29 giugno 2008

La notte di San Lorenzo (Fratelli Taviani, 1982) e L’Iliade (Omero, 720 a.C.)







Con questo contributo non è mia intenzione commentare uno dei capolavori del cinema italiano per il quale hanno già scritto e recensito egregiamente diverse altre autorevoli fonti (http://www.ancr.to.it/Tool/Card/?id_card=663). Tuttavia mi preme accostare una particolare sequenza del film con il caposaldo della letteratura greca, L’Iliade. La sequenza in questione é contenuta nell’incipit, e riferisce di un matrimonio riparatore organizzato in fretta per almeno due buone ragioni, l’imminente parto della sposa e soprattutto l’avanzare impietoso della guerra. Il drappello di invitati, presieduta la cerimonia, non indugia a lasciare la chiesa per tornare a nascondersi nelle cantine; il padre della sposa, ciononostante, intende celebrare la sua figliola ed offre a tutti un tozzo di pane che porta avvolto in un canovaccio. Il vecchio saggio del paese intende celebrare gli sposi e prende la parola e li omaggia con alcuni versi recitati a memoria, usurati e trasformati dal tempo, ma che nella versione originale risuonerebbero così:

Sorrise il genitor, sorrise anch’ella
la veneranda madre; e dalla fronte
l’intenerito eroe tosto si tolse
l’elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi baciato con immenso affetto,
e dolcemente tra le mani alquanto
palleggiato l’infante, alzollo al cielo,
e supplice sclamò: Giove pietoso
e voi tutti, o Celesti, ah concedete
che di me degno un dì questo mio figlio
sia splendor della patria, e de’ Troiani
forte e possente regnator. Deh fate
che il veggendo tornar dalla battaglia
dell’armi onusto de’ nemici uccisi,
dica talun: Non fu sì forte il padre:
e il cor materno nell’udirlo esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
sposa egli cesse il pargoletto; ed ella
con un misto di pianti almo sorriso
lo si raccolse all’odoroso seno.

(Iliade, Libro VI, verso 620)

Rileggendo questo passo, si puó cogliere il parallelismo tra i due protagonisti (Ettore ed Andromaca) e i novelli sposi del film dei Taviani; entrambe le coppie sono attanagliate dall’incombere della guerra, la paura di lei donna e madre che porta dentro l’angoscia per il marito e per il proprio figlio, sentimenti e preoccupazioni che attraversano i secoli dalla notte dei tempi e accomunano con dolcezza queste coppie di giovani sposi. Appare il tema dell'epica popolare, il vecchio che, con tutta la sua empatia, omaggia la nuova vita a dispetto della guerra e della morte e rinnova una cultura orale basilare, pre‑letteraria in quanto precedente alla scrittura, fatta di epica mandata a memoria ma anche di proverbi e filastrocche ("villano nobilitato non riconosce il sii parentato", "Mardocchio, mardocchiati, S.Giorgio aveva i bachi...").

26 giugno 2008

E venne il giorno (Manoj Nelliyattu Shyamalan, 2008)

