31 dicembre 2008

Il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia (1469-1470)

I tre livelli essenziali della città o meglio della sua rappresentazione scenica scandiscono la vita mondana e/o quotidiana della Ferrara di Borso d'Este, riflettono la sintesi prospettico-ideologica di un Rinascimento funzionale non utopico, ma, topico in quanto "[...] il tema funzionale e concreto predomina sull'astrazione, la topia prevale sull'utopia" (1). Questo aspetto della rappresentazione, oltre a restituire la memoria della vita quotidiana ferrarese del XV secolo, restituisce sinteticamente le immagini della vita cittadina, quasi come sequenze giustapposte sulle pareti del Salone dei Mesi. Questa sono divise in più zone ognuna delle quali è dedicata a un mese dell'anno ed è ripartita orizzontalmente in tre fasce che scandiscono le scene dipinte. In basso trovano posto immagini riferite alla realtà della vita di corte ai tempi di Borso D'Este; nella fascia centrale sono raffigurate le "astratte figure astronomiche", è questa la zona dedicata ai segni zodiacali; infine nella fascia alta del "mese" prendono posto le divinità pagane, gli Dei dell'Olimpo che osservano a distanza le ferventi attività umane. Purtroppo soltanto sette dei dodici campi (i mesi da Marzo a Settembre) sono più o meno leggibili, mentre gli altri sono irrimediabilmente rovinati. Non intendo analizzare nei particolari queste meravigliose opere dei vari pittori dell'Officina ferrarese (Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti nonché altri maestri di cui non conosciamo il nome), sia perché vi sono molti studi particolareggiati di esperti e studiosi sull'argomento tra i quali emerge il già citato lavoro(2) del compianto e illustre Prof. Ludovico Zorzi, sia perché il ciclo di Schifanoia mi interessa da un punto di vista che non attiene tanto alla Storia dello Spettacolo, quanto all'idea di suddividere il ciclo in mesi (tempo) e i mesi in tre ordini orizzontali (spazio). Il Salone dei Mesi è un’opera suddivisa in dodici quadri, dodici capitoli, oserei dire dodici macro-sequenze che concorrono a scandire il “passaggio” del tempo. Il Salone dei Mesi è una storia che scorre attraverso le stagioni della vita di corte e della vita cittadina, descrivendo l'operosità di artigiani, contadini, mercanti, come anche le attività ludiche. Ad esempio nel Mese di Aprile domina l'inserto del Palio di San Giorgio in cui gareggiavano aristocratici su destrieri, ragazzi su asini, corridori a piedi tra cui due donne, pertanto nobili contro plebei, purosangue contro asini o semplici umili appiedati. I personaggi si trovano in effetti contemporaneamente coinvolti nella corsa, sintesi (anche se si tratta probabilmente del palio derisorio in cui si umiliavano prostitute, ebrei, e plebe) dei quattro pali dedicati a San Giorgio (corsa di cavalli), San Paolo (corsa delle putte), San Romano (corsa dei putti), San Maurelio (corsa delle asine). Inoltre "la libertà della concezione spaziale consente all'esecutore un rovesciamento prospettico, secondo il quale le dimensioni dei cavalieri in corsa risultano inferiori a quelle dei cavalieri fermi in secondo piano" (3) in quanto le figure di Borso e della corte devono sovrastare, "con intento espressionistico, la fila sgranata dei concorrenti" (4). L'importanza del personaggio che assiste al palio, il Duca, è evidenziata attraverso la maggiore dimensione; l'interprete principale, il divo, non è la folla scomposta e disordinata dei partecipanti alla gara, bensì il pubblico regale capeggiato dal Duca, unico vero interprete (e committente) del testo che stiamo leggendo. La corsa del palio è il contorno oggettuale che non è l'origine dell'evento (così come