentemente obliquo (se letto come produttore di senso il film potrebbe anche fare impazzire)."

Non potrei essere più d'accordo, davvero. Come sempre, analisi magistrale, davvero profondissima e illuminante.

Slow Traveller ha detto...

Complimenti, bella analisi davvero :)

Ivan Fedorovic ha detto...

Complimenti....una domanda...in una delle scene iniziali osserviamo che affianco alla casa del funerale nella famiglia Hmong si festeggia una nascita... secondo te questo paragone è una semplice e banale affermazione di ciclicità e circolo di vita e di morte?...
Spesso siamo portati a vedere connessioni anche dove non ci sono spinti dalle situazioni..detto ciò l'altro giorno ho visto "nel corso del tempo" ed ho trovato i due film affini per certi versi..soprattutto per il fatto che bisogna fare i conti..almeno(o soprattutto) con se stessi...individui o popoli ...

Ivan Fedorovic ha detto...

ovviamente affianco =
a fianco...l'ora è tarda...chiedo venia...

Monsier Verdoux ha detto...

Che film!Il cinema di Eastwood è quanto di più asciutto ed essenziale possa esserci, così come il suo protagonista e la sua morale.
Un film immenso, ennesimo capolavoro di un regista fra migliori del mondo.

Anonimo ha detto...

Grandissimo film!! Uno dei film che sicuramente entreranno nella top ten dell'anno cinematografico.

P.s. ti andrebbe uno scambio di link?

ciao Davide di Acquitrini Cinematografici

chimy ha detto...

Grandissima analisi, come sempre, di un film sicuramente importante :)


Un saluto

Luciano ha detto...

@Ale55andra. Salvo rare eccezioni siamo spesso in sintonia^^ Anch'io mi sono ritrovato molto nella tua recensione. A presto.

@Bruna. Grazie. Vorrei poter leggere le tue analisi ;)

Luciano ha detto...

@Ivan. Può darsi ma ritengo che questa sequenza sia un iniziale confronto tra due mondi, due modi diversi di rapportarsi alla famiglia. Quella di Walt, tipicamente americana, distante, divisa, composta da una, due, al massimo tre persone. Quella Hmong ancora nel pieno del suo sviluppo che ricorda le nostre famiglie di solo mezzo secolo fa. Eppure, data l'età, Walt dovrebbe aver vissuto un'infanzia in una famiglia simile, ma per lui esiste solo la Corea, il suo incubo peggiore, e ancora non riconosce (o riconosce già ma non vuole ammetterlo) che davanti ai suoi occhi si sta rivelando il suo passato. Riduci riduci, morte e sesso (amore) sono i due fondamentali temi di ogni storia e nel film la morte s'innesta mirabilmente con l'amore. La morte nella famiglia Kowalski e la nascita tra gli Hmong: probabilmente anche ciclicità (spunto senz'altro interessante) e "passaggio di consegne" in un quartiere abbandonato dai bianchi. Questa sequenza in effetti rispetta un principio di costruzione filmica dirompente, ci introduce immediatamente nel nocciolo della questione. Nel corso del tempo è un film fantastico e non so se sia possibile fare un paragone (credo che Gran Torino non la spunterebbe). Comunque il tuo paragone mi sembra molto interessante. Dovrei rivedere il film di Wenders che non vedo da molto tempo. Ti ringrazio per la vista e spero di poter ricambiare il prima possibile.

Luciano ha detto...

@Monsieur Verdoux. Sono d'accordo: un film immenso e stupisce che Eastwood abbia giranto due film così intensi in poco tempo.

@Dylandave. Ho visto velocemente il tuo blog (ci tornerò qaundo avrò un po' di tempo) e mi sembra molto interessante. Adesso è tardi ma domani provvedo a mettere il link. A presto e grazie per la visita.

Luciano ha detto...

@Chimy. Senza dubbio un film importante che spero di rivedere presto. Ti ringrazio. Come sempre sei gentilissimo.

Anonimo ha detto...

Grazie inserisco anche te a presto

Noodles ha detto...

Hai ragione: la linearità, l'apparente semplicità d'intreccio degli ultimi film di Eastwood sono poi in realtà inversamente proporzionali alla carica poetica e al disincato dolente che permea questa sua magnifica stagione autunnale.

t3nshi ha detto...

