25 febbraio 2009

Milk (Gus Van Sant, 2008) - 2/2

L'alba. Tosca è convinta che la fucilazione del suo amato Mario Cavaradossi sarà solo una simulazione, l'attesa è lunga e Tosca dice (canta): "Com'è lunga l'attesa! / Perché indugiano ancor?... Già sorge il sole... /Perché indugiano ancora?... è una commedia, / lo so... ma questa angoscia eterna pare!...". Ma quando si rende conto che il suo amato è stato veramente fucilato, sconvolta perché la vita senza Mario non ha più importanza, e per non farsi catturare da Spoletta ("Ah! Tosca, pagherai / ben cara la sua vita!..."), respinge con veemenza Spoletta stesso aggiungendo: "Colla mia". Poi corre fino al parapetto di Castel Sant'Angelo gettandosi nel vuoto con l'ultima disperata frase: "O Scarpia, avanti a Dio!". Un epilogo altamente drammatico, stupendo finale di un'opera meravigliosa, un compendio di pathos, movimento, canto. Non mi vergogno di affermare che la Tosca riesce sempre a sconvolgermi, ad emozionarmi oltre ogni limite. La Tosca di Puccini mi rapisce, mi trascina nell'evento, mentre rimango estasiato dalla musica e dal gorgheggio del tenore e della soprano. L'amore qui mostra tutta la sua forza. Tosca mente per amore, finge di concedersi a Scarpia e in cambio chiede la salvezza dell'amato Mario che è stato condannato a morte da Scarpia stesso per aver dato asilo al bonapartista Angelotti. Ma Tosca uccide Scarpia con un coltello prima di pagare il suo "debito". Anche Scarpia ha ingannato Tosca col farle credere che la fucilazione di Mario sarà simulata. Pertanto Tosca pensa a una commedia, immagina che il cavaliere Cavaradossi finga la sua morte ("Ecco un artista!"), ma non si rende che la recita di Mario è una atroce realtà. Il suicidio per raggiungere il suo Mario ma anche per non farsi catturare è il conseguente epilogo di una storia di tradimenti e inganni, di gelosia e amore. La morte aleggia in ogni atto, sin dall'incipit; morte come risultato delle passioni umane, evento a cui tendono le movenze sofferte dei personaggi. In Milk come nella Tosca siamo a conoscenza dell'epilogo perché Milk è un biopic e conosciamo la Storia del primo consigliere gay americano e Tosca è un'opera lirica la cui storia è risaputa. Pertanto nessuna meraviglia quando Dan White scarica il suo revolver su Milk e nessuna meraviglia che Tosca si getti dal parapetto per l'ennesima volta durante l'ennesima rappresentazione pucciniana. Quindi quando il consigliere comunale di San Francisco cade in ginocchio guardando oltre il vetro della finestra e vede sul palazzo di fronte il cartellone pubblicitario dell’opera lirica Tosca, pensiamo (ho pensato) a una metafora. Il dramma si conclude, l'opera ha termine e la scelta di Van Sant pare grossolana. Una metafora usurata, che non è più una metafora ma un luogo comune. Eppure dopo la visione del film, mi sono reso conto che non poteva essere così semplice. Perché Van Sant avrebbe dovuto inserire una logora metafora in un film tutto sommato di buona qualità, rovinando l'epilogo e rischiando di danneggiare l'intero film? Non poteva semplicemente mostrarci Milk che cade in terra? Forse. Ma riflettendoci definirei l'immagine di Tosca una metafora che si compie nel Fuori o forse meglio nella conoscenza storica dello spettatore, insomma una metafora "ellittica" (1). Non so quanto questa mia affermazione possa essere attendibile (dovrei approfondire l'argomento e chiedere il parere al alcuni linguisti) ma mi interessa innanzitutto proporre una mia idea sull'epilogo di Milk: la metafora della Tosca non è banale né tanto meno logora. Si tratta di congedarsi dal proprio pubblico mostrando due aspetti per me notevoli: 1) la metafora fuoriesce dallo schermo, o meglio, senza la nostra conoscenza della storia non saremmo davanti a una vera e propria metafora; 2) Milk, prima di morire,vede il "futuro", per un attimo rivive la sua vita e proietta nel mondo il suo lavoro, vede noi spettatori e quello che noi sappiamo sulla sua morte. È un rapporto molto sofisticato tra il personaggio e il suo pubblico, una sorta di feedback a due corsie, andata e ritorno dal film alla nostra mente e dalla nostra risposta al film. Infatti Milk viene ucciso, Tosca si uccide: c'è una leggera differenza. Milk aveva assistito alla Tosca e Van Sant ci ha mostrato la fine del terzo atto con la scena di Tosca che si getta da Castel Sant'Angelo. In effetti non è Milk a suicidarsi perché Dan White si toglierà la vita, circa sette anni dopo l’omicidio, nel suo garage col monossido di carbonio: questo non sarà mostrato nel film, sarà solo citato nelle didascalie finali. La metatassi si coniuga tra Tosca e Dan White. Ambedue hanno ucciso, ambedue si suicidano, ambedue sono personaggi importanti nel plot, ma secondari nella finzione, ambedue chiudono l'evento. Tosca in scena (anche se il volo nel vuoto non viene mostrato) e Dan White nel mondo (anche se ci viene fatto sapere tramite una didascalia). Il film non continua, ma la storia e il futuro attraversano quel cartellone che pubblicizza l'opera di Puccini proiettato dallo sguardo di Milk. Milk non è solo un personaggio, ma un eroe dei nostri tempi, che cessa di essere un semplice personaggio, che abbandona il suo ruolo nel film per essere consegnato alla storia o semplicemente al nostro bisogno di "sa-voir" (che in italiano tradurrei non con sapere ma con saper-vedere).