non lo è la veduta di città in cui si svolge il palio stesso) ma la "catalisi", il riempitivo che viene utilizzato per sottolineare il gesto e la presenza del Duca Borso D'Este. Nella fascia inferiore della vita mondana il fulcro intorno a cui tutto ruota è il Duca, forza centripeta in quanto volontà creatrice e organizzatrice dell'evento. Ma la descrizione pittorica del Palio di San Giorgio non è soltanto un evento definito e luogo deputato incasellabile nella fascia della vita mondana, ma è anche una “casella”, appunto un inserto mostrato a distanza e delimitato da due quinte improvvisate (a destra un arco tronco, a sinistra l’arco di un portico). Si tratta pertanto di rappresentazione nella rappresentazione? Mi soffermo sul Mese di Aprile perché mi sembra il più interessante del ciclo. Nel secondo ordine dell’affresco tripartito troviamo i decani, ossia divinità egiziane legate ai segni zodiacali e ovviamente il toro, appunto la costellazione del mese di aprile. Nella parte alta è rappresentato il trionfo di Venere il cui carro, che scivola sulle acque del fiume, è trainato da due cigni. Sopra il carro, inginocchiato davanti a Venere, troviamo Marte appena sconfitto dalla dea dell’Amore. Sul prato vicino al fiume si muovono conigli e un gruppo di giovani dialogano, alcuni si abbracciano e iniziano ad amoreggiare. Come afferma Zorzi “[…] dal mondo sensibile della realtà, riprodotto in uno spazio fisico concreto, si sale, attraverso il cielo profondo della seconda sfera in cui si stagliano le astratte figure astronomiche, al mondo ultrasensibile della irrealtà olimpica, dove i corpi e i paesaggi acquistano una trasparenza metafisica” (5). Questo esempio del ciclo di Schifanoia mostra uno spazio-tempo concentrato in un’unica visione e in particolare mostra contemporaneamente la scena della realtà (quella voluta e desiderata dal potere del Duca) collegata alla sua rappresentazione più o meno “verosimile” (la scena teatrale del Palio di San Giorgio), la scena simbolica del tempo e del mistero che si staglia sopra le attività umane (i decani allo stesso tempo demoni e figure astratte dello zodiaco) e la scena ideale a cui tende o vorrebbe tendere lo spirito umano, ossia la vittoria dell’amore sulla guerra in un mondo già pacificato. Quindi laboriosità e sua rappresentazione, mistero e spiritualità. Il tutto montato in un’unica sequenza, contemporaneamente, che il cinema potrebbe definire come uno split-screen scorrevole in cui le immagini dei vari mondi, si allineano, si intersecano, si sviluppano e concorrono alla formazione non soltanto di una storia (l’ordine basso della Verosimiglianza) ma di un’aspirazione conformata, di una tendenza culturale che può attraversare un’epoca o almeno uno spaccato di mondo. Il mese osservato come unità, come opera intera, formata dalle parti, non appartiene soltanto all’ordine del Duca e al desiderio del Potere (controllo sul mondo, veggenza come desiderio di conoscenza, aspirazione all’ordine), ma anche alla capacità dello sguardo che riesce a sintetizzare in un’unica visione la parcellizzazione dei vari momenti topici. Pertanto il mese diventa un pre-cinema (mi si scusi la forzatura) che tenta di sviluppare contemporaneamente una storia e la sua rappresentazione (il pubblico, il palio), una tendenza ideale a qualcos’altro che diventa immaginario e irrealizzabile (una pace che trionfa secondo le regole) e infine il codice misterioso, quasi demoniaco, che probabilmente, nessuno (neppure il Duca) possiede. La conoscenza passa attraverso queste prove, anche attraverso uno split-screeen che non convoglia cronaca e racconto ma esprime la tendenza a manipolare questa cronaca attraverso la definizione di una volontà.