La disgregazione del senso e l’incapacità di una visione ortocentrica (o almeno la consapevolezza di questa assenza visiva) non hanno trovato degni sostituti. Intendo dire che la perdita del punto focale privilegiato (il punto di vista di Dio), non è stata rimpiazzata da una “nuova consapevolezza” o, meglio, da una asistematicità analitica del mondo. Prospettive (frontale, d’angolo ma anche razionale) ed egocentrismo rimangono come pezzi vaganti di materiale pericoloso sempre in rotta di collisione con uno sguardo “privilegiato”. Spesso le aspettative dello sguardo, residui dei valori schematici della vita quotidiana, si riferiscono a delle situazioni “senso-motorie tipiche dell’immagine-azione del vecchio realismo” (1). Come afferma Deleuze, nei film del “vecchio” realismo i personaggi reagivano a delle situazioni, interagivano con l’immagine azione (anche nel caso in cui si trovavano immobilizzati) e pertanto lo spettatore riusciva ad identificarsi. Gli oggetti e gli ambienti vivevano di una realtà propria, “[…] ma era una realtà funzionale, strettamente determinata dalle esigenze della situazione, anche se queste esigenze erano tanto poetiche quanto drammatiche […]” (2). Liberarsi da queste ancore risulta fondamentale davanti a molto cinema odierno (ma non solo) e secondo me anche per riuscire ad apprezzare un film quale E venne il giorno, che altrimenti potrebbe dare l’impressione di essere un film “tirato via”. Ritengo al contrario che il film di Shyamalan sia molto più curato di quanto non possa sembrare a prima vista per almeno tre motivi che mi vengono alla mente en passant: è un film onirico, è un film in fieri, è un film puramente ottico. 1) Onirico. I personaggi congelati in una sorta di frame-stop “fisico” in Central Park come nelle strade di Filadelfia o nella campagne della Pennsylvania sono affetti da un’incapacità senso-motoria. Non reagiscono più agli stimoli di una logica univoca di situazioni spazio-temporali apparentemente controllabili. In altri termini chi è colpito dal germe si addormenta e non muove più il corpo. Il suo corpo diventa un automa in attesa di un agghiacciante evento onirico. La fase psico-motoria, relegata al certo e al sicuro, al verosimile e al prospettico, all’univoco e al vero, svanisce nel sonno: il corpo immobile adesso sogna la sua distruzione, o meglio, la sua destrutturazione. Il suicidio del corpo è il tentativo di valorizzare un nuovo modo di appropriarsi del mondo, di incarnarsi nel mondo, ossia la morte del corpo come morte del visibile. Il sogno ha inizio. E, come in Golconda di Magritte, gli uomini immobili per le strade e gli uomini che piovono dal cielo ci trascinano in un sogno; la visione prende il sopravvento, l’immagine esiste al di là dell’oggetto rappresentato, al di là delle apparenze senso motorie che ingannano l’occhio. Inoltre la prospettiva di queste immagini oniriche non è mai controllabile, strutturabile (campi contro campi, campi lunghi, ecc.) ma limitante. Le riprese di Shyamalan non appagano, non producono liberazione, ma inducono a ripiegare lo sguardo su di sé, in quanto non c’è, e non ci deve essere, identificazione, ma trasmissione. Si può dire che l’azione fluttua “nella situazione, più che compierla o rafforzarla” (3). Nel sogno non posso misurare spazio, controllare azioni, coordinare eventi, non posso insomma sperare di conoscere una persona e di ritrovarla nell’inquadratura che segue. Nel sogno posso solo “sapere” senza che nulla arrivi a confermare il mio sapere. Nella scena dell’altalena i presupposti sono senso-motori, ma i risultati onirici. La macchina da presa inquadra dall’alto il ramo su cui è stata fissata l’altalena, e più di una volta (non ricordo bene e per questo dovrei rivedere il film) quasi per suggerire che qualcosa accadrà. Nel cinema motorio qualcosa accade sempre, lo sguardo soffre nell’attesa, l’immedesimazione trasferisce le nostre ansie sulla bambina e sul mostro che giungerà a carpirla. Ma non accade niente: il sogno è già conosciuto ma non vi sono raccordi nel sogno, solo un punto di vista antiprospettico. 2) In fieri. Stiamo assistendo alla “formazione” di un film. Supponiamo che “qualcuno” giri una storia di formazione di un film. Inquadro il regista, i personaggi, i luoghi. Gli attori sono ancora insicuri, fuggono dal set senza sapere dove andare, pezzi di découpage cadono per terra strappati dai problemi esecutivi che spesso “obbligano” a non seguire lo scritto, l’immobile. I luoghi chiusi sono palesemente falsi: una scuola dove non si insegna null’altro che ad avere terrore del tempo (sì, i terroristi, la fine del mondo, ma in realtà il ragazzo pensa al naso, ognuno pensa al suo naso deforme, la paura è qui e l’altrove è un luogo a perdere), poi una stazione perduta come punto di arrivo ( e il personale delle ferrovie dove va?), un bar da dove tutti fuggono (ma lì non è successo niente). Una casa-set dove tutto è finto ma nonostante questo, più vero delle cose reali. Gli oggetti hanno acquistato una loro autonomia, non sono più oggetti funzionali ad una situazione senso-motoria, ma esistono di per sé, sono oggetti, anzi immagini di oggetti che non hanno niente da spiegare, niente da chiarire, ma sono lì per essere “investiti” dai sensi. Gli attori, in queste condizioni, non sono nella parte, perché stanno ancora per affinare la loro arte, le loro capacità, sono in procinto di trasformarsi in personaggi che non reagiscono ma che “registrano”. Il personaggio più “che essere impegnato in un’azione, è consegnato a una visione, che insegue o da cui è inseguito” (4). Anche l’aperto è un set, forse meglio di un set: è la luce che cambia ad ogni istante con il passaggio delle nuvole, una luce casualmente minacciosa, ma non sapremo mai perché deve essere così minacciosa. E il vento è un evento affascinante. Portatore di tossine? Un vento atomico di tanti film Horror? Lo respiriamo attraverso lo sguardo e l’udito, è il vento che muove le foglie in un film dei Fratelli Lumiére, Le Déjeuner de Bébé, che emozionò gli spettatori più del bambino imboccato amorevolmente dai genitori. 3) Ottico. Adesso riprendo da Deleuze un altro concetto: l’intollerabile. E venne il giorno è la messa in scena dell’intollerabile. Con questo non intendo visione di un orrore intollerabile, visione del mostro (veleni, terrorismo, Cia, ecc.) che arriverà, prenderà, fagociterà, distruggerà. La situazione senso-motoria ha lasciato spazio ad una situazione ottica e sonora. Questa concerne uno spazio diverso, uno spazio qualsiasi, sconnesso, svuotato, uno spazio non prospettico ma incerto, incoerente. Queste situazioni possono riguardare anche la banalità del quotidiano, possono essere semplici frasi o un cellulare che suona lasciando sul display il nome di un possibile amante. E poi? Nulla. Solo questo. Non ne nasce una “logica” conseguenza, perché non c’è uno schema predefinito nel reale, ma solo un gesto, un paio di bellissimi occhi azzurri sgranati sul mondo e sulle preoccupazioni che neppure sconvolgono. La stessa paura è una constatazione banale, proprio perché non ci può essere paura per un mostro che non è senso-motorio. “Anche la distinzione tra soggettivo e oggettivo tende a perdere d’importanza man mano che la situazione ottica e la descrizione visiva sostituiscono l’azione motoria. Si ricade infatti in un principio di indeterminabilità, di indiscernibilità: non si sa più quel che nella situazione è immaginario o reale, fisico o mentale, non perché li si confonde, ma perché non si deve saperlo e non è più nemmeno il caso di domandarlo” (5). L’intollerabile per Deleuze è qualcosa di troppo ingiusto o troppo potente o troppo bello, è un’illuminazione, una veggenza; è il riconoscimento di una banalità che nella vita reale spesso trascuriamo. È il passare accanto a un incidente, magari con morto, di cui non sopportiamo la vista: tiriamo diritto perché non è tollerabile. La visione ci abitua a vedere qualsiasi mostro, ma la veggenza fa conoscere l’intollerabile della nostra inabilità diegetica in cui “[…] vediamo, più o meno subiamo una potente organizzazione della miseria e dell’oppressione” (6). L’immagine-cliché è sempre in agguato, dietro ogni chiusura di senso. Shyamalan lo sa e tenta, attraverso una luce naturale ma impossibile (pare che abbia trascurato recitazione ed effetti speciali per dedicarsi alla ricerca di una luce naturale legata al formarsi delle nuvole), di bucare il cliché, lasciando sempre aperto il senso di ogni immagine. I personaggi si muovono in questo paesaggio sospeso nel senso come nuovi inquilini smarriti che non conoscono il condominio. Non sanno dove andranno. Non sanno se tradiranno o hanno già tradito. E non sanno nemmeno perché il mondo è impazzito. Anche la salvezza non è nella folla, ma non servirà neppure fuggire dalla città. La salvezza non è neppure nei piccoli numeri, neppure in chi ha scelto di rifugiarsi da sempre in mezzo alla natura. Il frame-stop con perdita della corporeità senso-motoria colpirà anche gli ultimi eremiti. A questo punto rimangono solo gli occhioni azzurri di Alma come simbolo di un nuovo modo di vedere. L’immagine tempo ha subordinato il movimento (7).

(1) Gille deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1993(2), pp. 12-13
(2) Ibidem, p. 13.
(3) cit. p. 15.
(4) cit. p. 13.
(5) cit. pp. 17-18.
(6) cit. p. 31.
(7) cit. p. 34.