(1) Da non confondere con l'idea del Gruppo di Liegi di una metafora composta da due sineddochi complementari (vale a dire una generalizzante ed una particolarizzante), generate secondo i modelli Pi o Sigma. Ad esempio, sineddoche generalizzante + Sineddoche particolarizzande (Sg+Sp) gruppo Sigma : « betulla-flessibile-giovinetta » da cui, « La betulla è la fanciulla dei boschi »; Sineddoche particolarizzante + Sineddoche generalizzante (Sp+Sg) gruppo Pi : « vedova-veli-danza » da cui : « La ballerina che si accompagna alla morte », per dire : una vedova che ha perso da poco il marito. Cfr tr. it., Gruppo m, Retorica Generale, Bompiani, Milano 1976.

21 febbraio 2009

Il curioso caso di Benjamin Button (David Fincher, 2008)

Il curioso caso di Benjamin Button non è solo un film sul tempo poiché lo “scorrere” del tempo è usato in senso narrativo come componente essenziale dell'immagine-movimento (1). Il tempo è il presupposto, la motivazione diegetica di una conseguente riflessione sulla vita, sull'amore e sull'attimo da cogliere. Caso mai risulta interessante il Ludus in fieri, una sorta di gioco dell'oca che ospita le anime trascinandole di casella in casella, attraverso un percorso che si conclude inevitabilmente in un terminale senso-motorio. Al contrario Benjamin ha la fortuna (sfortuna?) di partire dall'arrivo per giungere alla partenza, un percorso inverso, ma sempre lineare, solo che il suo epilogo coincide con l'incipit di Daisy. La convenzione, la durezza di una crosta cementificata dentro un inconscio collettivo (legata anche a bisogni non solo etico-culturali ma antropologici e genetici) impedisce a Benjamin di “formarsi” come “piccolo” in crescita (accarezzando gli stadi evanescenti di un'infanzia tanto immaginifica quanto maledettamente evaporata nei ricordi). Il fatto è che Benjamin deve attendere la fine per scoprire la sua infanzia, accontentarsi di un enunciato terribile quanto impossibile: il suo aspetto e la sua conformazione molecolare lo relegano nell'ospizio invece che nel nido. Il nido-rifugio costruito dalla piccola Daisy non rappresenta la fuga dal mondo degli adulti ma è una linea di demarcazione tra il possibile (nonni che fanno giocare i nipoti) e l'impronunciabile (nonni che giocano con i nipoti). Riguardo a questo aspetto apro una parentesi: poiché l'incrocio avviene a metà strada, “luogo” ove l'amore non scandalizza (o meglio non innesca disgregazione e ludibrio), il “toccarsi” (sfregarsi, “scivolarsi”) dei corpi è possibile ed è tremendamente romantico (anzi il chiasmo “corporale” definisce il momento più alto dell'enfasi romantica), ma il Tango (io tocco) è più un Tetigi (toccai) almeno dal punto di vista di Benjamin, ossia il tempo non perdona in nessuno dei due sensi. Il tempo non è solo l'oggetto del film (una reputazione dell'immagine-movimento?) ma anche la sua materia (l’effrazione dell'immagine-tempo?). In altri termini nei tanti “snodi” in cui il senso rimane sospeso e il tempo cessa di esistere, inondando con la sua assenza molti dei sintagmi più belli, ciò che il film non raggiunge a livello sequenziale (chiasmo di un amore) lo fa a livello dell'immagine (metafora di un afflato). Il percorso più affascinante non è tanto la vita a ritroso (plot