(1) Ludovico Zorzi, Ferrara: il sipario ducale in Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977, p.7.
Leggo sul Dizionario Battaglia, UTET vol. XXI p. 27: Tòpia. Pergola. "Voce di area settentrionale e, in particolare, piemontese, ligure, lombarda ed emiliana, dal latino topĭa , neutro plurale 'giardini artificiali', che è dal greco τόπιου 'campo', derivato da τόπος (v. Topos)". Ritengo che Zorzi intenda il termine nel significato di luogo "comune" ma nel senso greco di campo, nel senso di luogo fisico reale.
(2) Ibidem.
(3) p. 11.
(4) Ibidem.

21 dicembre 2008

La felicità porta fortuna (Mike Leigh, 2008)

Mentre la felicità regolata dalla legge presuppone una conformità a uno standard etico riconosciuto politicamente e socialmente (benessere, diritti, uguaglianza, ecc.) per garantire ma anche impedire una incontrollabile invasione della propria sfera "etica" e/o spazio-temporale, quella provata da Poppy è "felicità" proprio perché non definibile, non comprensibile, non ottenibile tramite una semplice e statica imitazione. Anzi il dinamismo offerto dall'apparente stato semi-incosciente della protagonista, contrasta con la statica accettazione degli eventi da parte degli altri personaggi (anche di quelli che sembrano controllare il proprio mondo come Tim). Gli altri non vengono contaminati dalla forza pura della concreta astrazione; concreta in quanto Poppy interviene nel flusso della vita (consigli agli altri, i problemi del bambino, l'abbozzo di una storia con l'assistente sociale), astratta in quanto la ragazza riesce a trasferire su di sé tutta l'energia che il mondo non restituisce più, arrivando ad esempio a "vedere" oltre l'apparente afasia del vagabondo (un meraviglioso dialogo che nasconde sotto le righe la forza prorompente della poesia, capace di portare la sua violenza organizzata alla norma). Gli altri si limitano a distanziarsi ed esternare le proprie divergenze perché, troppo presi dal loro ritmo prosastico, non comprendono la polisemia, né le cesure, non sanno quando sospendere il senso (e la voce) e quando invece si deve correre sul verso per giungere d'un baleno all'ultimo lemma. Gli altri non capiscono perché tanta euforia, perché tanta energia, perché tanto mistero. Il mondo di Poppy sorge su altri lidi, segue un sentiero dinamico e pluridirezionale, non è una proiezione su un piano cartesiano, ma è un'immagine olografica che si proietta nel vuoto. E se la norma del mondo di Poppy è una Inghilterra in cui non ci si diverte in discoteca o ci si ubriaca per anestetizzare il dolore provocato dal reale, se la norma è un'auto in cui si deve obbedire e non portare stivali con tacchi, se la norma è una famiglia che si è scollata da tempo, una insegnante di flamenco che trascina il suo dolore nella danza, una bicicletta rubata, la forza della poesia (la sua funzione) deve consistere nel violentare questa norma (1), organizzando un dialogo profondo e diretto con l'anima. Poppy riesce a fare tutto questo perché la sua beatitudine in certi momenti diventa poesia, si riflette nell'attimo indimenticabile dove l'armonia s'incontra con i nostri sogni, l'attimo in cui giunge improvvisa l'epifania (2). Lo sguardo apparentemente disorganizzato di Poppy mi ricorda infatti l'obraz (3) ejzensteiniana, ossia "[...] una vera e propria Gestalt, una formazione della mente per sintesi di dettagli parziali privi di un senso comune, che lo acquistano nel momento in cui vengono collegati in una struttura interiore" (4). La formazione di un senso che illumina il volto di Poppy può anche non influenzare la trasmissione di questo stesso senso all'altro (una illuminazione). Infatti neppure il "beato" è in grado di definire analiticamente lo stato della sua beatitudine. Poppy saprebbe riferirci il significato del suo dialogo con il vagabondo? Saprebbe spiegarci com'ha fatto a comprendere che colui che soffre non è Abele ma il probabile candidato ad essere un futuro Caino? Ritengo che la Beatitudo di Poppy (intesa come completa felicità dello spirito) si sciolga lentamente in una più consapevole Felicitas (nel significato latino di fecondità). Ossia l'abbagliante senso di armonia con le cose, la contemplazione quasi divina di una condizione superna (per cui Poppy si può anche permettere, in un certo senso, di giocare con i limiti terreni del prossimo), si stempera in una condizione più umana, più controversa, con la scoperta dei limiti e delle difficoltà della trasmissione agli altri, si stempera cioè in una condizione di profilo più basso ma più fecondo: fertilità come ritorno alla maternità, ritorno all'acqua (Poppy e Zoe in barca sul laghetto cittadino), fertilità come consapevolezza che la gioia (della madre) scivola lentamente fuori dal dolore (il travaglio, il pianto del bambino). La felicità di Poppy non è trasmissibile (o lo è solo in parte) perché è Beatitudo, uno stato di grazia che tra l'altro è di breve durata (almeno fino allo sfogo rabbioso di Scott) e intendo beatitudine proprio nel senso che Montale suggella nella sua poesia "Felicità raggiunta, si cammina"(5). Ossia felicità come momento breve e fragile, già intrisa, nel momento stesso del suo catartico arrivo, di un dolore spazio-temporale che riconduce a terra l'aerea leggerezza del beato. Per dolore spazio temporale mi riferisco innanzi tutto alla dimensione temporale del ricordo e della speranza (rapportare la condizione di beatitudine al passato e ad un ulteriore arricchimento di un futuro incerto) e in secondo luogo mi riferisco alla dimensione della prospettiva classica occidentale (Masaccio). Solo il momento del passaggio tra le due condizioni definisce l'immacolata Beatitudo e questo attimo è splendidamente metaforizzato nell'incontro tra Poppy e il vagabondo e soprattutto dal dialogo in cui l'apparente afasia non è altri che l'ammissione dell'imperante acatalessia. La conoscenza parte da questi presupposti, dalla consapevolezza stessa che il senso è una equazione di grado infinito, espressione di infiniti risultati; ciò che non va mai perso di vista è la volontà di conoscenza (anche se l' immensità scoraggia e il dialogo è faticoso da capire). Infine Poppy come metafora del cinema, che si muove lungo il suo tragitto tutto da definire, tutto da stabilire: una scelta questa (come procedere nella formazione di un'idea) che si inserisce tra l'atto manicheo di suddividere il mondo in forme bianche e nere e la rinuncia a voler affondare il dito nella piaga della complessità per timore di mettersi in gioco. L'afasia insomma è un rischio che bisogna correre, che il cinema deve affrontare (questo al di là delle storie ma anche attraverso le storie), non solo per conoscere le metamorfosi in atto (le trasformazioni del senso e dell'equilibrio inteso come ininterrotto assestamento) ma per rappresentare anche le performance del progetto (sceneggiatura) e di tutto ciò che sta dietro al progetto.