23 giugno 2008

Ultimo tango a Parigi. 4. Sinestesie musicali. 4/4

Negli anni 60, gli anni della malattia teorica, pensavo che la funzione della musica dovesse essere autonoma in rapporto al resto del film. Chiedevo ai musicisti di comporre una musica senza far vedere loro le immagini del film. Oppure mi servivo di musiche già esistenti, Verdi oppure Schönberg. Era un’illusione perché, in ogni modo, il risultato finale è sempre un uso convenzionale della musica. Ed è giusto che sia così. A partire da Il conformista ho chiesto ai musicisti un sincronismo tra l’immagine e la musica. Sia Gorge Delerue per Il conformista che Gato Barbieri per Ultimo tango sono venuti spesso in moviola e il loro lavoro cominciava proprio dalla visione delle immagini e del ritmo di montaggio. In Ultimo tango la musica segue i movimenti di macchina, li precede oppure li accompagna alla ricerca di un sincronismo oppure di un contrasto. Ma il discorso può essere allargato dalla musica al film nel suo insieme. Dopo aver condannato lo “spettacolo” del cinema, con Ultimo tango cambio idea, faccio e do “spettacolo”.(Bernardo Bertolucci) (1).
La parte musicale della colonna sonora è stata pensata per fare “spettacolo”, una musica apparentemente non assimilabile alle “musiche” della Novelle Vague, come siamo abituati ad ascoltare soprattutto nei film di Godard. Eppure, poiché la parte semantica della musica o non è possibile (essendo il linguaggio musicale privo di una denotazione) oppure lo è solo in alcuni precisi contesti storico-culturali ben determinati all’interno di determinati gruppi sociali, anche le “musiche” che “seguono” le immagini non sono, almeno al livello della denotazione, portatrici di significato. Nonostante questo i commenti musicali di Ultimo tango a Parigi (come di molti film) non si limitano soltanto ad “essere” il sottofondo dell’immagine, non sono un accompagnamento, anche se gradevole, ma influenzano le nostre emozioni, arricchendo le immagini stesse di nuovi significati. Pertanto un’ “icona sonora” (2) sottolinea e arricchisce un’altra icona suscitando e amplificando emozioni. La splendida colonna sonora di Gato Barbieri approfondisce il solco tra il disfacimento interiore, la totale perdita della propria “apparente solidità”, e l’immagine aleatoria e univoca, solida ma icona falsa e “verosimile” che mostriamo all’Altro. La forza della musica penetra in questo interstizio proprio perché Gato Barbieri è riuscito a creare una significazione (non un commento ma un continuum del tessuto fonico-strutturale), una “forma” che s’incolla alle immagini sottolineandone ancor più la deformazione ulteriore, facendoci vivere la bellezza della sua musica. In effetti la musica di Ultimo tango si fa notare, non è “casuale”, non è un coitus interruptus (3), ma un amplesso che si trascina fino all’ultimo fotogramma, sottolineando maggiormente la caduta agli inferi di Paul e Jeanne e, con essi, del film, fino alla sua estinzione per decreto legge (leggi Cassazione). Se la Cassazione nella sua “impropria” decisione avesse sancito anche la “pornografia” della musica, forse la sentenza sarebbe stata probabilmente più ridicola comunque più appropriata. Può una musica essere pornografica? Se possiede una denotazione dovrebbe esserlo. E violenta? (4). Per quanto concerne la dimensione poietica dei meravigliosi brani del film non saprei, perché bisognerebbe approfondire la ricerca (magari intervistando gli autori), ma nella dimensione estesica, che concerne la percepibilità dell’opera (5) è rimarchevole la perfetta interazione sinestetica della musica con l’immagine corrispondente. Sì, se Ultimo tango è pornografia, lo è anche la sua musica. Naturalmente non concordo, ma credo invece che l’atroce consapevolezza, trascinandoci nell’angoscia del protagonista colto nell’atto di urlare la sua debolezza alla città, si deforma ulteriormente nel pathos che la suite di Ultimo tango riesce ad imprimere sulle immagini. La musica nell’incipit, It’s Over, (dopo i titoli di testa) si percepisce a tratti, come un avvertimento del dolore in atto, poi ammutolisce (soprattutto lungo tutta la durata dell’amplesso fra Paul e Jeanne che “avviene” nel più desolante silenzio). Ma quando i due personaggi escono dall’appartamento e soprattutto lungo il percorso di Jeanne che la conduce alla stazione, il motivo irrompe, trascinando, sulle scene di una Parigi distante e indifferente, lo strazio del primo incontro. L’esplosione della Suite (Jazz Waltz), che sottolinea la corsa di Jeanne, non fa altro che rimarcare l’icona del rapporto doloroso appena consumato; ma il ricordo svanisce lungo il percorso e quando Jeanne incontra Tom, una volta giunta in stazione, sesso e musica sono dimenticati. Lo stesso con Picture in the rain che esplode in tutta la sua veemenza sotto una pioggia altrettanto imprevista ma sufficiente a “di-sciogliere” l’equipe cinematografica. La fuga per un semplice acquazzone di un’equipe stile Novelle Vague, e il fatto che Tom rimarchi la fine (del suo film) con la fatidica frase “Siete tutti licenziati” (nel senso immagino di “liberi di andarvene”), ci trasferisce direttamente in un epilogo cinematografico collocato in un altrove mentale (i tanti film che abbiamo visto) oppure nella disperazione per l’assenza ingombrante di una netta significazione. Così l’icona sonora, incapace di farsi denotazione, in quanto icona, tramite una sinestesia (la musica procura emozioni attraverso immagini) diventa una sutura interna all’immagine che crea un senso. Come afferma Cristina Cano, la musica è in grado di trasformare le immagini, conferendo una maggiore forza e capacità di suscitare emozioni. Ma allo stesso tempo anche la musica risulta arricchita nel suo rapportarsi all’immagine, inglobando nel suono una componente iconica che non possedeva prima di essere “incollata” al film. Quando sento e vedo un clip di Gato Barbieri rivedo e rivivo le immagini più forti di Ultimo tango e l’esuberanza di questo “atto linguistico" agisce sul film che è in me. Ultimo tango viene continuamente proiettato dal ricordo: ad esempio la suite del film, una volta udita, è come il profumo della madeleine di Proust, è un segno linguistico anche se lo è solo grazie all’icona del fotogramma. Siamo di fronte ad una sovrapposizione di sensi, il senso dell’icona (immagine) si amplifica e amplifica il senso dell’icona sonora (musica). Per Cristina Cano ci troviamo in questo caso davanti al funzionamento semantico della musica. Per far questo però bisogna tener conto che il concetto classico di linguaggio (applicabile all’arte in generale, soprattutto arti visive e letteratura) deve essere revisionato. Rimarcata l’impossibilità della denotazione e soprattutto l’intraducibilità del linguaggio musicale, si tratta di credere in un transfert psicologico, ossia di avere fiducia che un tema musicale possa conferire un senso ulteriore all’immagine tramite un “transfert di significato”, che si muova “dal piano stilistico a quello psicologico” (6). Pertanto è l’atto del vedere (e dell’udire) che “forma” nella mia mente una profondità quadridimensionale (la musica è una rappresentazione simbolica dell’esperienza esistenziale del tempo) (7), un nuovo incommensurabile senso che le immagini da sole non possedevano ma che adesso (nel caso in cui ovviamente la colonna musicale riesca ad integrarsi perfettamente nelle varie sequenze) restituiscono attraverso le potenzialità iconico-diegetiche del mio vissuto.

(1) Enzo Ungari, Scene Madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri 1982
(2) Nel linguaggio musicale l’icona è l’immagine sonora di qualcosa o di qualcuno,
(3) L'idea di "coitus interruptus" mi è venuta leggendo un post di Honeyboy che ringrazio.
(4) La Nona Sinfonia di Beethoven accostata all’ultraviolenza di Arancia meccanica diventa violenta?
(5) cfr. Jean-Jacques Nattiez, Musicologia generale e semiologia, Torino, Edt, 1989.
(6) cfr. Cristina Cano, La musica nel cinema. Musica, immagine, racconto. Roma, Gremese Editore, 2002.
(7) Per Michel Imberty la scansione temporale è il modus operandi della sintassi musicale e che essa si esprime in termini di velocità e di successione (ritmo) e in termini di durata tonale (intervallo).




18 giugno 2008

Ultimo tango a Parigi. 3. La peste: Living Theatre o del contagio artaudiano. (3/4)