interessante ma anche performativo) quanto la sospensione-dilatazione di questa assenza di vita che pertanto si coagula in poche ma impressionanti immagini plastiche. E il modo per ottenere questa sospensione (assenza piena di senso, colma all'inverosimile di informazione polisemica, in altri termini: poesia) è la danza. Non tanto la danza come oggetto-metafora del desiderio-vita-amore di Daisy, quanto la danza come mezzo per farci rimanere “incondizionatamente” in questa bolla visiva prima che si connetta ad altre immagini per formare la sequenza. Soprattutto due, ma sono molte le immagini che scardinano la credenza in un mondo (la credenza in una verità inventata): Benjamin che si alza dalla carrozzina e impara a camminare, Daisy che danza davanti a Benjamin poco prima di offrirgli il suo amore, poco prima del “previsto” rifiuto senso-motorio di Benjamin. Due immagini in cui la danza dei corpi (quello impacciato del vecchio Benjamin e quello angelicato della bellissima Daisy) prende il sopravvento relegando l'Oca in obsoleti, lontani ricordi, annullando tutti quegli aspetti che trascinano la mente nell'appagamento, formando un type (2) occulto non tanto perché misterioso, quanto perché inenarrabile. In altri termini, mentre la relazione sull’asse referente-type, che secondo Klingenberg è una relazione di stabilizzazione e di conformità (3), si basa sul fatto “[…] che la struttura dei nostri codici è fondata sulle esperienze del passato”(4), il type strutturato dalla mente di Benjamin affonda le sue radici nel tramonto, come se i suoi codici mentali (tutte le cose che ha imparato) oltre a essere rovesciati, fossero evaporati lentamente nell’afasia dell’infanzia. L’infanzia non come apprendimento e formazione, ma come oblio e decostruzione. Il type di Klingenberg diventa un anti-type e il referente un “oggetto evaporato”. È come ad esempio se il type amore (costruito attraverso le esperienze affettivo-sessuali con la prostituta del casino, gli incontri con Elizabeth Abbott e la vita insieme a Daisy) fosse per Benjamin già saldamente presente nei primi anni, in pratica un codice innato che si destruttura durante l’arco della vita a ritroso. In fondo Benjamin e Daisy sono solo due poveri corpi abbandonati nel tempo: ossa doloranti di un vecchio che impara a camminare, gambe affusolate di una giovane ragazza che vive ancora nel sogno prima del brusco risveglio. In questo dentro, in questa bolla visiva a-temporale, immagine-tempo slegata dalla cinetica ma saldamente ancorata alla cinematica, il senso si accumula, si gonfia, tracima dagli argini, esce come il colore dalla trama di un tappeto (5), innestando direttamente la materia nella significanza: ossia il tempo fuggito dal plot grazie alla danza (ma non solo) trova nella sua assenza (il tempo percepito, il tempo spazializzato, il tempo del ricordo e della speranza, tempo passato e futuro non sono più percepibili) la sua stessa affermazione (tempo che prende il sopravvento legando direttamente il senso alla materia dell'immagine). In questi momenti mi sono sentito galleggiare nel nulla, percependo simultaneamente il senso di ogni cosa (contemplazione?). È in questa assenza di tempo, in questa Platonia ideata da Julian Barbour che mi sono rifugiato:

