31 agosto 2008

La Samaritana (Kim Ki-duk, 2004)

Edgar Morin in un suo saggio di molti anni fa (1), ma sempre interessante e attuale, citando Sartre (2) afferma che l’immagine mentale è una struttura essenziale della coscienza, una funzione psicologica. “Non è possibile dissociarla dalla presenza del mondo nell’uomo, dalla presenza dell’uomo nel mondo. […] Ma nello stesso tempo l’immagine non è che un doppio, un riflesso, cioè un’assenza. […] L’immagine è una presenza vissuta e una assenza reale, una presenza-assenza” (3). Per Morin una rappresentazione oggettiva può dar luogo a una maggiorazione soggettiva poiché un medesimo movimento accrescerebbe “[…] il valore soggettivo e la verità oggettiva dell’immagine fino a una “oggettività-soggettività” estrema, o allucinazione . […] Questo movimento che valorizza l’immagine la spinge […] verso l’esterno e tende a darle corpo, rilievo, autonomia. È questo un aspetto particolare di un processo umano fondamentale: la proiezione o l’alienazione” (4). Morin continua il ragionamento affermando che “[…] nell’incontro allucinatorio della più grande soggettività e della più grande obiettività, nel luogo geometrico della più grande alienazione e del più grande bisogno, c’è il doppio, immagine-spettro dell’uomo” (5). Il doppio concentra tutti i bisogni individuali e soprattutto il “[…] suo bisogno più follemente soggettivo: l’immortalità”. Ovviamente il discorso di Morin è molto più complesso poiché nel suo libro affronta vari problema legati soprattutto alla fotografia e al cinema, pertanto mi scuso di utilizzare in maniera riduttiva alcune sue affermazioni che mi servono per delineare tre aspetti: 1) Vasumitra o l’implosione del doppio; 2) Samaria o de-proiezione virtuale; 3) Sonata o perdita della propria ombra.
(Attenzione spoiler!) Vasumitra è un falso. Jae-yong nel film dice che una prostituta di nome Vasumitra era in grado di convertire al buddismo coloro che avevano giaciuto con lei. Ma Vasumitra fu un patriarca del buddismo e non vi è nessuna traccia nei Canoni di una donna che si prostituisce per convertire gli uomini. Ma Vasumitra è anche una verità perché Jae-yong prostituendosi insegna la compassione agli uomini che incontra, insegna cioè la prima virtù morale del buddismo, ossia percepire dentro di sé la gioia e il dolore dell’altro. Vasumitra è il medium (con facoltà medianiche o mediatiche?) che definisce l’atto proiettivo dello spettatore. E’ un doppio in quanto “nostra” proiezione nel senso di trasposizione della nostra vita “reale” (identificazione con la vita della prostituta redentrice Jae-yong), ma è anche il doppio poiché ci troviamo di fronte non solo a una proiezione mentale (alienazione) ma anche ad una iper-identificazione (siamo nei panni di una ragazza che decide di “identificarsi” con l’altro, ossia in questo caso di percepire dentro di sé la gioia dell’altro). Potremmo definire Vasumitra come il riflesso del doppio? (E poiché per Morin nel riflesso si trova il doppio allora potremmo affermare che Vasumitra è il doppio del doppio?). Il tema del doppio in questo film si sviluppa non solo metaforicamente ma anche visivamente. Jae-yong in fondo é il doppio (o meglio solo un riflesso) di Yeo-jin: ci troviamo davanti ad uno yin e yang in fieri? In fondo le due ragazze sono contrapposte. Una si prostituisce, l’altra no (almeno nel tempo di Vasumitra), una sorride sempre e mostra gioia e soddisfazione nel donare felicità, l’altra è nervosa, vive con sofferenza e senso di colpa la sua “purezza”, Jae-yong si lava con gioia e gode del momento catartico, Yeo-jin lava l’amica per purificarla (“Ma è una cosa lurida. Che ne sai tu dove sono stati quei tipi” le dice). E come yin e yang, l’una non può esistere senza l’altra (quando ciò accadrà l’implosione sarà avvenuta). Ambedue le ragazze sono complementari, si sostengono a vicenda, si aiutano, l’una vive per l’altra, l’una non può vivere senza l’altra. Infine, una volta eclissatasi Vasumitra, Samaria prende il suo posto. Lo yin e lo yang si sono trasformati e i complementi hanno compiuto la loro metamorfosi. Vasumitra come proiezione di Samaria, come compassione si è esaurita. Non eravamo davanti alla nostra identificazione proiettiva perché la bambina-prostituta era il sogno di un’altra bambina. La Samaritana sorge per purificare il dolore. In fondo ci troviamo di fronte all’allegoria di un’immagine (“allegoria” nel senso di figura relativa suscettibile di discussione critica, “immagine” nel senso di Vasumitra come “simbolo” dell’immagine). Rischio di essere criptico. Intendo dire che Vasumitra non è il simbolo dell’immagine filmica (perché non lo è, non la rappresenta, non ne è un canone definito e rigoroso), ma l’allegoria (l’allegoria è legata al contesto ed è discutibile). Questa immagine in fondo è contestuale e opposta all’immagine di Samaria, altra contraddizione allegorica. Samaria, la Samaritana, non solo come riscoperta del perdono; infatti Yeo-jin ripercorre inversamente la strada di Vasumitra prostituendosi soprattutto per de-costruire l’intreccio perso con la morte dell’amica, restituendo i soldi guadagnati da Jae-yong e custoditi gelosamente da Yeo-jin. Ricucire lo strappo montando altre possibilità proiettive. Ma la Samaritana è soprattutto quella del Vangelo di Giovanni:. “Una samaritana venne ad attinger l’acqua. Gesù le disse: Dammi da bere”.(Gv 4,7). “Ma la donna samaritana gli disse: Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? Infatti i Giudei non hanno relazioni con i Samaritani”. (Gv 4,9). La donna si stupisce crede in Gesù. Samaria crede nella redenzione, nella possibilità di ricucire, di rimontare il vissuto. La sua proiezione adesso non è più nello sguardo rivolto verso Vasumitra, ma nella pace e nell’appagamento dell’io interiore. Tutto quello che era frutto del suo punto di vista (l’amica che la saluta dalla finestra dell’appartamento alcova, i soldi che le affidava, gli uomini-mostro che “osavano” rendere impura la sua visione) adesso è imploso in lei. Il suo sguardo non è più un punto di vista onnisciente e schematico, coerente e astratto (nel senso di astrazione di alcune linee spaziali come fulcri della rappresentazione e del successivo giudizio) ma imploso nel Dentro, nel suo “sacrificio” diventando esso stesso proiezione di un altro sguardo, quello altrettanto codificato e limitato di Yeong-ki, il padre poliziotto pronto a scrutarla e seguirla per vendicarla. Mentre la prima parte (circa un terzo del film) si sviluppa e si scioglie come alienazione della piccola Yeo-jin, la seconda (circa la stessa durata della prima parte) trascina Yeong-ki nella vendetta. Le due istanze attanziali però sono complementari e funzionali allo scioglimento della seconda parte. Mentre nell’episodio di Vasumitra erano yin e yang, qui non c’è più posto per gli opposti. Il padre non è immagine speculare della figlia ma degli altri clienti, Yeong-ki ama la figlia come padre ma anche come potenziale amante geloso. Le sue proiezioni sono misteriose e solo vagamente accennate. Le immagini si scuotono, diventano sempre più rappresentazioni di uno scacco. La proiezione si allenta, si svuota, si decompone in mille rivoli. Il pedinamento della figlia porta il padre a “conoscere” i clienti , a minacciarli, a malmenarli. Due le immagini che allentano l’identificazione: il primo piano del selciato prima della caduta del suicida che mostra soltanto, dopo la caduta, il rivolo di sangue che scorre nelle fenditure della pavimentazione; la lotta in una melma di sangue e urina tra Yeong-ki e un cliente ripresa in campo medio. La Sonata è un’auto, quell’auto che conduce fuori da Seoul padre e figlia, portandoli in fondo a un percorso, dentro il ricordo (la tomba della madre) e dentro l’acqua bassa di un fiume. La macchina rimane nel mondo con le ruote affondate nell’acqua, adagiate su un fondale ghiaioso. La proiezione mentale sta perdendo il suo spettro (i personaggi) e la certezza di un significato ulteriore, un’altra potentissima proiezione: il sogno di Samaria (o forse di Yeong-ki o forse di un’istanza astratta) che viene uccisa dal padre e sepolta lungo la sponda del fiume. Ma la sequenza onirica è anch’essa filmica non potendo che essere rappresentazione del sogno. Tra sogno e film vi sono molte analogie (dilatazione e contrazione del tempo, suddivisione dello spazio, ecc.), ma il sogno presenta degli errori, dei “passaggi” imperscrutabili, il sogno è preconfezionato e la sua sceneggiatura viene scritta solo al risveglio, non essendo possibile prevedere a priori la sua precisa rappresentazione. Questi errori sono ripresi da Kim Ki-duk nella Samaritana. In particolare un “errore” del sogno diventa un raccordo corretto nelle riprese oniriche ma “sbagliato” nella sequenza “reale” dell’epilogo. L’auto si trova nell’acqua del fiume e nel suo sogno Samaria esce dall’auto mettendo i piedi nell’acqua, mentre nel substrato filmico delle proiezioni mette i piedi sulla ghiaia. Come a dire: tutto questo è meno di un sogno perché è stato previsto. Infatti potrebbe essere una mia proiezione “sbagliata” o personalizzata, perché tra il risveglio di Yeo-jin e l’inquadratura dell’auto sulla ghiaia del letto fluviale c’è stata una ellissi. Insomma il cinema siamo noi.