L’ultimo tango è una danza continua, inarrestabile, che si trasmette di scena in scena, corrompe l’animo inquadratura dopo inquadratura. Bertolucci conosceva benissimo Il Living Theatre. Aveva visto uno spettacolo di Julian Beck e Judith Malina nel 1963 (Mysteries), i quali avevano iniziato nel 1943 in uno scantinato di Wooster street a New York. All’inizio era un teatro ripreso dai Nô giapponesi (1) e varie altre rappresentazioni ( Ibsen ad esempio e il teatro medievale). Ma negli anni sessanta Beck aveva già iniziato a coinvolgere il pubblico, rivedendo anche il concetto stesso di spazio teatrale (distinzione tra platea e palcoscenico). Nelle loro rappresentazioni gli spettatori potevano avere la sensazione di essere aggrediti dagli attori per il coinvolgimento fisico. Nella cosiddetta seconda fase del Living Theatre (Off-Broadway) la compagnia teatrale iniziò un suo percorso itinerante, soprattutto verso l’Europa e l’Italia, con rappresentazioni pacifiste e libertarie. Ad esempio Paradise Now (performance svoltasi anche in Italia nel 1968) era in parte improvvisata mentre gli attori si spogliavano in scena. Questo provocava l’intervento della polizia che obbligava a terminare la rappresentazione. Ma in fondo il Living Theatre si rifaceva ad Artaud ed alla sua idea di teatro tradotta in un libro “Il teatro e il suo doppio”. Paul e Jeanne, si muovo all’interno dell’appartamento vuoto come due attori artaudiani inserendosi in quel “teatro della crudeltà” che mette in mostra se stesso anziché la rappresentazione. Ad esempio nella sequenza dell’amplesso i due amanti improvvisati scivolano in terra staccandosi subito dopo aver consumato; e mentre lui rimane supino con la faccia sprofondata nella moquette, lei, quasi per voler fuggire dallo strazio del rapporto appena concluso, “rotola” sul pavimento imprimendo al cappotto un movimento avvolgente. Il cappotto che copre il suo pube non è assimilabile ad un “gesto volontario”, ossia un atto semantico espressivo e/o significativo (come dire: adesso mi copro perché ho vergogna), ma rappresenta un “segno” oscuro, profondo, di un disagio o un conflitto tra Jeanne e il suo stesso corpo. In altri termini, in linea con il concetto di teatro caro ad Artaud, molte sequenze del film mostrano una serie di segni prodotti non dalla scelta dell’Autore-Dio ma dal movimento coinvolgente di corpi e segni. Il teatro di Artaud è la messa in scena di situazioni di un impatto emotivo violento e destabilizzante, utilizza espedienti tecnici cruenti e crudeli al fine di suscitare la reazione attiva dello spettatore. Non si vuole insomma un evento narrativo, un racconto che suddivide lo spazio e il tempo in parti uguali o correlate, non si vuole affidare dei ruoli ai partecipanti convenuti e riunitisi (da una parte gli attori che recitano una "storia", dall’altra gli spettatori che assistono alla rappresentazione). Altrimenti lo spettacolo diventerebbe un cliché, un evento conosciuto, reiterato e reiterabile, che rifletterebbe la sua stessa logica artificiosità. La situazione risulterebbe statica e rituale, non sarebbe uno spettacolo ma una messa. Per Derrida (come afferma nella sua prefazione al libro di Artaud) un teatro estraneo al teatro della crudeltà è un teatro che assegna una parte fondamentale alla parola, un teatro che si distanzia, si allontana dalla vita, dalla sacralità della vita. Per Derrida un teatro che si distanzia è pedagogico, mentre un teatro della crudeltà deve essere politico, quindi richiamare una partecipazione. Lo spettatore in questo tipo di teatro non può immedesimarsi, ma deve partecipare. Questo senso della partecipazione, reiterato e restituito all’altra parte che sta oltre la quarta parete, riduce la distanza, avvicina i corpi. Il corpo danzante scivola tra gli oggetti, si muove in uno spazio vischioso, come per voler condurre il nostro “corpo evanescente” (perché diluito nell’altrove della sala) nella danza perpetua. La stessa forza che mostra Jeanne e Paul nudi (rannicchiati l’uno di fronte all’altra, colti nell’atto di pronunciare il loro innominabile nome con un grugnito) si trasmette anche nei movimenti parossistici di Tom, quando si muove (nella sequenza in casa di Jeanne) per le stanze e rotea intorno al tavolo, allungando le braccia per afferrare le spalle della ragazza. Pertanto mentre Tom continua con la sua crudele follia (“Chiudi gli occhi. Non ti fermare… Così ritrovi la tua infanzia… Non aver paura. Superi tutti gli ostacoli”) lei, indietreggiando, tocca gli oggetti della sua infanzia. La crudeltà può essere fisica (Paul) o psicologica (Tom) ma diffonde sempre un contagio. Gli attanti sono come degli appestati che mi contagiano. Quando mi lascio trasportare dai loro movimenti, dalle loro danze, dal loro tango crudele, mi sento coinvolto, scivolo con loro lungo le pareti vuote di rue Jules Verne o scivolo attraverso gli oggetti-ricordo della mia infanzia. L’happening ha inizio, rimango coinvolto e sconvolto da questo lento, inesorabile trascinamento (pellicola-emozione?), da questo récit corporale che mi contagia, mi unge, trasferendo la peste nel mio corpo. Ultimo tango a Parigi è una peste nera, è un film pericoloso che ammorba, forma una malattia, suggerisce una danza, un “tarantismo” (2). La “tarantella” che si impossessa di me e mi fa danzare. Non seguo più gli eventi (in fondo la storia di Paul e Jeanne, che contiene la storia della fedifraga Jeanne, è un classico triangolo che non mi interessa), ma partecipo, rimango coinvolto, mi ammalo, vivo. L’happening mi trascina, mi coinvolge, mi trasferisce nei gesti e nelle performance degli attori che si muovono intorno a me suscitando una reazione desta e conscia. Mentre nell’happening l’irruzione avviene in uno spazio quotidiano qualsiasi, magari in un non-luogo (3), e riflette l’esigenza di una rappresentazione artistica che coinvolge il pubblico rilasciando documenti del tempo vissuto (fotografie o filmati), il teatro della crudeltà è uno scannatoio, uno studio dentistico dove partecipo all’evento, ossia all’estrazione cosciente (nessuna anestesia) del mio molare. Non c’è via di fuga, bisogna sottostare e farsi “riprendere” dal cinema di Tom o farsi “imburrare” dal dito di Paul. È una sensazione fisica, un dolore che riflette il dolore di Jeanne nel momento in cui viene coscientemente sodomizzata, rimanendo sospesa in questo happening di attrazione-repulsione. Questa struttura “crudele”, queste danze che ammorbano, scorrono lungo ogni sequenza. Voglio ricordare in particolare le ultime sequenze del film, quando Jeanne fugge dalla sala dove ha ballato con Paul un tango “particolare” (da affetti da “tarantismo”): Paul le corre dietro lungo le strade parigine, la raggiunge, la vuole afferrare, lei lo allontana, i due si strattonano, si afferrano, si respingono (questa è un’altra stupenda danza), poi lei gli sfugge nuovamente, finché Paul la segue dentro l'appartamento di lei, le si avvicina nel momento in cui Jeanne prende una pistola da un cassetto. Mentre le cammina incontro dice: “Come lo vuole il suo eroe. Alla coque o strapazzato? […] Ma ora ti ho trovata. Ti amo. Voglio sapere il tuo nome”. Pronunciando queste ultime frasi le accarezza i capelli (primo piano del suo volto a sinistra e sulla destra, di spalle, parte della chioma fuori fuoco di Jeanne). Lei pronuncia il suo nome (adesso vediamo il primo piano del suo volto), ma la sua voce viene parzialmente coperta dal rumore dello sparo. La malattia che ci affranca dal verosimile ci appartiene come segno di una scelta non appagante, ma comunque cosciente e che può solo farci arrivare fino al davanzale con vista su una Parigi distante, dove nasceremo o moriremo di nuovo.


(1) Il no, a differenza del kabuki, l’altro grande genere del teatro giapponese, rifugge da ogni effetto “naturalistico” e mimetico, per comunicare, attraverso un agire scenico altamente simbolico, un’intensità emotiva cui nessun dramma realistico potrebbe mai aspirare. Il no è in sostanza una forma di rappresentazione aristocratica e spirituale. Il suo fine è svelare un’emozione, un nodo psicologico di portata universale. Sulla scena verrà espresso l’uomo nella sua essenza svuotato di tutto ciò che è futile e materiale. (http://guide.dada.net/studi_orientali/interventi/2004/06/161782.shtml).

(2) Il tarantismo o tarantolismo è considerato un fenomeno isterico convulsivo, proveniente da antiche culture popolari. In base ad alcune credenze dell'Italia meridionale, sarebbe provocato dal morso di un ragno chiamato taranta […]. Il tarantismo comporterebbe una condizione di malessere generale e una sintomatologia psichiatrica simile all'epilessia. I sintomi sarebbero offuscamento dello stato di coscienza e turbe emotive. […] Il tarantismo ha generato una forma musicale ed un ballo detto pizzica o tarantella, e in questa forma ha perso il legame con la religione e la superstizione, vivendo di vita propria. (Wikipedia).