“[…] Tutte le cose che vediamo intorno a noi nell'universo sono soltanto parti di istanti di tempo. Disseminati su Platonia, vi sono istanti di tempo con Wagner che compone Tristano e Isotta, astronauti che riparano il telescopio spaziale Hubble, uccelli che costruiscono il nido e Julian Barbour che cuoce il pane. La funzione d'onda dell'universo riesce a raggiungerne molto pochi. La struttura della funzione d'onda e la forma delle leggi di natura - in cui la tendenza della gravitazione ad ammassare la materia è senz'altro essenziale - costringono la nebbia blu a scovare gli istanti più speciali, disposti lungo fili delicati. Penso che i cosmologi sbaglino a definire la figura 54 una cronologia dell'universo. È la mappa di un sentiero di Platonia. La nebbia blu splende in corrispondenza di istanti che contengono capsule temporali e tutte queste, nei loro modi diversi, raccontano di un viaggio da Alfa lungo un sottile filo di «storia» - un percorso che attraversa Platonia. Il tempo esiste in quegli istanti poiché essi riflettono la vicenda del percorso e, dato che la struttura di Platonia nella sua totalità costringe la funzione d'onda dell'universo a «illuminare» i percorsi, sotto un certo aspetto questi istanti riflettono tutto ciò che esiste […]. (6)

Istanti che riflettono tutto ciò che esiste. Una frase che mi emoziona e che trovo in molte immagini del film, dove il senso inonda lo schermo, oltrepassa i significati apparenti denotati dalla scansione delle sequenze. Un film per certi aspetti che ingabbia i personaggi in capsule temporali, parentesi di tempo che possono essere intese come “ricordi” temporali (se riconosceremo la struttura spazio-temporale di un film che è anche costruito per vincere premi) ma anche come bolle “amnesiche” dove non conta il percorso, ma l’uscita dal percorso stesso attraverso la conoscenza.

(1) cfr. Deleuze, L'immagine movimento, Ubulibri, Milano 1993(2).
(2) Il type secondo il Gruppo μ di Liegi è una rappresentazione mentale. Secondo Jean-Marie Klinkenberg il type “[…] si forma per via di un processo di integrazione e stabilizzazione di esperienze anteriori, realmente vissute o funzionali[…]. Ho già visto dei gatti e so che hanno dei baffi, che graffiano e che miagolano […]. Oppure non ne ho mai tenuti in casa […] ma ne ho sentito parlare molto: alcuni amici ne hanno e ne parlano parecchio, ho letto Alice nel paese delle meraviglie e perciò ho conosciuto il gatto del Cheshire, sono rimasto affascinato dalla lettura del Gatto con gli stivali e dei Gatti di Baudelaire e conosco buona parte dei commenti che li riguardano […]. La funzione iconica del type è quella di garantire l’equivalenza tra il referente e lo stimolo, un’equivalenza che è di identità trasformata. Referente e stimolo intrattengono dunque una relazione di co-tipia […] (Jean-Marie Klinkenberg, Problemi di una semiotica delle icone visive, in Gruppo μ, Trattato del segno visivo. Per una retorica dell’immagine, Bruno Mondatori, Milano 2007 pp.237-238).
(3) “Le nostre rappresentazioni degli oggetti del mondo sono diventate stabili grazie alle norme culturali”. Ivi, p.240.
(4)Ibid.
(5) “[…] La straordinaria «impressione di freschezza» dei lubok deriva dal fatto che in quei vecchi tappeti sono i fili a portare i colori, ma soprattutto che questi colori escono, esorbitano dalle forme rappresentate, si spandono anche oltre i contorni delle figure che dovrebbero riempire […]”: Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p. 45.
(6)Julian Barbour, La fine del tempo, Einaudi 2000, p. 318.