(1) Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli UE, 1982.
(2) Jean Paul Sartre, Immagine e coscienza, Torino, Einaudi, 1968.
(3) Edgar Morin, Il cinema…, p. 41.
(4) Ivi, p. 42.
(5) p. 43.

27 agosto 2008

Ferro3 - La casa vuota (Kim Ki-duk, 2004)

In un’intervista Kim ki-duk ha detto che non gli piace giocare con la macchina da presa o con il montaggio perché “durante la ripresa il massimo sforzo deve essere dedicato alla recitazione e alla costruzione dello scenario”(1). Quindi movimento dei personaggi e cura del quadro, cura della scena come luogo pittorico e differenziazione degli oggetti in quanto componenti fondamentali della storia, ma anche del tratto come percorso obbligato per comporre il disegno. In Ferro3 gli attanti si sviluppano attraverso l’inesauribile ricorso al silenzio. Nel film non si sente il bisogno della parola o almeno il dialogo non determina e non influenza il travaso del sapere dal mittente al referente, in quanto il sapere (la particolare storia d’amore tra Tae-Suk e Sun-hwa) è già “contenuto” nell’immagine in sé (non nelle sequenze ma in un’immagine). Il fantasma che “occupa” gli appartamenti e ripara gli oggetti è la sutura interna di un montaggio in fieri che Kim ki-duk “cuce” davanti all’obbiettivo attraverso la cura dell’immagine e il récit. In questo senso gli oggetti prendono il sopravvento, acquistano valenza di personaggi tout court non in quanto rappresentazioni di un agire che segue la linea temporale degli eventi, bensì in quanto forme del mondo catalogate e ricomposte seguendo altre coordinate. L’oggetto diventa la causa e allo stesso tempo il porta voce silente di un rapporto e, in quanto concreta durezza del vissuto, materia e colore di un ricordo, deforma i corpi intesi come essenze evanescenti in balia degli eventi. Poiché il parlato è pressoché assente, le relazioni tra i due personaggi sono sensoriali, sensibili, tattili; i corpi comunicano senza uso della parola o della ragione. Condividere sensazioni e “situazioni” corporee conduce verso la fusione di due differenti soggetti, fusione delle percezioni e dei sensi in un unico corpo (estesia). Il sapere (il racconto) è già inscritto nel cerchio formato dalla pallina colpita dal ferro, in quanto pallina bucata e legata al suo baricentro. Il cerchio che forma (o che tenta di formare) non aggiunge niente alla sua ricerca di una fuga. La forza centrifuga che produce riesce talvolta a rompere la corda procurando solo indebolimenti del senso (la donna colpita in auto sopravviverà?). La scomposizione interna al quadro, la ricerca di una forma ulteriore che sottolinei il rapporto con le cose, conduce a una ridefinizione dello spazio dove “i pezzi” non stanno al loro posto (i cuscini spostati, la foto di Sun-hwa tagliata e ricomposta senza seguire una “logica” formale, i non-occhi dell’immagine del pugile, la cornice senza il suo “contenuto”). Il tratto (fluida leggerezza dei movimenti che accarezzano l’aria) e il colore (gli oggetti, i lividi di Sun-hwa che svaniscono di sequenza in sequenza e il sangue della donna colpita o quello del labbro rotto di Tae-Suk) si attenuano, quasi evaporano davanti al nostro sguardo; perdendo la propria consistenza abbandonano gli eventi in un substrato mentale che ognuno potrebbe ricucire a piacere. Tae-Suk è morto in carcere e quello che vediamo è il suo fantasma? La donna è impazzita e vive in un'altra dimensione immaginando l’amore per Tae-Suk mentre in realtà subisce i duri effetti del Reale? Ma questa attenuazione dei significati evidenzia la forza del segno e del materiale che invade la scena, affiora sulla tela, colpendola nel cercare di coprirla, mostrandola sperando di celarla. Tae-Suk tenta di dare una forma alla materia (ripara oggetti, lava, si lava, cucina) occupando altri spazi al fine di vedere e sostenere altre storie, altri racconti che non sono i suoi. L’esperienza visiva (ma anche invasiva come furto di una visione intima) si compensa nella formazione in atto di una funzione poetica, ossia nella possibilità che abbiamo di vedere la nascita di una poesia. Infatti il protagonista maschile Tae Suk e la sua amante Sun-hwa vivono nel silenzio per tacere di fronte alla durezza e all’ostilità del mondo (espressa dalla parola degli altri personaggi), cercando di esprimersi con il proprio corpo, dialogando tra loro con gesti e sguardi, ma anche con una sorta di magnetismo telepatico che scivola oltre l’immagine (spesso nei riflessi dello specchio o in un alone di sfocato). Questa valenza informale che taglia e brucia la tela, che sgocciola il colore sui corpi, rappresenta per lo sguardo il momento stesso, il principio di costruzione dell’opera. Assistiamo all’amore non come sentimento che sublima l’accadimento ma come momento di nascita e crescita dell’opera, afferriamo il senso della funzione che si sviluppa davanti ai nostri occhi, quella funzione rappresentata dal peso zero del suo corpo. L’immagine della bilancia che indica lo zero (occupata dai corpi dei due amanti), sul piano metafisico potrebbe essere la misura della morte (i due amanti non esistono nel mondo) o l’ectoplasma degli spettatori che invadono la scena con lo sguardo. Oppure potrebbe essere il risultato di un’equazione determinata dai segni in via di formazione (esempio x+a =0). Insomma stiamo assistendo alla nascita della poesia, un momento emozionante che rapisce la mente privandola di ogni appiglio (durante la visione ho scelto liberamente il mio fantasma personale, abbandonando ideologie e luoghi comuni, anche se per pochi attimi). Come afferma Coletti analizzando il lavoro di Jakobson, Linguistica e poetica (2), “[…] «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione». Vale a dire, nella concreta esecuzione del linguaggio “poetico”, l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole, sintagmi, ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole stesse della successione: «in poesia l’equazione serve a costruire la successione». La linearità (temporale) del discorso si dissolve o si attenua in un’organizzazione che sottomette le leggi della conseguenza, della contiguità a quelle dell’equivalenza, impone continuo richiamo e anticipazioni di quello che è già stato e che deve ancora essere, imbriglia il tempo nello spazio […]” (3). Ho visto la creazione, la gestazione in fieri di un amore attraversato dalla forza immane della poesia, la capacità di svilupparsi in rievocazione e manifestazione artistica, ho assistito al bacio plurimo (bacio-abbraccio) che sceglie il sogno o la forza di vedere l’invisibile, oltre ogni ragionevole limite.
(1) Andrea Bellavista, Kim Ki-duk, Il castoro cinema, Milano 2005, p.8.
(2) Roman Jakobson “Linguistica e poetica” in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 181-218.
(3) Vittorio Coletti, Il linguaggio letterario, Zanichelli, Bologna 1983, pp 30-31.

21 agosto 2008

Gerry (Gus Van Sant, 2002)