(1) Jan Mukarovskij, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, Torino 1974 (3). "L'opera d'arte è sempre un'applicazione inadeguata della norma estetica, essa ne viola lo stato non già per necessità involontaria ma intenzionalmente e perciò di regola in modo assai sensibile. La norma viene incessantemente violata. [...] Esaminata dal punto di vista della norma estetica, la storia dell'arte appare come la storia delle rivolte contro la norma (le norme) dominante" (pp. 68-69).
(2) Umberto Eco, Le poetiche di Joyce, Bompiani, Milano, 1987, pp.44-58.
(3) Il concetto di Obraz (immagine) è importante per capire la teoria del montaggio di Ejzenstein, cioè l'immagine che lo spettatore ricostruisce nella sua mente. Gli innumerevoli dettagli della rappresentazione in un primo momento risultano evanescenti e insignificanti, fin quando d'improvviso, quasi come in un'epifania, formano per sintesi l'immagine unitaria(obraz).
(4) Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p. 48.
(5)
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case
(Ossi di seppia)

10 dicembre 2008

Changeling (Clint Eastwood, 2008)

L’altezza di un bambino (nove centimetri più basso del novenne Walter Collins) o la differente arcata dentale o il fatto che il piccolo mistificatore non ritrovi il suo posto in classe, convincendo così la maestra di non avere davanti a sé il “vero” Walter, non rappresentano prove a carico messe a disposizione dello spettatore al fine di ricostruire un’indagine che concordi con la versione della madre, Christine Collins. Per questo sarebbe stato sufficiente il punto di vista della madre e noi spettatori avremmo comunque stabilito un “contatto” empatico con lo “sfortunato” personaggio. Durante la sequenza finale del film uno spettatore ha pronunciato appena un attimo prima di Angelina Jolie la fatidica parola, “speranza”, crogiolandosi nell’autocompiacimento dopo avere avuto conferme alle sue aspettative. Alcune persone in sala si sono indignate quando Gordon Northcott ha negato la sua colpevolezza; uno spettatore seduto alcune file sopra di me ha sentito di odiare il capo della polizia lasciandosi sfuggire una brutta parola. Con questi presupposti il film potrebbe sembrare il solito spettacolo accattivante, un’opera che ti prende per mano e ti conduce nel suo dipanarsi événementielle fino all’epilogo ormai stampato da tempo come scelta mentale voluta dal regista o dalla produzione. Ma Changeling per fortuna non è un film che vuole mostrare la forza della speranza, perché questa forza è già evidente sin dal primo fotogramma, anzi è già espressa nella storia “vera”, o meglio nei verbali del processo che si tenne nel 1928 nei confronti del capitano Jones o negli articoli dei giornali dell’epoca. La sostituzione del figlio con un impostore e il comportamento della polizia che cerca di avallare la veridicità “fisica” degli eventi e la “malattia” della madre sono espedienti utilizzati spesso dal cinema per “convincere” i nostri sensi che gli evanescenti fantasmi scolpiti dalla luce siano proiezioni reali. Ma questo non è il caso di Changeling, perché la malattia non risiede nella mente della cavia che si ostina a non riconoscere, ma nel tentativo di formare un’immagine verosimile. In altri termini il bambino impostore potrebbe essere il vero Walter in quanto icona di un’epoca, ossia idea fotografica di un certo modo di concepire l’infanzia americana degli anni venti. In fondo possediamo solo cinegiornali, fotografie, incartamenti, verbali che aiutano certamente a ricostruire storicamente gli eventi di un’epoca tramontata, ma che non rilasciano l’odore, la forza prorompente dei tempi. E solo il cinema possiede quella dose di magia per poterlo fare. L’odore di un’epoca, la sua segreta vitalità, la sua essenza profonda è trasmigrata nel cinema, nella sua capacità di raccontare ma anche di “mostrare”. A questo proposito due aspetti mi hanno particolarmente colpito: il gioco fluido dell’effetto di reale; l’utilizzo del campo/controcampo.