5 febbraio 2009

Milk (Gus Van Sant, 2008) - 1/2

Girare un biopic non deve essere semplice, in quanto un regista si vede costretto a decidere se “seguire” un percorso che restituisca l'ambientazione di una storia, il senso di un'epoca e il ritmo degli eventi occorsi al Personaggio, oppure se trasformare questo personaggio in un Coup de dés (1), in un simbolo da decifrare, una formazione del Caso, un gigante che ci trascina in un gorgo di eventi in cui sintagmi ben strutturati s'intrecciano al bisogno (forse romantico?) di provare emozioni. Emozioni, non conferme ai propri bisogni. Inoltre, anche se ho sentito in tv (ma perché mi ostino a guardarla?) che “oggi non fa più scandalo parlare dei gay” (ma cosa vuol dire “fare scandalo”?), ritengo al contrario che la questione sia purtroppo ancora da definire e da affrontare. Allora scegliere coraggiosamente una strada che tenga conto di tante esigenze (etica, politica, estetica) non è semplice e scontato. La “fluidità”, a cui Van Sant, ci aveva abituati in Elephant non appartiene a Milk, eppure Milk, nonostante sia un film apparentemente convenzionale rispetto a Gerry o Elephant, possiede un fascino particolare alimentato da un altro modus operandi. Saranno state esigenze di budget (ma per me non è stato semplice trovare una sala e quando l'ho trovata ricordava più un salone da carte di una casa del popolo che un cinema) (2), sarà stato l'argomento trattato oppure saranno state altre scelte di Van Sant per me imperscrutabili, fatto sta che il film è differente dagli ultimi suoi lavori. Ma questo non è e non deve essere considerato un limite, perché Milk protende verso la formazione di segni che definirei eutimici (3), il che non è poco se si riflette sulla resistenza degli obsoleti luoghi comuni che entrano in gioco ogni qualvolta l’arte si confronta sul tema dell’omosessualità (4). In altri termini ritengo che l’utilizzo del materiale di “repertorio” (i filmati dei gay arrestati e le scene di una San Francisco di annata), l’uso del bianco e nero, le foto, i riflessi (specchi e fischietto) restituiscano un effetto reportage al plot, quasi un voler prendere le distanze dagli eventi, volere affermare che oggi non è più possibile trattare la “storia del primo consigliere comunale gay americano” senza fare i conti con le immagini obsolete di un passato le cui ramificazioni continuano a impedire di uscire dall’impasse. E non è solo una questione culturale, anzi, proprio perché la cultura c’entra eccome, si tratta di affondare la lama nel modo in cui si presenta l’immagine di questo mondo. Pertanto il dramma non scaturisce tanto dallo sviluppo dell’intreccio (d’altronde lo Spannung in questo caso potrebbe coincidere con il tragico epilogo), quanto dal procedimento stesso. Ossia forzare il segno per affermare che non ci troviamo davanti al primo gay che.. al primo nero che… alla prima donna che…, ma che ci troviamo davanti al primo essere umano che ha messo in discussione una obsoleta prospettiva etico-religiosa, semplicemente mostrando alla comunità l’assenza di un punto di vista privilegiato. Quindi il segno “normalizzato” (ossia quello che ci hanno indicato come “giusto” e “opportuno”) lascia il posto al segno eutimico (nel senso di segno che mostra naturalezza e serenità), al segno in cui materiali (discorso, sequenze, filmico, ecc.) e storia si protendono oltre il luogo comune per evidenziare la necessità di un altro punto di vista. Allora la visione deve partire da un semplice concetto: Milk non è solo la storia del primo omosessuale che… ecc. ecc., ma è soprattutto lo sguardo su un certo tipo di orientamento sessuale, una tra le numerose componenti della sessualità. Sguardo sui diritti negati per un’attrazione affettiva e sessuale che non corrisponde alla “norma”, visione di un mondo strutturato diversamente, ma valido e naturale tanto quanto gli altri mondi, ma soprattutto percorso di conoscenza all’interno delle strutture etico-polico-affettive di una comunità in cui i gesti, i sentimenti, i problemi e le disgrazie sono componenti essenziali della vita, perché non vi sono etichette prestampate da attaccare sui corpi (i gesti di Harvey Milk e dei suoi amici non sono gesti gay o troppo affettati o troppo calcati ma sono gesti come altri, né migliori, né peggiori di altri gesti di altre persone di altre culture). Concludendo Van Sant ha badato soprattutto a introdurci dentro la cultura di un altro tipo di orientamento sessuale per conoscere non tanto la biografia e gli eventi di un grande uomo (eventi già conosciuti) quanto per conoscere un altro valido fondamentale aspetto dell’umanità, lasciandomi nel cuore una commozione così forte che non ho potuto esimermi dal pensare: “anch'io sono un nero, sono un paria, sono un gay”.

(1) Un coup de dés è un poemetto del 1897 di Stéphane Mallarmé.
(2) Ho visto Milk in un cinema con tre sale. Ovviamente proiettato nella sala 3, la più piccola, suppongo ricavata da una superficie pari a un terzo di quella che una volta era stata una galleria. Evidentemente vedere due uomini che si baciano infastidisce chi non ha ancora risolto i propri problemi. Mi spiace per queste persone che non riescono a crescere.
(3) (Cfr. “Wikipedia). “L’eutimia è uno stato d’animo di serenità o superiorità che consiste nel sopportare i dolori fisici e morali[…]”
(4) Nel citare il termine omosessualità o gay sono entrato purtroppo nel luogo comune e questo è testimonianza dei miei limiti culturali.