(3)Marc Augé, Nonluoghi, 1992

16 giugno 2008

Premio Meme


Alcuni giorni fa (e colgo l’occasione di scusarmi per il ritardo, ma per me è un periodo impegnativo e riesco ad accedere in Internet sporadicamente) il carissimo amico Cinedrome mi ha conferito un premio molto bello (le coppe mi piacciono anche disegnate) con una motivazione a dir poco lusinghiera (sono arrossito nel leggerla). Lo stesso premio mi è stato conferito anche da Blog superfluo e C’era una volta il cinema (sempre con motivazioni che mi onorano). Naturalmente non ho parole. Ringrazio sentitamente questi miei carissimi amici e ricambio la stima nell’affermare che anch’io sto imparando molto da loro, come sto imparando da molti altri blog. Per questo sono imbarazzato a conferire lo stesso premio ad altri cinque blogger; infatti non so proprio a chi assegnarlo. Pertanto farò una cosa sbagliata, non rispettosa della catena e del regolamento. Mi scuso con gli ideatori. Assegno il premio a tutti i blogger che si trovano sulla mia lista dei link, nessuno escluso. Lo so, con questo non voglio dire che per me siete tutti uguali, perché non è vero. Stimo moltissimo tutti, ma è logico che alcuni blog sono da me considerati leggermente più di altri. Questo non significa che stia esprimendo un giudizio, significa soltanto che è naturale avere delle preferenze. In realtà stimo tutti, perché ritengo di avere imparato da tutti. Anche se non cito i premiati uno per uno, per me il premio è assegnato. Pardon. P.S. Dopo la pubblicazione di questo post sono stato premiato anche da una nuova carissima amica, Valentina ariete, che ringrazio sentitamente. Una caro saluto..

14 giugno 2008

Ultimo tango a Parigi. 2. Strategie del sublime dalla caverna alla "Storia di una ragazza". (2/4)

“La storia di una ragazza”(il film che Tom sta girando) prosegue nel verosimile solo apparentemente. In effetti fuori dalla caverna platonica (1) si entra in un altro incubo. Il verosimile, inteso come moralità imposta e punto di vista artificioso del potere (che pretende di formare e plasmare luoghi comuni a sua immagine e somiglianza), registra e coordina un certo modo di intendere e definire l’etica comportamentale di Jeanne. Infatti Jeanne riprende la sua forma imposta dai luoghi comuni (fidanzata, brava ragazza, un passato, ricordi) che non possono stabilizzarla, coordinarla, armonizzarla in un’etica. Mentre nell’appartamento il corpo di Jeanne riesce a riflettersi attraverso le lenti deformanti distorte da una luce stroboscopica e “baconiana”, nella stazione, dove Tom l’attende con la sua equipe, la luce diventa casuale (aspetto tipico della Nouvelle Vague) non luminescente, insignificante (2). La trasformazione, nel montaggio discorsivo (3), non interviene come contrapposizione tra oscurità (caverna) e luce (sole), ma come un continuum che si limita a trasferire questa caduta agli inferi da un quadro all’altro. In altri termini, il mondo di Tom non è l’antitesi del mondo di Paul, ma solo un altro luogo ove abbandonarsi al flusso incontenibile e irrappresentabile del mondo. Questa incapacità di proporre un’alternativa (ma in fondo l’alternativa è l’ “inferno” della caverna) si esorcizza attraverso un’altra lente che non deforma la luce, lo spazio e il tempo, ma la rappresentazione. Con questo voglio dire che Tom, regista televisivo, già al primo incontro definisce la storia d’amore con Jeanne solo attraverso il cinema, quindi tramite un’arbitraria rappresentazione. Tutto quello che nel rapporto con Paul viene mostrato attraverso una deformazione pittorica (ma non solo) qui, negli incontri con Tom, può solo essere fiction. Il verosimile sembrerebbe prendere il sopravvento, ma non accade perché le capacità autoriali, creando sequenze metacinematografiche, annullano questa pretesa. Mostrando il rapporto tra Jeanne e Paul filtrato dal medium, Bertolucci dimostra l’impossibilità di una redenzione. I flussi evanescenti e sfocati di Bacon sono diventati false immagini che si sciolgono nello scarto tra ciò che il mondo sta preparando a Jeanne e l’impossibilità di definire questo mondo. Questa aporia chiude definitivamente ogni possibilità di aprire una via di uscita attraverso la ricerca classica e accattivante di una bellezza anamorfica. A questo punto mi interessa trovare e proporre una lettura che esula dall’arte “classica” nel senso di non tecnologica. Il bello (in senso kantiano) risiede nei nostri giudizi espressi dalle nostre aspettative estetiche, come dalle nostre emozioni e dagli stati d’animo del Soggetto, ma non va considerato a mio avviso come una misura per esprimere un giudizio sul film, in quanto il “[…] bello della natura riguarda la forma dell'oggetto, la quale consiste nella limitazione […]”, mentre in Ultimo tango a Parigi gli oggetti non hanno forma perché implicano una rappresentazione dell’illimitatezza. In altri termini, il film mostra la propria forza attraverso la deformazione del sublime. Mentre il bello secondo Kant “[…] implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, e perciò si può conciliare con le attività e con il gioco dell'immaginazione, il sentimento del sublime, invece, è prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto come un gioco, ma come qualcosa di serio nell'impiego dell'immaginazione”(4). Purtroppo il Sublime concerne la natura (sublime dinamico: tempeste, incendi, eruzioni, ecc.; sublime matematico: immensità della natura nei casi di oceani, deserti, ecc.) , è uno spettacolo che non riguarda l’arte e in questo mi trovo d’accordo con Mario Costa (5) quando afferma come il sublime provoca “[…] uno scacco e una sospensione del simbolico e come, pertanto, esso sia assolutamente indicibile; nominare il sentimento del sublime significa già lasciarsi dietro il sublime e passare dal sublime al simbolico[…] (6). Nell’arte non è realizzabile proprio perché il sublime, in quanto esperienza di “un eccesso destrutturante, […] è indicibile nella sua esperienza”, per cui “nel momento in cui il sentimento del sublime si trasforma in parole o in altre forme equivalenti si passa dall’ordine del sublime all’ordine del simbolico”. Quindi “nulla di quello che ha assunto la forma del simbolico può essere ritenuto veramente sublime” (7). Ma con l’avvento delle tecnologie l’arte ha cominciato a sostituirsi alla natura e ha “dato forma” al suo sublime tecnologico (8). A questo proposito ritengo che Ultimo tango a Parigi porti avanti le sue strategie del sublime ponendosi come uno spettacolo, o meglio (citando sempre Costa) il sublime può essere reso oggetto, ma un oggetto senza forma. In altri termini, riprendendo sempre il discorso di Costa, il sublime tecnologico può essere inteso come “una disposizione d’animo che nasce non dalla forma dell’oggetto ma dalla relazione dell’animo con la situazione-oggetto” (9). Ultimo tango a Parigi è una situazione-oggetto che provoca nello spettatore un senso di indeterminatezza e di attrazione-repulsione (Kant) provata da un osservatore di fronte all’indeterminatezza e all’improponibilità di questo film (e non alla grandezza come nel caso della natura). Le situazioni-oggetto si stratificano l’una sopra l’altra, quasi fondendosi e rendendosi “invisibili” allo sguardo ma completamente rilevabili attraverso un’induzione (10) dell’animo. Insomma il sublime è indicibile. Queste situazioni sono eventi emozionali-visuali-sonoro-tattili,una sorta di sesto senso che si connettono con la nostra incapacità di gestire l’evento provocando un senso di incompiutezza e smarrimento. Le strategie di questo “ragno” formano dei punti, degli “snodi”, dei passaggi che permettono di vagare nel film come vagabondi che urlano verso il treno della metropolitana. Uno di questi snodi può essere ad esempio la carrellata in avanti che mostra la vetrata smerigliata del portone di ingresso dell’appartamento da affittare (che si trova in rue Jules Verne). Quando Jeanne suona il campanello al lato del portone-vetrata, la mdp esegue una carrellata (leggermente inclinata verso il basso) da destra a sinistra della vetrata sfocata e mostrata in primissimo piano, finché, non appena vediamo il giovane volto di Jeanne fare capolino prima di uscire, ci rendiamo conto che il “lieve” travelling è proseguito in un’ellissi. Questa scena rappresenta un punto di vista temporale, uno spazio-tempo concentrato in un punctum (11)(non formato?) in quanto restituisce un punto di vista che si trova allo stesso tempo in due momenti differenti. In altri termini Jeanne è già stata nell’appartamento, tutto è già accaduto o sta per accadere, oppure niente può essere controllato o coordinato ma solo respirato. Stessa situazione nella cabina telefonica all’interno del bagno di un bar occupata da Paul, mentre Jeanne in attesa si guarda allo specchio del bagno davanti alla porta smerigliata. Quando Paul sta per uscire si ha la sensazione che apra la porta della cabina, mentre in realtà apre la seconda porta (sempre smerigliata e identica alla prima) che dà direttamente sul bar. Nella sequenza in cui Jeanne si reca in stazione (immersa in una luce diurna poco luminosa, una luce quasi trasandata in stile Nouvelle Vague) la vediamo, ripresa in primo piano dal basso, quasi scomparire come in una dissolvenza “naturale”, sotto un effluvio di luce che colpisce la mdp accecando in un bagliore violento lo schermo. La luce solare (Lumière = luce = F.lli Lumière) nella stazione dov’è arrivato il treno (La Ciotat?). Adesso inizia la parte metacinematografica in cui la disperazione assume toni ancora maggiori: dalla caverna platonica, in cui vediamo le ombre del reale proiettate sul muro, alla stazione, in cui non vediamo neppure quelle ombre, ma solo la luce che “scolpisce” il tempo (12) e in questo caso una luce abbandonata nel mondo che non ha pretese narrative. “Allora tu mi hai abbracciato e sapevi che era un film. Che vigliacco. Brutto traditore!” dice Jeanne mentre Tom le risponde: “Vedrai, è soprattutto un film d’amore”. E quando Tom le chiede cosa ha fatto tutto il giorno, lei replica recitando la sua bugia (“Ho pensato tutto il giorno a te. Amore non posso vivere senza di te”), mentre Tom, con entusiasmo: “Magnifico! Stop! Fantastico!”. Questi “snodi” sono numerosi e mutevoli. Nella sequenza ambientata nella casa di Jeanne, Tom, spengendo un mangianastri, interrompe una musica che sembrava extradiegetica e che solo adesso apprendiamo essere pertinente alle immagini una volta relegata nella diegesi (ma una diegesi di secondo grado considerata come “tentativo di diegetizzare l’assenza di senso dell’iconico). Poco dopo la musica però esce dall’alveo della diegesi riappropriandosi dei connotati pseudo-classicheggianti. Altro aspetto (sempre nella stessa sequenza) la voce off di Jeanne intenta a raccontare i ricordi della sua infanzia nel momento in cui vediamo un gruppo di bambini che corrono nel giardino. Sembra un salto temporale, un flash-back, ma in realtà si tratta di un “inganno dell’iconico” in quanto poco dopo gli stessi bambini vengono colti in flagrante da tutta l’equipe mentre stanno facendo i bisogni nascosti dietro una siepe. Questa parte del film, come giustamente detto e ridetto, vuole essere un omaggio alla Nouvelle Vague, ma vuole anche essere il bisogno di dilatare il senso di scacco attraversando un certo tipo di cinema moderno. Se osserviamo bene le scene con Tom, non ci troviamo davanti a un cinema prettamente attinente alla Nouvelle Vague (almeno non soltanto), perché la recitazione enfatica di Leaud (che spaventa più delle “manie” erotiche di Paul) amplifica il modo di Tom di affrontare il rapporto con Jeanne (un parossismo cinefilo forse più melodrammatico del récit all’interno degli appartamenti). La luce casuale contribuisce a infondere un senso di angoscia, sottolinea lo spavento del falso e la difficoltà di mantenere uno stile a tutti i costi. La luce alla Nouvelle Vague è ancora più spaventosa della luce deformante di Bacon, mentre i riflessi di specchi, gli ostacoli apparentemente trasparenti (staccionate, normali porte di legno, un treno che divide il dialogo tra i due fidanzati nella metropolitana, ecc.) , sottolineano la distanza immane dei loro mondi. Sguardi del dopo e del nulla, il loro gioco sprofonda nell’indicibile tecnologico.