Un luogo naturale, appena o per niente antropico, il deserto, con i suoi orizzonti lontani e la sua scarsa densità di popolazione, stimola l’ippocampo a tutto svantaggio delle attività corticali, rilasciando una maggiore riserva energetica fondamentale per concentrare l’attenzione sulle nostre più intime sensazioni ed emozioni. Gli ampi spazi amplificano le capacità di uno sguardo interiore che libera uno sguardo mentale “superiore” in grado di vedere oltre le immagini consuete. L’approdo dell’anima in questo luogo, dove lo spazio smisurato, privo di punti di riferimento o di coordinate artificiali, comprime il tempo e la sua espressione più eclatante (il movimento) relegandolo in un altro spazio più intimo, più personale, trascina nella ricerca dell’introvabile (la via del ritorno? la comprensione di un’aporia?). L’anacoreta che è in noi prende il sopravvento ed entra immediatamente in sintonia con la maestosità della natura; lo sguardo esteriore, spaventato e umiliato da tanta immensità, lascia spazio a quello interiore. Il miraggio è un surplus di visione che avvicina un mondo tanto ostile (incomprensibile) alla nostra mai vana speranza di decodificare gli oggetti. La bellezza di “Gerry” risiede nella scelta di mostrare un deserto che si lascia guardare, non un deserto drammatizzato, né enfatizzato, ma semplicemente raccolto nel suo mistero sottolineato da due caratteristiche essenziali anche per il cinema: la luce e il movimento. La luce gioca un ruolo fondamentale. È una luce instabile, in continua trasformazione, quasi la steadycam non riesce a catturarla, proponendo solo le sue infinite variazioni, mostrandola come colore e sfaccettatura del cielo o riflesso dei vari paesaggi desertici. Il movimento è un aspetto molto più complesso. Si definisce in relazione ad altri due aspetti importanti (sarebbe interessante approfondire questo argomento): il movimento di per sé e il movimento del paesaggio immobile. Il primo aspetto è tipico delle scelte tecniche effettuate da Van Sant. Cerco di spiegarmi meglio. Abbiamo i due Gerry che si muovono tra le rocce, che corrono, scalano colline, infine camminano esausti sul bianco del Bad Water Basin della Death Valley. Abbiamo la mdp che li cura, avvolgendoli con il piano sequenza, a volte limitandosi a seguirli, a volte girandogli intorno. A volte la mdp rimane immobile lasciando scorrere, lontanissimi, i due Gerry quasi schiacciati dalla maestosità della natura. Gli innumerevoli campi lunghissimi finalmente abituano l’occhio a vedere le forme e i colori della materia e della luce. Il secondo aspetto riguarda una certa specificità della natura. Il deserto non è un paesaggio statico. Nel deserto c’è movimento, un movimento lento ma incessante, poco percepito ma inesorabile: il vento che spazza i cespugli, che disegna la sabbia, le nuvole che scorrono impassibili giocando a “scolpire il tempo”; e Van Sant, tramite riprese velocizzate, “gioca” a mostrare le forme cangianti delle nubi che si muovono e si ricreano al di sopra di un paesaggio apparentemente immobile. Il deserto apre i labirinti, ovvero tende ad annullare i simboli, ci salva dall’inestricabile groviglio di strade contorte e spesso senza sbocco che costellano i giorni “urbanizzati” di questa civiltà, ma, non essendo comprensibile (ovvero anche l’ecumene può non essere comprensibile ma almeno ci illude in una verosimiglianza simbolica) ci pone di fronte al nostro sguardo interiore. Liberandoci dal labirinto ci mostra il non-mostrabile. La paura e la sofferenza per tanta maestosità conducono al sublime e ad un magnifico terrore. Lo sguardo vaga tra metamorfosi di luce e miraggi che duplicano i corpi, lo sguardo torna al cinema per esorcizzare il suo deserto. In un racconto dell’ Aleph (1) di Borges “I due re e i due labirinti”, due re si sfidano finché il primo non riesce a rinchiudere il secondo re in un labirinto. Ma i labirinti sono costruiti per essere percorsi fino in fondo (fino ad entrare in un altro labirinto, ma questa è un’altra storia) ed il primo re riesce ad uscirne. Fuggito dal “suo” labirinto riesce però ad imprigionare il secondo re nel deserto dove morirà di fame. Due uomini fuggiti dai loro non-luoghi (2), (ossia luoghi della società surmoderna che annullano le prerogative più umane, togliendo valore alle relazioni, alla personalità e alla storia), cercano di ritrovare “certi” valori in un luogo troppo puro e lucido da essere metabolizzato. Da un punto di vista fisico ne “usciranno” esausti (non intendo fare spoiler), e ovviamente dopo questo film molti si guarderanno bene dall’affrontare una “gita” in un luogo tanto inospitale senza la dovuta attrezzatura (che però annullerebbe la magia del luogo inquinando con spore di non luoghi la sua purezza poetica), ma questo cammino dello sguardo guidato in questa esperienza che definirei “pittorica”, aggraziata dal sapiente utilizzo di piani sequenza e campi lunghi, “definisce” l’importanza dell’assaporare l’indefinibile valenza del Reale, al di là di qualsiasi tentativo che cerchi di circoscrivere gli eventi attraverso definizioni e/o significati reconditi. In una sequenza del film i due uomini sono seduti di notte davanti ad un falò, stanno parlando (nel film i dialoghi sono rari e spesso appunto non “significativi”), quando uno dei due Gerry (Casey Affleck) comincia a raccontare la sua storia di antico re che aveva appena conquistato Tebe ma che era stato sconfitto da un suo vassallo. Questo bellissimo racconto evoca un nucleo narrativo, un “nocciolo duro” denso di significato (l’epica si potrebbe differenziare dal romanzo anche per la sua preponderante presenza di nuclei narrativi e assenza di scene che non portano avanti la storia), ma Gus Van Sant, “abbandona” questo momento al “linguaggio” verbale, al racconto di Gerry che si immedesima nel re. Questa storia raccontata davanti a un fuoco nel deserto notturno rievoca la Storia, avvicina l’uomo abitatore di non-luoghi al locus amoenus di un mondo ormai scomparso. Il contatto con la durezza (paesaggio, rocce, ambiente) del durante (il tempo che si restringe inondando di eternità lo spazio) oltre a lasciare al linguaggio verbale le uniche storie possibili, induce a scrivere una nuova storia fatta di empatia, di dolore, di luce e di sguardo proiettato verso il sublime, una scrittura che Van Sant ha saputo affinare (come lui stesso ammette ringraziandolo nei titoli di coda) grazie alla conoscenza del cinema di Béla Tarr, ma che comunque insegna a “leggere” al di là delle nostre care metabole linguistiche.
(1) Jorge Luis Borges, L’aleph.
(2) Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Elèuthera
, Milano, 2005. Esempi di nonluoghi per Augé sono le autostrade, gli aeroporti, i centri commerciali, i mezzi di trasporto, i campi profughi, ossia tutti quei luoghi che non integrano i luoghi storici o le differenze ma isolandole e circoscrivendole come “curiosità da baraccone” (un esempio è un supermercato che raccoglie prodotti di varie nazionalità mentre una volta il luogo poteva essere un negozio con prodotti tipici e ben identificabile).

15 agosto 2008

Elephant (Gus Van Sant, 2003)

Guardare Elephant significa intraprendere un viaggio senza preoccuparsi del punto di arrivo, soffermandosi a scoprire l’altro lato degli oggetti, scoprire un punto di vista che si contrappone al nostro o, al limite, si propone come esperienza ottica diversa e “non concordante” con la nostra. Ci sono false piste, didascalie con nomi propri che potrebbero essere qualsiasi cosa, ma che non indicano niente, non informano sul personaggio. I nomi sembrano suddividere il film in capitoli, ma non si presentano come “confini”, perché le varie sequenze spesso li fagocitano, li aggirano e li espellono come oggetti sgraditi, insignificanti. Queste didascalie sono il tentativo di ordinare il caos, “spiegare” il flusso degli eventi, ordinare, coordinare, raccogliere (sono l’ultimo residuo dei miti?). Gli studenti vengono seguiti, raggiunti, aggirati dalla mdp nel loro percorso lungo i corridoi, la mensa, la biblioteca, i bagni, le varie aule della scuola, percorsi che non portano da nessuna parte se non nel loro stesso ineluttabile aggrovigliarsi. I vari segmenti narrativi si sovrappongono, si intersecano, si giustappongono. La stessa scena viene mostrata attraverso soggettive differenti (recuperate anche dopo molte sequenze), rivelando allo sguardo l’impossibilità di dare un senso logico persino al tempo. Flashback e/o flashforward non si strutturano cronologicamente né si pongono come aperture e chiusure di parentesi all’interno del plot principale (ma qual è in Elephant il plot principale?), ma fluttuano nel prima e nel dopo scompaginando il tentativo di formare una logica cronologia degli eventi. Così ad esempio, l’incontro in un corridoio tra Elias e John viene riproposto tre volte: nella prima sequenza la mdp segue John fino al suo incontro con Elias (un ragazzo che scatta foto con l’intento di crearsi un portfolio fotografico). Elias propone a John di farsi scattare una foto, John accetta dandosi una pacca sulla natica per accentuare il rumore del click della fotocamera. Nel frattempo sopraggiunge Michelle che, udito il suono della campanella, al momento di incrociare i due, si mette a correre. Michelle rientrerà in biblioteca e così farà Elias mentre la mdp continuerà a seguire John fin quando non uscirà dall’edificio. Dopo altri piani-sequenza e altri quindici minuti, la mdp segue Elias mostrando l’identico incontro, ma “rovesciato”, perché la semi-soggettiva assume il punto di vista di chi proviene da una direzione diametralmente opposta. Mentre prima John si trovava a sinistra ed Elias a destra dello schermo, adesso i due ragazzi sono in posizione simmetricamente invertita, come in un “ideale” controcampo che oserei definire temporale (quindi un oltre-controcampo). Ancora altri diciannove minuti circa di film e rivediamo l’incontro per la terza volta, ma stavolta il mondo viene scrutato tramite la semi-soggettiva di Michelle che ode la campanella e si mette a correre passando a lato dei ragazzi lasciati ai margini estremi del quadro e quasi indistinti nel fuori fuoco. Spesso infatti lo sfocato lascia ai margini le cose distanti e gli eventi che non compongono o non formano l’universo diegetico del personaggio mostrato di volta in volta da Van Sant. Adesso “sappiamo” (sapremo) che Michelle in pochi secondi giungerà in biblioteca (come pure farà Elias), luogo del loro destino. Nello stesso tempo John uscirà dalla scuola incontrando sul piazzale Eric e Alex in procinto di entrare nell’edificio. La “storia” di pochi minuti (forse cinque, dieci?) nel film viene dilatata dalla reiterazione delle sequenze mai uguali a se stesse. L’utilizzo del piano sequenza, oltre a dare una fluidità spaziale e ovviamente temporale (quasi non ci accorgiamo di “essere tornati indietro nel tempo”) offre la possibilità di abbandonare il “luogo” principale della rappresentazione. Intendo “luogo” come il personaggio o i personaggi che focalizzano l’attenzione, “vagando” e attardandosi nei vari meandri della scuola per mostrare oggetti, sale, attanti che non sono funzionali (apparentemente) alla rappresentazione. In altri termini il piano sequenza, oltre ad esprimere il punto di vista del personaggio focalizzato e mettere in evidenza i suoi centri di interesse (con un sapiente uso di immagini o totalmente sfocate o messe a fuoco grazie all’utilizzo di un obiettivo grandangolare), restituisce il senso reiterato ma in fondo “univoco” della mancanza di senso di ciò che sta accadendo. In pratica non sta accadendo niente. Il famoso piano sequenza di Brittany, Jordan e Nicole mi sembra esplicativo. Le tre ragazze sono seguite dalla mdp per circa cinque minuti di un unico piano-sequenza. Ma cinque minuti sono tanti e ascoltare le loro “chiacchiere” (sia acusmatiche che in sintonia con lo sguardo) può non essere interessante. In fondo le parole e i racconti delle tre amiche sono altri riempitivi, momenti che servono a rafforzare questo film di “cose”. Pertanto la mdp “abbandona” le ragazze, lasciandole di qua dal bancone del self service della mensa, mentre lo sguardo viene lasciato “libero” di “sbirciare” nei locali delle cucine, di osservare i cuochi per poi lasciarli nelle loro faccende al fine di riprendere lo status di semi-soggettiva delle studentesse giunte nel frattempo nella sala da pranzo. La mdp ce le mostra sedute, poi si allontana inquadrando John dall'altra parte della vetrata, colto nel momento in cui incontra Eric ed Alex (entrambi in procinto di entrare nell’edificio scolastico per attuare il loro piano). La sequenza termina quando Brittany, Jordan e Nicole entrano nel bagno, ossia nel loro spazio terminale, luogo di liberazione (vomitano il cibo appena consumato per rimanere attraenti) e di arrivo ulteriore. Perché un piano sequenza tanto “lungo”, perché tanti discorsi? La narrazione poteva proseguire in altri modi; sintetizzando queste sequenze in pochi quadri Van Sant avrebbe girato un cortometraggio. Eppure l’uscita dalla significanza qui è ottenuta attraverso una tecnica straordinaria, difficile e complessa da studiare. Mi limito ad osservare tre momenti: lo sfondo-mondo, la figura-insicura, i lemmi dell’inspiegabile.

Il mondo è la scuola, sono i corridoi, le aule, la mensa, sono gli altri che si muovono o stanno seduti muovendosi, sono le chiacchiere superflue, il mondo è il superfluo che naviga attorno al personaggio pedinato dalla mdp, spesso da dietro, a volte scavalcato e “seguito” dal davanti, sono le nuvole dell’incipit o quelle osservate da Michelle, sono le nuvole che tornano nell’epilogo. Il mondo è tutto quello che circonda il personaggio, spesso fuori fuoco, buttato ai margini della visione, quasi abbandonato nel perso del quotidiano. Ma a volte è perfettamente a fuoco, la scena è nitida, ripresa con un grandangolare e la persona “seguita” viene schiacciata nell’infinitesimo dell’insignificanza (es.: Michelle quando entra in palestra). I piani sequenza cercano di aggirare e di prendere questo mondo inspiegabile, raggiungerlo anche al di là dell’indistinto, dell’immagine fuori fuoco, un po’ come cercare una cornucopia ai piedi di un arcobaleno. Ma queste “catalisi” prive di nuclei sono un magma insuperabile. La spiegazione del perché è la stessa ricerca di un senso attraversando il non aggirabile dominio dell’inspiegabile.

I volti dei ragazzi ripresi in primo piano, che spiccano sul magma indistinto dello sfocato, che mostrano la loro perfetta giovinezza, la loro superflua bellezza (ma anche bruttezza), si muovono in cerca di un niente da fare: entrare e uscire, mangiare e vomitare, fotografare ed essere fotografati, insomma fare qualcosa e il suo contrario. Movimenti inspiegabili dove l’immagine del personaggio è l’unico dato che ci è consentito conoscere. In fondo non sappiamo niente di loro. Jonh ha un padre sbronzo (ma beve sempre oppure l’ha fatto solo “oggi”?), il preside si limita a fare il preside di tanti altri film ambientati in scuole americane. In cielo ci sono le nuvole come in tanti altri giorni. Non ci è dato che di vedere volti e corpi. E i personaggi diventano, nel loro procedere lento ed estenuante, incrociandosi e duplicandosi nelle stesse reiterate azioni, altri riempitivi, catalisi che si accumulano, altri dati superflui dell’inspiegabile. La figura si trasforma lentamente in un altro oggetto messo lì, casualmente, come una pedina nel gioco dell’oca. Dà l’impressione di sciogliersi nell’inquadratura successiva, la figura è una sagoma sin dall’incipit.

Le sagome possono tutt’al più indicare il loro ambiente. Queste “guide” a cui Van Sant affida il compito di illustrare gli eventi, in realtà non mostrano altro che la loro stessa presenza. Non si raccontano storie, non si introduce un prima, ma solo istanti di un prima, che isolati e coordinati dal tempo interagiscono con i vari spazi restituendo un amaro sapore di vita colta nell’attimo. Il senso di realismo non è dato tanto da una verosimiglianza che non possiede capacità di formare un modello (una ricostruzione anche metafisica degli avvenimenti), quanto da continui, non catalogabili effetti di reale, pezzi di mondo che non restituiscono modelli o delineano significati omologabili, ma “formano” ipotesi di ricostruzione, progetti di lavoro. Eppure questo inspiegabile giustapporsi della storia (mi riferisco agli avvenimenti del plot) non è svelato bensì ri-velato (nel senso di coperto ancora). Ri-velato nel senso di rielaborato, ricostruito, riprodotto. E questo prodotto artigianale (in quanto non seriale) si staglia al di sopra delle convinzioni e delle convenzioni, perché non esiste simmetria e neppure un punto di vista sicuro e obiettivo. Anche (per fare un esempio) l’incontro tra John e Elias non è lo stesso incontro reiterato da angolazioni diverse, ma sono due distinti “incontri” due “separati” non assemblabili incontri. La voluta imprecisione delle mani che si salutano, dei lievi movimenti del corpo, mostra differenze (ad esempio John, nella prima sequenza, si tocca le “parti basse” nel salutare Elias”, mentre nella seconda si limita a sfiorarle). L’inspiegabile è compreso (nel senso di circoscritto) in queste inalienabili differenze che restituiscono l’importanza di un mistero non “raccontabile”, ma da assorbire per induzione.

9 agosto 2008

Paranoid Park (Gus Van Sant, 2007)

Gli intriganti movimenti di macchina di Gus Van Sant non prendono il sopravvento sulla fotografia, sull’importanza della visione assunta dall’immagine. Spesso infatti panoramiche repentine e carrellate, ancorché ben curate e costruite per far risaltare “il mondo in movimento”, non trascurano la composizione fotografica, la sottolineatura dell’immagine, ma sono un mezzo di indagine da seguire all’interno degli eventi e delle icone. Benché il movimento non dipenda dalla dinamica dei corpi, ma da una congettura mentale per cui deve essere la mdp a fluire attraverso lo spazio filmico (mentre se sono i corpi a muoversi, anche velocemente, all’interno del quadro, la sensazione di una statica del movimento prende il sopravvento), Gus Van Sant riesce sempre a dimostrare che è possibile rispettare “l’esigenza” di un’accelerazione dinamica, il bisogno di “veder muovere gli oggetti” con il rispetto di una prospettiva pittorica che non venga stravolta dal tipico abbandono dell’immagine nel mosso, ma, pur nel suo stesso superamento, acquisti nuove forme di visione. Per far questo, Gus Van Sant (tra l’altro da giovane era un pittore figurativo), dimostra la capacità di salvaguardare sempre la pulizia dell’immagine. Le forme del profilmico, oggetti e attanti che si muovono nelle sequenze, assumono una valenza ulteriore definendo un mondo che si mostra sempre allo sguardo senza nascondersi, cercando un “improbabile punto di fuga”. Nonostante le immagini nitide in cui è possibile contare e rapportare gli oggetti ai personaggi, non sembra domini un punto di fuga precipuo ad esclusione delle scene equoree. Qui, nella pace del proprio mondo interiore, la pittura di Gus Van Sant si esalta nel ritrovamento di coordinate spazio-temporali che tranquillizzano e permettono ad Alex di descrivere il suo “sfogo” seduto su una panchina in riva al mare. La distanza tra il ricordo e la catarsi si esprime attraverso la scrittura come testimonianza ma anche come ricerca di una “liberazione” che non consoli, ma che riporti l’attimo alla superficie dell’esistente. Il gesto, quasi istintivo, di spingere l’addetto alla sicurezza ferroviaria, diventa il fulcro narrativo e il principio di costruzione e di funzionamento del film. Il treno che scorre sui binari (tra l’altro il cinema “è nato” con un treno) scivola su un percorso filmico, su una pellicola che scorre e che deve essere tagliata. Il taglio secco, improvviso, quasi come un istinto, arriva sempre ogni volta obbligandoci a scegliere una direzione e a farci cambiare l’esito anche contro le possibilità previste dallo script. Però ogni taglio, ogni giustapposizione, ogni sutura rievocano le parti mancanti, consolano solo in parte. Non è possibile (e questa è la dannazione del cinema) prendere tutto, seguire ogni linea; bisogna accontentarsi di quello che non abbiamo perso. Per questo rimango leggermente stupito da alcuni “tagli formali” come ad esempio il “taglio” del corpo del guardiano che viene mostrato nella rievocazione (il ricordo) e non nell’attimo in fieri della sua esclusione (l’accadimento). Mostrare un corpo tagliato da un punto di vista “distante” (un campo lungo dall’alto che giunge atteso dopo il passaggio sul fotogramma del treno-sipario, ovviamente sfocato dalla velocità), apparentemente, allo stato attuale della mia riflessione, sembra un tentativo di non abbandonare il rimosso, cucire un surplus che sottolinea le parole dell’investigatore. Ma il PdV di Alex scorge per fortuna solo la parte superiore del corpo, e in particolare il volto del guardiano che gli sta andando incontro poco prima di morire (allora il punto di vista del corpo spezzato è sguardo della memoria oppure onnisciente?). Il taglio della pellicola rimane sospeso nell’interno a tutto vantaggio di raccordi soft come ad esempio il più fluido piano sequenza tanto adorato da Gus Van Sant. La pellicola scorre inesorabilmente in linea retta avvolgendosi sulla bobina e quel tentativo di sutura forse avrebbe aderito meglio come sguardo disturbato da un altro fuori fuoco, un’altra vicinanza/distanza. A parte poche, piccole “effrazioni” la cifra essenziale e interessante di questo film è proprio lo sfocato (come la “sgranatura”): la mdp mostra Alex quasi sempre in primo piano evidenziando i “contorni” del suo mondo quasi sempre consumati o distanti. Pertanto la “lontananza”delle persone e degli oggetti si avvicina a pochi centimetri dallo sguardo di Alex: allontanarsi troppo significa svanire nell’indistinto e in un magma anamorfico, in un altrove alieno non percepito perché in contrasto con il ricordo e la ricostruzione plastica del rimorso. Pertanto la più grande lontananza diventa l’estrema vicinanza; niente gli è così estraneo e distante quanto Jennifer: i pochi centimetri che li separano diventano nella sua mente una distanza abissale. Se il film fosse stato il prodotto di un autore romantico la nostalgia avrebbe preso il sopravvento, perché l’idea della bellezza si coniuga sovente (nel romanticismo) alla nostalgia per qualcosa che si reputa perduto per sempre. E la perdita qui è abissale: dopo il padre e la madre (divisi e “distanti”, mai ripresi da vicino o ripresi quasi di sfuggita come vaghe icone di un passato che fu) la perdita si allarga alla scuola (gli amici, Jennifer), agli skater del Paranoid, fino al suo ultimo atto supremo: fare sesso con Jennifer allontanando la mente nello spazio/tempo del dolore. Il problema è tutto in questa divisione, in queste assenza di suture che funzionano più sul piano della significazione che sul piano del significante. Questi corpi spezzati (i genitori, Alex e la sua ragazza, l’addetto ferroviario) rientrano sempre in gioco nella fluidità (tra l’altro spettacolare) con cui Van Sant muove la macchina da presa, senza spezzarsi definitivamente sulla pellicola, mentre lo sguardo di Alex, esteriorizzatosi (noi spettatori assumiamo il punto di vista mentale di Alex che “si vede” immerso in un mondo distante e miope), non “riesce” a suturare i corpi. Insomma la grandezza di Van Sant è tutta nella riproduzione di questo mondo visto da un astigmatico, un mondo che non è nostro, che non ci appartiene, un mondo in cui gli eventi sono estranei e lontani. Lo sceneggiatura stessa che secondo Van Sant è una cartina stradale (1) diventa effetto e causa del film, scritta per organizzare le riprese, si trasforma dopo ogni ripresa per essere bruciata e/o rimanere inutilizzata (un altro corpus a se stante) dopo che il film è stato montato. Più che una bibbia uno sfogo, una mappa che serve a guardare “la cosa finita mentre ci stai lavorando” (2). Il momento topico dell’epilogo/incipit: la sala di montaggio ossia il mare lontano e irraggiungibile, quasi ignorato da Alex, eppure tanto desiderato, l’immagine di questo paesaggio, moviola che riconnette tutto l’essente: il ricordo, il rimorso, l’isolamento. Ma è un montaggio in fieri che adora il piano sequenza costruito durante la formazione del suo stesso procedimento. Il cinema non può mostrare ma solo suscitare il fuori che è in noi.

(1) Alberto Morsiani, Gus Van Sant, Editrice Il Castoro, Milano 2003, p.12.
(2) ibidem, p.11.

3 agosto 2008

Funny Games (Michael Haneke, 2007)

In attesa di ri-vedere l’omonimo film del 1997, sto provando a convincermi che questo è il primo, unico Funny Games. Mentre le sequenze scorrono, con la mente ritorno al film precedente e “mi ricordo” di tanti particolari che avevo smarrito in qualche cassetto arrugginito del già visto. Impossibile non paragonare i due film, perché tutto è già accaduto, e mentre siamo propensi a perdonare due film dalla trama pressoché identica, non accettiamo (non accetto) di ri-vedere un film fotocopiato da un altro: la storia sì, il discorso no. Le scelte stilistiche, i movimenti di macchina, il modo di recitare, i personaggi: ogni cosa sembra ricostruita identica, e anche se le cose non stanno così (attori, location e altri particolari infinitesimali differenti) il film è paragonabile a una precisa fotocopia che presenta alcuni “click”, alcuni soffi, imperfezioni caratteristiche delle fotocopie. Sicuramente (ne avrò conferma quando avrò rivisto il Funny del 1997) inferiore all’ “originale”, ma comunque un film “necessario”. Ciò che a teatro è un iter accettato e acclamato (le repliche anche numerosissime di una commedia, ad esempio), non è permesso al cinema. Perché? Quando penso alla pittura mi accorgo che un pittore non dipinge mai un quadro identico ad un altro (se si esclude l’arte seriale), però dipinge tanti quadri simili, spesso facilmente confondibili da un occhio inesperto. Quadri “simili” anche se non prodotti seriali ma pezzi unici. Se osservo attentamente le tre “battaglie di San Romano” (1435-1440) di Paolo Uccello, noto differenze notevoli: sono tre aspetti, tre momenti importanti, “tre inquadrature” dello stesso evento che facevano parte dell’arredo della camera di Lorenzo de’ Medici: insieme erano come un’unica opera osservata da un punto di vista privilegiato: quello dello spettatore al disopra degli eventi (sia in senso sincronico che diacronico). La storia ha voluto che i tre quadri finissero in tre musei diversi: “Niccolò da Tolentino alla testa dei Fiorentini” alla National Gallery di Londra, il “Disarcionamento di Bernardino della Ciarda" agli Uffizi di Firenze, mentre l’ “Intervento di Michelotto da Cotignola” si trova al Louvre di Parigi. Tre opere “diverse” ma che si completavano per formare una storia, un racconto. Adesso, separate (anche se sui libri d’arte è possibile osservarle una dietro l’altra), sono tre mondi lontani che “parlano” di guerre antiche e di scontri di cavalieri, di lance e spade, di morte e dolore. Simili ma diverse. È come se tre pizze di un film fossero proiettate in tre epoche diverse. Saranno riunite un giorno per essere gustate nella loro pienezza? Eppure questi frammenti sono sufficienti allo spettatore per farsi un’idea ed esprimere un giudizio di gusto e provare un’emozione. Ritornando al film, Haneke ha ricostruito, rigirato, un suo vecchio lavoro come se avesse voluto rinfrescare un ricordo di un vecchio film perduto. Un film perso, o meglio, disperso nella memoria. Constatata l’impossibilità di riproporre il suo bellissimo “vecchio” Fanny Games, ha preferito “dare forma” ad un’opera simile. Come una vecchia canzone cantata da un nuovo cantante. Nessuno si scandalizza, né in pittura, né quando si tratta della musica o a maggior ragione del teatro, perché le repliche sono l’essenza del teatro. Nel teatro in particolare ogni rappresentazione è la stessa ma è anche allo stesso tempo un’altra cosa. Un appassionato dovrebbe vedersi sempre le cento, mille repliche di una piéce, perché solo così potrebbe afferrare il senso di un’opera. Ma servirebbe a qualcosa? Ho recitato poche commedie, ma ho calcato le scene recitando dieci, anche venti repliche dello stesso spettacolo e ogni volta era sempre una cosa diversa: gli imprevisti della “formazione” dello sviluppo in fieri della rappresentazione. Neppure cento prove possono permettere al regista di controllare ogni movimento, di raccordare ogni aspetto tecnico e di recitazione. È la bellezza del teatro. Un esperimento interessante potrebbe consistere nel girare due film identici contenenti storie differenti: all’interno di un ragionamento che predilige la sincronia potrebbe essere interessante e costituire una sfida, ma ragionando diacronicamente… be’…non potrebbe già essere successo con questo film di Haneke? Non potrebbe essere un quadro appeso in un altro museo? E la stessa storia (nella stessa epoca quindi nella sincronia) non potrebbe, dieci anni dopo, avere acquistato nuove connotazioni? Un film (anche in costume) rappresenta più l’epoca in cui è stato girato che quella rappresentata sulla pellicola. Ad esempio “Orgoglio e pregiudizio” di Robert Zigler Leonard (1940) mostra come gli anni quaranta “vedevano” l’epoca del regno di Giorgio III di Hannover (fine settecento) in modo completamente diverso da come lo stesso periodo storico viene messo in scena nell’omonimo film di Joe Wright (2005). Non potremmo sapere niente di più sulla famiglia Bennett, ma potremmo conoscere qualcosa sulla tecnica di ripresa, sulla sensibilità delle pellicole, sul trucco usato dagli attori, ecc. Così i due Funny Games (ricordiamolo: girati in due secoli diversi) sono, devono essere diversi. Tra i due il mondo (anche se sono trascorsi pochi anni) è cambiato, noi siamo cambiati; la violenza è sempre la stessa ma forse bussa alle porte con più forza spaventandoci sempre di più. Funny Games è una pizza del 1997 rifinita ai nostri giorni attraversando altri sguardi. Ci dice più su di noi di quello che potrebbe dire la copia del ’97, ma non perché sia migliore (sicuramente non raggiunge la qualità del vecchio film) ma perché, come dice Haneke, oggi la violenza parla inglese, i prodromi della crisi fine anni novanta sono adesso un’orribile certezza. L’abitudine al fuoricampo (riferendomi allo spettatore meno evoluto) è stata quasi persa. Adesso il fuori campo, ciò che accade nell’ “invisto” e che Haneke obbliga a ricreare nella nostra mente, spaventa, perché spaventa la nostra immaginazione, abituata a ricostruire tremendamente una violenza occultata dall’apparenza del “vedere a tutti i costi”. Questa pornografia della visione che allenta la responsabilità spettatoriale (mi riferisco non solo a certo cinema di serie B ma anche e soprattutto alla televisione), questo gusto sadico di voler rendere spettacolo anche la sofferenza, riprendendo ogni aspetto del reale, credendo ingenuamente di catturare le tracce del reale, toglie ogni responsabilità. In fondo sappiamo che lo spettacolo non è il mondo, sappiamo che la morte è una formazione di quadri, campi, movimenti di macchina, che catturano l’espressione del falso non più colto dalla nostra mente pigra. I morti veri sembrano quelli del cinema, mentre quelli scorti sfortunatamente nel mondo somigliano a parvenze da dimenticare. Ripudiando l’ “invisto” del cinema abbiamo accettato di dimenticarlo nel mondo, tanto niente è vero se non è espressione codificata dal potere. La “violenza” del fuori campo, abbandonata dal regista ma solo per farcela digerire a fatica, per obbligarci a “rifletterla” (nel senso di assorbirla e ributtarla nel fuori), lasciata in pasto ai nostri sensi tramite, ma non solo, suoni acusmatici, ci ricorda che non può essere esorcizzata. Non è possibile addomesticarla, né rimediarla. Quando arriva a colpire, giunge nell’attimo senza pietà lasciando segni ineluttabili: nessuna fuga, nessuna reazione può imbrigliarla, né l’anabolizzante messa in campo, né l’appagamento illusorio di una vendetta. In fondo, se proprio devo convincermi a osservare questo film come evento naturalistico (ma non lo è) posso pensare che la vendetta sia avvenuta e il replay (come tutto quello che avviene dopo) sia frutto dell’immaginazione di Paul. Ma tutto questo non contribuisce a migliorare la situazione. Anche un piccolo schiaffo, una piccola offesa, crea distorsioni nell’immagine che non possono essere ricucite. Haneke probabilmente preferisce le catalisi ai nuclei narrativi, preferisce mostrare la sofferenza del tempo che scorre, del dopo, delle ore eterne in cui l’anima dell’offeso muore lentamente, lasciata nella contemplazione di un vuoto incolmabile. Questa consapevolezza, che non esalta ma annichilisce, disturba e inquieta, ci lascia ai margini dell’azione, come quando la telecamera abbandona gli eroi per soffermarsi sui morti e improvvisamente giunge, a sconvolgere l’animo, l’epifania e ogni cosa, per un attimo, è chiara e illuminante. Come in questo famoso brano di Joyce tratto da “I morti” ultimo racconto di Gente di Dublino:

“[…] c’era neve in tutta Irlanda. Cadeva dovunque sulla scura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva dolcemente sulla palude di Allen e, più a occidente, cadeva dolcemente nelle scure onde ribelli dello Shannon. Cadeva anche dovunque nel cimitero isolato sulla collina dove Michael Furey era sepolto. Si posava in grossi mucchi sulle croci storte e sulle lapidi, sulle lance del cancelletto, sugli sterili spini. La sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la neve cadere lieve nell’universo e lieve cadere, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti”.