La fluidità della mdp ci mostra bambini che giocano, i loro giocattoli, asce insanguinate, cappellini, una centralina telefonica dell’epoca, le vecchie auto dei nostri ricordi qui nuove di zecca, tram che viaggiano lentamente, quasi a passo d’uomo, che puoi rincorrere per un po’ sulla pavimentazione della via. Il cinema non può ancora rilasciare concretamente gli odori che invece mostra attraverso le immagini, ma questi stessi odori emergono nelle sensazioni provate attraverso un input che lo sguardo invia all’olfatto. Odori immaginari, non riprodotti dalla tecnologia(visione, audio) ma da una certa atmosfera che inverte il meccanismo per cui si realizza la funzione olfattiva. I recettori degli stimoli delle mucose nasali trasformano l’informazione chimica in impulso nervoso, ma in questo caso probabilmente l’immagine, e l’atmosfera dei tempi che suscita, stimola il ricordo di antichi profumi, resuscita l’odore insito nei tempi, quell’odore di amido e lavanda che usciva una volta dai cassetti della nonna, di bucato pulito lavato a mano e di dolci e caramelle che il commesso prelevava dal boccione di vetro di un’antica pasticceria. Forse questi profumi li ha “annusati” soltanto il sottoscritto, ma suppongo che Clint Eastwood abbia scelto (com’è suo solito) la ricostruzione puntuale e inappuntabile di un’epoca o almeno di come oggi “deve” essere immaginata quell’epoca. Los Angeles anni venti-trenta, polizia corrotta che uccide senza regolari processi e che rinchiude donne supposte fragili ma in realtà forti e tenaci, bambini che mangiano panini incartati con cura, camminano da soli per le strade, abbandonati o semplicemente lasciati crescere nel mondo. In una sequenza del manicomio assistiamo ad un elettroshock, un macchinario diabolico che fa scorrere la corrente elettrica nel cervello del paziente inducendo convulsioni, utilizzato su una “paziente” che non accetta il suo ruolo voluto dalla società civile. Questa terapia elettroconvulsivante, detta TEC, (dovrei rivedere il film, ma all’epoca era già stato inventato il macchinario?) induce una scossa nel cervello del malato ma anche nella nostra mente; è la sintesi estrema, la personificazione del Male spacciato per il Bene. Città degli Angeli, 1928; eppure sembra di essere agli inferi, ma il fatto è che gli inferi sono verosimili, ingannevoli, perché riescono a creare illusione di realtà, a ingannare mostrando una qualità sopportabile del Bene. Il cinema è stato ed è un mezzo capace di supportare queste volontà politiche, offrendo con la sua Luce bianca e pura ogni possibilità di redenzione, di ricostruzione. Infatti viene offerta a Christine Collins la possibilità di ricostruirsi una vita verosimile attraverso la convivenza di un figlio verosimile in una Los Angeles verosimile. Ma Eastwood mostra solo in lontananza questa città verosimile perché quando la mdp si avvicina alla superficie, e scava dentro gli oggetti, dalle fauci della terra emergono gli scheletri degli effetti di reale: gli oggetti mostrano, indicano, rivelano che siamo all’inferno, che la luce del cinema non è pura, ma opaca. La sig.ra Collins sceglie la seconda possibilità: gettare la maschera, non prendere droghe, rifiutare l’apparenza della bellezza. La bellezza è anche la polvere del macadam, è anche il respiro della morte, non perché la morte sia bella ma perché la morte esiste ed è concreta, trasforma in larva anche il peggiore dei criminali. L’appiccato e i suoi tremori è un altro effetto di reale che non indica un autocompiacimento, una soluzione trovata e completata dal Bene (purtroppo in sala ho sentito “gridolini” di sollievo, appagamento per l’espiazione del “cattivo”), ma solo la fredda affermazione del Male, la ricerca di una conoscenza, un’analisi compiuta (attraverso i movimenti del condannato che sale le scale, si lamenta, soffre, ha paura, viene incappucciato) per scavare ancora una volta nelle viscere della terra scoprendo ciò che non è possibile vedere. La realtà è costruita attraverso i suoi oggetti, attraverso i suoi particolari e Eastwood, da grande regista qual è, lo sa benissimo.