Invidio tantissimo la tua capacità di analisi; un post veramente interessante.
"Gran Torino" mi è piaciuto così tanto che io non riesco a scrivere nulla. Mi escono solo frasi banali, assurdo.

Ciao,
Lore

cinemaleo ha detto...

Intenso e appassionante, asciutto e tecnicamente perfetto, "Gran Torino" coinvolge come pochi lavori e ha il pregio di invitare a riflettere e a discutere (merce sempre più rara sul grande schermo… e non solo). Intelligentemente i “diversi” sono presentati con luci ed ombre (come ogni essere umano). Non abbiamo una favola buonista e irreale e questo rende il messaggio del film più concreto e convincente: Clint ci dice che ogni individuo è un caso a se stante, non va giudicato per l’etnia o il gruppo di appartenenza (come purtroppo per molti, troppi, oggi avviene).

Luciano ha detto...

@Noodles. Ecco, in tre sole righe sei riuscito a "dire" ciò che io ho "detto" usando un fiume di parole. Capacità di sintesi notevole che io non possiedo.

Anonimo ha detto...

Ciao Luciano,
a proposito del tuo intervento sulla mia rece di "Un sogno lungo un giorno" ti rispondo in questa sede perchè attualmente non posso farlo nel mio blog: mi fa piacere che tu abbia condiviso l'amore che ho cercato di trasporre verso uno dei film più sottovalutati di FFCoppola.
Scusa per lo spazio rubato al film di Eastwood che spero di poter vedere non appena tornerò in Italia...intanto mi andrò a leggere la tua opinione sul film.

Un saluto

nickoftime

Luciano ha detto...

@Lore. Grazie. Sono convinto che invece prima o poi scriverai un post molto interessante. Non vedo l'ora di leggerlo.
Ciao.

@Cinemaleo. Giusto: ogni individuo è unico e irripetibile a prescindere da etnia, sesso, affetti, ecc. Un messaggio intenso ed emozionante portato aventi da un film costruito con maestria.

Luciano ha detto...

@Nickoftime. Un sogno lungo un giorno è fra quei film che mi piacciono per molti motivi, uno dei quali è il coraggio di Coppola di mettersi sempre in discussione cercando nuovi modi di fare cinema senza adagiarsi sugli allori. Infatti il film non andò bene e piacque a pochi, eppure sento che questa splendida tavola "tecnologica" dovre essere rivalutata e rivista anche da quei critici che all'epoca affossarono il film. Ma tu hai spiegato benissimo nel tuo post cosa sia questa splendida opera.

Unknown ha detto...

oddio che dire.. hai fatto un' analisi davvero bella e profonda, con la quale mi trovo completamente in sintonia. ho davvero adorato questo film, a distanza di tempo ancora mi commuove e mi colpisce.

ps. comunque complimenti per il blog, avrei uno scambio di link con i miei due blog, spero che accetterai mi farebbe piacere ^^ ti lascio i link:

http://guidagalatticaperautostoppisti.blogspot.com/
http://illabirintodeldiavolo.blogspot.com/

fammi sapere :)

Luciano ha detto...

@Smilla. Il tuo blog è molto bello (devo ancora vedere il secondo) ma ci voglio ritornare con più calma per leggere qualcosa. Spero domani di inserire i link (o al massimo dopodomani).

Buona Pasqua.

Bruna ha detto...

Luciano...le mie 'analisi' non sono certo paragonabili alle tue, le chiamerei piuttosto dei 'commenti di pancia' :)
Ma se hai questa curiosità, ogni tanto scrivo qualcosa, sul mio blog ultimamente però un pò trascurato...quello che ti interessa lo trovi taggato "cinema" :)

www.frammentidimenti.splinder.com

Luciano ha detto...

@Bruna. Ti ringrazio per l'indirizzo. Sarò presto nel tuo blog per leggere le tue analisi di "pancia" (e pertanto spontanee e quindi presumibilmente molto interessanti)^^

Pickpocket83 ha detto...

Ci tenevo a ri-leggere con la massima attenzione anche questo post. Post (magnifico) che appena uscirà il DVD del film stamperò e allegherò al DVD suddetto. :)

Luciano ha detto...

@Pickpocket. Troppo onore! Sempre gentilissimo :)

A presto.

Anonimo ha detto...

bello bello bello, solo a vedere Clint nella sua dignitosa terza eta` ho pianto......
bello bello bello

Luciano ha detto...

@Artaud. Sono perfettamente d'accordo. Una sola parola: bello.