(1) Platone, La repubblica.
(2) Nella stazione la luce del giorno che filtra da sopra le pensiline si riflette nei fumi dei treni, oppure diventa un raggio solare che, colpendo l’obiettivo della macchina da presa, annulla il volta di Jeanne.
(3) cfr. Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, 2006
(4) Tutti le citazioni sono riprese dalla Critica del giudizio di Immanuel Kant.
(5) Mario Costa, Il sublime tecnologico, Castelvecchi, 1990.
(6) cit., p.28
(7) ibidem.
(8) Termine usato impropriamente e me ne scuso ma non riuscivo a trovare una definizione più esplicativa che rendesse bene l’idea. Riguardo al sublime tecnologico Costa afferma: “ Le neo-tecnologie comunicazionali (circuiti televisivi in “live”, reti telematiche, slow-scan Tv e telefax, tecnologie satellitarie…) e le tecnologie di sintesi (delle immagini, dei suoni, delle forme plastiche…) sono i media di questa dimensione del sublime tecnologico che ci si offre e che ci è dato di attraversare". (p. 39)
(9) p. 47
(10) Nel suo significato scientifico di fenomeno per cui un corpo vicino a un altro ne modifica alcune caratteristiche o ne determina alcune proprietà (De Mauro)
(11) Nel senso definito da Roland Barthes in La camera chiara, PBE 2003
(12) Andrei Tarkovskij, Scolpire il tempo, ubulibri, 1988

10 giugno 2008

Ultimo tango a Parigi. 1. La figura aptica della morte. (1/4)

Dipingere il malessere di una società che rifiuta il dolore, che espelle la sofferenza, il decadimento fisico, l’idea stessa della morte, una società che annulla la vita rinunciando al suo sapore in nome del benessere di un’altra idea di vita, mentre la morte lavora giorno dopo giorno dall’interno. I volti di Francis Bacon sono spettri che aprono il loro interno mostrando il disfacimento morale, mentre i colori non sono immagini, riflessi aerei, flussi di luce che immergono il dolore nell’aria e nell’emozione impressionista dell’attimo, ma sono nel corpo, attraversano il corpo, sciogliendolo nelle sensazioni che esprime. E siccome per Bacon il “secolo breve”(1) è il secolo dell’orrore, delle nefandezze, dell’angoscia, dei soprusi, l’ “oggetto” deve esprimere la rabbia deformata e mutilata. Lo spettro “apre” la carne mostrando l’incessante lavorio della morte, attimo dopo attimo. La forza invisibile, il malessere che scorre nel mondo, l’orrore del quotidiano, uscendo allo scoperto e mostrandosi allo sguardo, non è una materia o un oggetto di per sé, ma una forza invisibile, un’entità che trascina il male dell’anima all’esterno. Nei suoi dipinti Bacon restituisce questa forza invisibile utilizzando vari sistemi (non starò a fare un excursus sui suoi differenti periodi pittorici): movimenti del corpo, riflessi di superfici, sfocature di parti del dipinto. Il fuori fuoco (2) in particolare serve a Bacon per deformare la rappresentazione dei corpi allo scopo di sfigurarli, e le zone fuori fuoco dei dipinti si concentrano di solito sulle figure umane attraverso parti cancellate, quasi buttate nel gorgo dell’inespresso, o immagini riprese nella loro rotazione o sviluppo temporale. Si notino in particolare i volti dei suoi quadri, le dissolvenze delle membra (Bacon era influenzato dal cinema e in particolare da Bunuel), gli specchi frastagliati ed evanescenti. Nei titoli di testa , si vede, nella parte sinistra dello schermo, un quadro di Francis Bacon raffigurante un uomo sdraiato su un letto, dai colori saturi ove dominano il rosso e l’arancione. Dopo pochi minuti il quadro lascia il suo posto, nell’altra metà dello schermo, ad un altro dipinto di Bacon che raffigura una donna seduta al centro della stanza. Qui dominano colori freddi (rosa e azzurro). Dopo i titoli di testa, prima dell’incipit, i due quadri si affiancano nello schermo. Stiamo entrando nel film attraverso la pittura di Bacon. Nell’incipit ci troviamo davanti a un Marlon Brando che vaga disperato in una Parigi (lo vedremo) ancora intrisa di Nouvelle Vague, colto nel momento in cui lancia un urlo sotto la soprelevata parigina, mentre la Schneider cammina velocemente con aria rilassata. Il dolore dell’uomo e l’ingenuità della donna si incontreranno nell’appartamento vuoto, avvolto in una semi oscurità color arancio. Questo uso del colore e di questa luce arancione, preso direttamente da Bacon, influenza il plot e la storia, anzi determina e dirige gli incontri nella stanza-quadro, nella gabbia in cui gli attanti sono “liberi” di muoversi e di esprimere la loro sessualità . La stanza diventa così l’inferno di una umanità disperata, trasportando nel gorgo degli inferi anche la beata innocenza della gioventù, la spontaneità con la quale Jeanne accetta di “subire” la morte in atto che imprigiona “fuori dal tempo” (perché il tempo del cinema viene scandito fuori dall’appartamento) e dentro l’anima corrosa dall’attesa(3). La deformazione del materiale si esplica attraverso le grandi sale deserte, come abbandonate, della casa vuota, ma anche attraverso gli oggetti e le pose plastiche assunte da Paul e Jeanne. Ad un certo punto si vede lei riflessa in uno specchio rotto situato oltre una porta aperta. L’immagine è distorta, evanescente, rotta. L’unità prospettica dello spazio (come quella cronologica del tempo) è segmentata e de-costruita nelle in-formazioni deformanti, riportando un possibile futuro in atto (anche lei morirà dentro?). Il sapere falsificante emerge improvviso quando vediamo far capolino il volto ancora apparentemente felice ed entusiasta della ragazza, pronto e attento ad osservare la misteriosa posa plastica di un uomo che ha già perso la sua gravità logica. Lo sguardo, in altri termini, viene continuamente dirottato e allontanato, illuso e colluso col mezzo di ripresa, con lo sguardo indignato e “perverso” (nel senso che è pertinente al verso “giusto” e conforme del senso comune del pudore) dell’ordine pubblico o di una magistratura che di lì a poco condannerà il film al “rogo” perpetuo (4). Ma la connessione extrasensoriale della vista si lega alla “tattilità” dell’immagine. Se l’icona si corrompe e si deturpa nella sua dimensione tattile o aptica, allora non si tratta di voler vedere distintamente; e per questo secondo me il film non è un film “osceno, amorale e improponibile”, ma è un film che ci trasporta (almeno nelle parti girate in interno) dentro la pittura di Bacon, mostrandoci direttamente la morte al lavoro, attimo dopo attimo, intenta a consumare anche la storia più romantica (che non è quella tra Tom e Jeanne ma tra Jeanne e Paul). Le due uniche vere tematiche, le uniche due super storie (e mi scusino tutti coloro che amano la “trama”) si riducono e si allineano ai due momenti topici della vita: Eros e Thanatos. Tutto si adegua e si conforma, deriva, ritorna, fugge, si colloca in questi due unici temi. Ciò che trasforma questa desolazione, questa attesa ansiosa e impudente, in questo caso è la luce crepuscolare striata d’arancio, quasi per concretizzare, dare un forma o, meglio, quasi per sformare Thanatos; ma bisogna considerare anche le innumerevoli “lenti” sparse nei vari appartamenti come l’appartamento alcova dei nostri due eroi oppure l’appartamento dove la moglie di Paul si è suicidata. Queste lenti sono riflessi nello specchio, vetrate colorate e smerigliate che deformano volti, scene imprecise (ove si vedono a fatica i movimenti degli attori), specchi rotti, tende macchiate di sangue, pioggia sui vetri che deforma lo sguardo. L’immagine, allontanata dalla sua nitidezza e velata dai colori e dalle sfumature della morte, è come se venisse toccata (“tango” in latino “io tocco”) dalla figura aptica della morte. Qui il tempo non esiste proprio perché l’esperienza tattile, il freddo alito che genera un tocco angosciante, la disperazione della privazione e della ricerca di un surrogato inequivocabilmente impossibile (la stanza è un rifugio che dura al massimo il tempo di una proiezione) hanno ridotto le ellissi, forse annullate. La moglie è morta da poco tempo, si trova ancora adagiata nello squallido albergo nel suo feretro, immobile, bellissima (perché truccata) ma inespressiva, partecipe allo sguardo che allinea e colora ma ormai vanamente incalzata dalle domande di Paul. Il suo sguardo è diretto verso l’alto e non vedremo mai una sua soggettiva, perché siamo già da tempo dentro la soggettiva aptica di Bacon-Bertolucci.


(1) Eric Hobsbawm, Il secolo breve. L'epoca più violenta della storia dell'umanità. Rizzoli, 2000
(2) Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione. Quodlibet, 1995
(3) Bertolucci in una intervista parla di gabbia in cui erano imprigionati i due interpreti ma in cui erano liberi di esprimersi. La ripresa del primo amplesso dei due sconosciuti è nata spontaneamente. Bertolucci ha detto a Brando soltanto di sollevare con le braccia la Schneider e di portarla verso la finestra, quindi ha detto ai due di scivolare in terra. Tutto il resto, anche l’idea di avvicinare il dolly da un campo lungo a un campo medio è stata un’idea spontanea di Bertolucci, colta nel momento della ripresa.
(4) Condanna definitiva della Cassazione nel 1976. Non faccio commenti perché libererei il mio inconscio alquanto irritato.

5 giugno 2008

Il Divo (Paolo Sorrentino, 2008)

Seguendo la dittatura dello sguardo che “scivola” nella sua visione mentale (perché la mente unisce ingannata dal sapere) oppure corporea (perché il corpo freme sperimentando la sofferenza della carne ingannato dall’illusione di realtà) potremmo aver visto un film di movimenti, di immagini, di suoni, interfacciati l’uno con l’altro allo scopo di accattivarsi le simpatie e le empatie estetiche dello spettatore. Sedersi a vedere Il Divo non è come sedersi al cinema per vedere un film. Naturalmente siamo in sala sprofondati nelle poltrone col corpo ectoplasmatico(1) immerso nel buio, per correre con l’immaginazione lungo i segni linguistici dell’evento. Ma non è come vedere l’assemblaggio di immagini e suoni sincroni perché le immagini e gli acusmetri non sono disponibili. Ormai le scorte sono finite. Pertanto il senso metacinematografico del film (molti giustamente hanno citato Scorsese, Ophüls, Leone) prende il sopravvento, l’immagine di un vampiro che non cammina ma scivola (come fosse trasportato da un tapis roulant), e i cui passi echeggiano nell’oscurità slegati e distratti (distorti) dal corpo di Andreotti, non mostra più un personaggio e i suoi dolori/deliri (l’ironia falsificante e gli spilli del mostro), ma la perdita di un’occasione, l’amara constatazione di un’assenza ingiustificata. Questa assenza non è stata colmata: questo vuoto della vita politica italiana di questi ultimi sessant’anni non è stato riempito. Come mostrare l’assenza? Come mostrare la perdita (o l’incapacità di acquisire una capacità per contenere una forma)? Bisogna rinunciare alla vista. Se fosse possibile trasformare immagini in lettere, queste dovrebbero essere scritte tramite l’alfabeto braille. Riuscire ad esaurire la propria vista (come pure a diseducare l’udito abituato a suoni impropriamente significanti) consiste nel rinunciare a guardare accecando lo sguardo. Non mi capitava da tempo di stupirmi davanti a un film, non mi capitava da tempo di sentire i brividi scorrere lungo la schiena; questa è la capacità catalitica di Sorrentino: essere riuscito a trascinarci, volenti o nolenti, nel suo opinabile ma intenso e illuminante punto di vista e questo attraversando sempre e comunque il cinema. Non si esce mai dal film per entrare in una verosimiglianza accattivante ma pericolosa, costruita nel tempo attraverso una miriade di informazioni parcellizzate e “controllate” dai vari agenti del potere (politica, media, chiesa, magistratura, mafie), perché altrimenti questo Divo sarebbe stato uno dei tanti film sulla strategia della tensione, magari bello, capace di far riflettere, ma inequivocabilmente ordinario. Il Divo di Sorrentino è piuttosto escursione nell’immagine dell’ “invisto”, ricerca di una “aprospettiva” che riesca ad aprire il punto cieco della vista. In altri termini si tratta di rivestire di tenebra l’immagine per mostrare l’incapacità di una visione onnisciente e prospettica che rinvierebbe inevitabilmente a una scelta di campo, a una costruzione convenzionale del volto e dei luoghi mostrati. In questo senso il Divo potrebbe essere un fallimento (se percepito come un biopic qualsiasi), in quanto non viene concepito come catalizzatore centripeto dello sguardo, ma come constatazione dell’accecamento che esercita il tratto di un disegno non ancora concluso. Per Derrida “[…] il disegno non è mimetico e tra la cosa disegnata e il tratto che la mette in immagine resta una eterogeneità abissale. La mano che traccia è improntata o da una prospettiva anticipatrice o da una retrospettiva anamnesica, sempre oltre ogni mimetismo. Memoria immemoriale della mano in vista dell’ invisto […] Insomma, chi traccia il segno resta cieco al proprio tracciare”(2). Quando Andreotti strappa la pagina del “giallo” che sta leggendo, per non scoprire il nome dell’assassino, non fa altro che affermare l’impossibilità di una Verità svelata, che, in quanto svelata, oltre a perdere il mistero (e con esso la continua infinita ricerca di conoscenza tipica dell’arte) sarebbe uno “spiegamento” (nel senso di apertura, rottura dei sigilli) comunque parziale o almeno idoneo agli interessi di un punto di vista univoco e pertanto non significativo. Per avere un campione pertinente, idoneo, funzionale alla ricerca della conoscenza, la Verità deve essere “strappata” via dal proprio “letto” nel senso che deve essere tolta dalle pagine che sono lette o si stanno per leggere. Come fa Derrida con le sue immagini (3) il Divo di Sorrentino non svela ma tenta di velare le immagini, rivestendole di tenebra (4). Ho provato questa sensazione di mise en abyme durante la sequenza della “passeggiata casalinga” quando Andreotti scompare alla vista, ma non all’udito, nell’oscurità del corridoio. La mente comprende la presenza solo attraverso altri sensi ma lo sguardo s’inceppa, incapace di osservare i corpi, e tenta una sua particolare soluzione (assenza di luce), mentre il tratto (oggetti, contorni, disegno del corridoio) mostra la sua assenza di identità, rinviando sempre a qualcos’altro (5). Gli altri sensi invece (soprattutto udito e tatto) conservano la loro forza, obbligando lo spettatore cieco a vedere il mondo come fosse una “cosa” nuova (6), come fosse la prima volta. Infatti lo stupore nasce in me quando vedo per la prima volta o assaporo o registro la fragranza di un alito, di un profumo. Tutte le mie opinioni politiche e le mie aspettative diegetiche su Andreotti sono svanite in quel corridoio. Insomma impossibilità di definire univocamente un segno o un’opera, per via di una sfiducia nella “certezza” dello sguardo ingannato da un concetto di verità diegetizzato storicamente e/o sociologicamente. Andreotti è un’assenza del significato, una mancanza che non riempie il vuoto anzi lo amplifica proprio quando pretende di giustificare e specificare il senso di tutto ciò relegandolo nella madre di tutte le giustificazioni (e spiegazioni): la volontà di Dio. Percorrendo questo cammino (Ferrari lo definisce “inoltrarsi nelle topiche dell’invisto”) Derrida afferma:

Nel caso del cieco, ricordiamolo, l’udito va più lontano della mano che va più lontano dell’occhio. La mano si protende per prevenire la caduta, ossia il casus, l’accidente e commemora in tal modo la possibilità, conserva nella memoria l’accidente. Una mano è la memoria stessa dell’accidente(7).

Il Divo in altri termini riesce a trasportarci attraverso le pieghe dell’invisto mettendoci, noi spettatori accecati dallo sguardo, in condizione di confrontarci con la nostra stessa memoria visiva (ricordi di quegli anni o di scene viste in tv o immagini sui giornali, o ricostruzioni mentali degli eventi) per soccorrere lo sguardo accecato. Un film dove le immagini non sono un punto di arrivo (l’opera d’arte in senso romantico come prodotto dell’artista-piccolo dio) ma una proposta di future costruzioni, o meglio, un progetto, una proiezione in fieri verso futuri, nuovi, incommensurabili assemblaggi: le immagini sono una profezia (8). La peculiarità del film sta proprio in questa “differenza di potenziale”, ossia nella sua capacità di mostrare l’invisibile, di addentrarsi nei meandri reconditi e misteriosi dell’avvenire, nella forza di anticipare e di realizzarsi nel futuro. Privo di questa potenzialità in fieri (come capita a molti buoni film) Il Divo (immagine/scrittura) sarebbe solo un’immagine irreale (una parodia?), una rappresentazione congelata nel presente, un “feticcio storiografico”(9). Differenza di potenziale come tratto peculiare del Divo, un film appunto che riesce a dare la scossa, trasformando la poltroncina della sala in una sorta di sedia elettrica sospesa nel tempo, condanna e condono estetico, energia necessaria per scalare le infinite possibilità del testo, per incominciare a decostruire lo sguardo all’esterno del tempo.

(1) cfr. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario.

(2) Federico Ferrari, L’eredità dell’avvenire. Riflessi di un’estetica spettrale, p. 166, in Jacques Derrida, Memorie di un cieco, Abscondita, Milano, 2003.

(3) Jacques Derrida, Memorie di un cieco, Abscondita, Milano, 2003

(4) Federico Ferrari, op. cit, p. 167.

(5) cit, p. 166.

(6) cfr. Diderot, Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono.

(7) Jacques Derrida, cit, p. 29.

(8) cfr. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

(9) Federico Ferrari, cit., p. 171.