Non gradisco molto nei film contemporanei l’eccessivo utilizzo del campo controcampo, lo confesso, e per eccessivo uso intendo solo tre o quattro scene. Non lo sopporto più di tanto, lo apprezzo certamente nel cinema classico, ma non in quello odierno; eppure in Eastwood riesco a gradirlo perché il suo non è un uso precipuo per mostrare l’altro, ma per annullare lo spazio dell’altro. Innanzi tutto sovente, quando inquadra il volto nitido e in primo piano (anche in primissimo piano) dell’attore in campo, la nuca dell’interlocutore è spesso mostrata fuori fuoco. Come se non bastasse l’annullamento dell’altro attraverso la formazione di un inganno (la donna è pazza e va curata), un inganno verosimile, si annulla anche l’altro attraverso l’esclusione, per cui il controcampo diventa luogo di interdizione, una porzione di territorio altrui. In questo concordo con Giona A. Nazzaro quando scrive: “Scindete la parola: contro-campo sembra indicare la porzione di territorio, spazio, inquadratura occupata dall’altro per antonomasia, ossia il nemico, e ciò che potenzialmente ci nega come identità che guarda, essendo noi nel campo” (1). Quindi noi siamo “portatori di un altro controcampo”, siamo coloro che escludiamo ma anche coloro che sono esclusi. Questi primi piani della Collins e del capitano Jones che si affrontano nel campo/controcampo sono un duello oltre che diegetico anche iconico. Il rossetto di Christine che risplende sulle sue labbra e che dovrebbe denotare un senso erotico, accattivante, attraente, in realtà ispira sofferenza, ispira il sangue della guerra come quello incrostato sull’ascia utilizzata da Gordon Northcott per abbattere bambini. Ecco perché lunghi brividi hanno attraversato il mio corpo, un po’ come convulsioni indotte da un macchinario, per via dei profumi, del sangue, dei poveri resti e dei semplici oggetti quotidiani che oggi non esistono più se non nei musei o in qualche soffitta.

(1) Giona A. Nazzaro, L’epifania dell’altro, in Filmcritica n. 573 marzo 2007 p. 123. Questo articolo di Nazzaro è un’analisi di Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood.