27 ottobre 2008

Mamma mia! (Phyllida Lloyd, 2008)

Una settimana è trascorsa prima di scrivere qualcosa su Mamma Mia. Quando un film non mi piace per niente non riesco a stilare un elenco di difetti, né riesco a stroncarlo. In questo anno avrei potuto pubblicare molti altri post (tanti quanti sono i film che ho visto e non sono riuscito ad apprezzare). A volte mi è sufficiente una sequenza, altre un’unica scena per farmi decidere a “trovare” qualcosa di positivo da esprimere. Così è capitato per Mamma Mia. La sala era gremita da un pubblico composto da adulti e ragazzi. E tutti quanti erano letteralmente trascinati dal rock disimpegnato e kitsch degli Abba (370 milioni di dischi venduti negli anni 70), una musica coinvolgente con tutte le migliori canzoni dei dodici anni di vita della band. Alcune ragazze commentavano ad alta voce gli episodi del film, cantando all’unisono con i personaggi, anche se non ero infastidito perché il volume era talmente alto da riecheggiare con forza nella sala. Non vedevo da anni una simile partecipazione; le persone si lasciavano andare al ritmo incalzante, a quella magia mista di musica e “storia” (in fondo una “commedia brillante”) a cui era impossibile sottrarsi. Ma non per tutti. A me il film infastidiva, nonostante gli ammiccamenti continui della Streep, nonostante la bellezza da vicina di casa di Amanda Seyfried. Gli ingredienti c’erano tutti, ma io avevo già deciso di mettere Mamma mia nella soffitta dei miei ricordi sbiaditi o rimossi. Non ne avrei “parlato” con nessuno. Ma col passare dei giorni mi sono in parte ricreduto anche se i difetti (evidenti e allo stesso tempo talmente banali da infastidire) non sono pochi: fotografia da cartolina, coreografie semplici e confusionarie, personaggi poco approfonditi, movimenti di macchina troppo “teatrali”, le “misere” case che sanno di falso, ecc.ecc. Però il musical è un genere che presuppone una perfetta sinergia delle sue componenti. Poiché Mamma Mia non presenta e non sviluppa situazioni “atipiche” (tipo i “recuperi” di tragedie “alla” Romeo e Giulietta come capita in West Side Story, o la prorompente carica “eversiva” dello splendido e per me insuperabile musical-happening The Rocky Horror Picture Show) ritengo sia da considerare un film paragonabile ai cari vecchi musical hollywoodiani anteriori agli anni cinquanta (ossia prima che West Side Story, film del 1961, riformasse il genere). Ma paragonato a questi film Mamma Mia denota palesemente i suoi limiti, tenendo conto che ormai il musical classico (quello che si produce anche in teatro) presuppone capacità poliedriche degli interpreti che devono essere allo stesso tempo attori, ballerini, atleti, acrobati. Nonostante la bravura degli interpreti non è possibile affermare (a parte la superna recitazione della Streep) che i grandi e pur bravissimi attori di Mamma mia possiedano queste peculiari capacità. A parte questo, se si guarda Mamma mia con gli occhi clementi di chi cerca un happening (e non è poco perché in fondo il futuro del cinema dovrebbe risiedere nel tentativo di trascinare il pubblico dentro lo schermo), il film non è un “oggetto” da accantonare. Se questo “oggetto” imperversa da nove anni sulle scene di tutto il mondo (purtroppo non ho visto la versione teatrale), se le musiche degli Abba coinvolgono oggi come trenta anni fa, qualcosa nel musical funziona. I difetti del film sono evidenti, ma non ne compromettono la freschezza e vengono presto dimenticati a tutto vantaggio dell’azione e del coinvolgimento. Mamma mia va visto pensando di essere sul molo di Kalokairi intenti a ballare accanto a Maryl Streep e agli altri simpatici interpreti. D’altronde le melodie sono orecchiabili, l’happy ending viene rispettato, la poetica è senz’altro d’evasione, e un certo tipo di atmosfera magica è riscontrabile in ogni sequenza (la magia dei tre padri come tre re magi che portano il dono al nuovo che sta per nascere; la fonte di Afrodite; una certa “aria” e un certo “profumo” emanato dagli oggetti che fa ad esempio somigliare la falsa soffitta di Villa Donna alla magica abitazione di Cenerentola). Se dovessi paragonare “tecnicamente” il film a Sette spose per sette fratelli (ballerini acrobati, danza, coordinamento, ecc.) decreterei la mesta inferiorità di Mamma mia, ma, tenendo conto che il film non vuole essere un oggetto perfetto, non vuole aspirare a funzionare come un orologio svizzero, ma soltanto organizzare un mondo immaginifico e “orientato” per un pubblico che “vuole” danzare in sala, posso senz’altro considerare questo musical una buona performance visiva, grazie anche alle conosciute musiche degli Abba i cui testi sono stati utilizzati per “costruire” la storia a lieto fine di questo gradevole film.

17 ottobre 2008

Un invito a casa Alexander

La quinta sequenza è una delle più complesse, più elaborate, più contraddittorie e contravvenienti sequenze della storia del cinema: una sequenza in altre parole disturbante perché trascina la gioia nell’incubo, la “polarizzazione” dell’evento nella contraddizione di inquadrature apparentemente confusionarie e antitetiche. L’effetto teatrale tipico delle sequenze precedenti si alterna all’effetto reportage, il grandangolare che deforma lo spazio (in questo caso le stanze e l’ingresso di casa Alexander) si avvicina ai due protagonisti trasformando il volto di Alexander in una maschera tragica e il naso posticcio di Alex in uno strumento fallico che preannuncia l’epilogo. L’apparente calma della casa è mostrata nella tranquillità di una posa teatrale con due quinte: un muro con porta alla sinistra di chi osserva e una libreria posta dietro il Sig. Alexander colto nell’atto di scrivere seduto a un tavolo (ma questa prospettiva sarà smentita da una seguente inquadratura che riallinea, restringendolo, lo spazio). Questa staticità viene accentuata da una carrellata laterale (con abbrivo dopo il suono di un campanello simile all’incipit della quinta sinfonia di Beethoven) che scorre a mostrare il fuori campo, inquadrando il soggiorno in cui vediamo una donna intenta a leggere seduta in una poltrona-astronave. La donna si alza e si allontana uscendo dalla porta posta sul fondale. L’inquadratura seguente (un corridoio con specchi), pur assimilando e riprendendo la staticità della scena precedente, preannuncia già un cambiamento, in quanto lo spazio viene amplificato (effetto Droste) a causa degli specchi posti ai lati delle pareti, illudendoci (il pavimento-scacchiera e la donna in rosso si moltiplicano all’infinito) di percorrere il labirinto degli specchi dei Luna Park. Il gioco inizia e con esso la separazione semantica dell’ultraviolenza nelle sue componenti manichee e drammaticamente inconciliabili. I Drughi, che imperversano tra gli specchi moltiplicandosi in un esercito bianco e gioioso, si proiettano “liberi” verso il loro abisso morale ove alternanza di inquadrature “statiche” (nel senso di inquadrature più teatrali con camera ferma o carrellate laterali) si alternano ad inquadrature “dinamiche” (che trascinano nel centro dell’azione con camera a mano). Superlativa la nona inquadratura con il primo piano di Dim che rotea il corpo della donna tenuta sulle spalle in senso orario, movimento accentuato dalla camera a mano (magistralmente impugnata da Kubrick stesso) che rotea in senso antiorario intorno ai due personaggi, poi interrotto dal primo piano del volto del sig. Alexander tenuto forzatamente a terra da un drugo. Quando giunge il fischio-ciak di Alex per riposizionare i personaggi, seguono le inquadrature più sconvolgenti e “belle” (sì, oso dirlo) della storia del cinema: campo totale di Alex che accenna un passo di danza canticchiando Singin’ in the Rain. La canzone diventa così “musica” diegetica che accompagna la violenza subita dai due malcapitati, mentre nel campo totale il ritmo dei calci e degli schiaffi, che Alex propina all’uomo ancora per terra e alla donna che si trova sempre sulla spalla di Dim, diventa accompagnamento sinfonico della voce. La gioia dei calci dati al marciapiede inzuppato dalla pioggia, che Gene Kelly distribuisce saltellando sulle pozzanghere, si trasferisce in un ritmo infernale nella gioia dei Drughi, nel gusto irrinunciabile alla violenza. Ma l’angoscia di questo apparente caos, questo rimescolamento di metodi diversi nel muovere la macchina da presa, questi contrasti tra riprese teatrali (campi medi e totali) e reportage (primi piani e rotazione della macchina a mano) creano simmetrie ed asimmetrie che oserei definire interne/esterne allo spazio scenico. In fondo davanti a noi quello che tecnicamente sembra lo sguardo in macchina di Alex e che diegeticamente è l’incontro deformato dei due Alex(ander) (il drugo e lo scrittore), nell’immagine in sé, avulsa da ogni raccordo sintagmatico, diventa una penetrazione mediatica. Nell’asimmetria e nella convulsione delle inquadrature (solo apparentemente casuali ma in realtà giustapposte senza lasciar spazio a dubbi e incertezze), dove dominano ritmo delle immagini, equilibrio della prospettiva spaziale e della sua deformazione, si amalgamano due punti di vista allo stesso tempo distanti e (con)fusi: la gioia espressa da una canzone-simbolo del cinema classico, oltraggiata da un uso “moderno”, si spegne nello sguardo del “fratellino” che ricorderà la lacerazione di quella musica. L’immedesimazione che si realizza in un’incontro di sguardi e in una richiesta (“Guarda bene, fratellino, guarda bene!”) e che non persiste (a causa di continue fughe dai personaggi e “uscite” dal pathos della narrazione), tornerà a galla in un’altra sequenza a causa di una canzone che, mentre per Alex il drugo è la gioia incontenibile di Gene Kelly, per Alex(ander) lo scrittore è l’orrore di un momento. Una simmetria che si stabilisce tra sequenze (la stessa canzone) ma anche una asimmetria (il ricordo di quella canzone) che stabilisce un punto di vista. Questo scambio in effetti procura un dolore fastidioso, trascina dentro e fuori la gioia di Alex, fuori e dentro la sofferenza di Alex(ander). Immedesimazione e distanza, coinvolgimento e sguardo asettico, teatro e pubblico separati da un diaframma ma anche coinvolgimento “violento” del reportage che trascina dentro l’azione, dentro e fuori allo stesso tempo, gioia e dolore (vite e morte) temi domina(n)ti dall’ultraviolenza, fusi e confusi nell’estremo suono (gioia-dolore di Alex) dell’Inno alla gioia.




 

10 ottobre 2008

Pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008)

Pranzo di ferragosto è un viaggio nelle pieghe di un mondo troppo spesso evitato, abbandonato ai margini di una bellezza standardizzata e allineata ai canoni medi decretati da una sub-cultura che sta sempre più abbassando il livello del gusto. La vecchiaia è vista come una nuova bellezza, non tanto come un’affermazione del Brutto in quanto antitesi del Bello, ma come un voler conoscere e analizzare un’altra forma del Bello. In tal modo la macchina da presa di Gianni Di Gregorio fluttua davanti ai volti di quattro signore che per motivi “casuali” si ritrovano a trascorre insieme il giorno di ferragosto e che insegnano a vedere oltre le apparenze del “bello” inteso come armonia e simmetria prospettica. In particolare la macchina da pressa si avvicina alla madre di Giovanni (interpretato da Di Gregorio stesso) evidenziando in un primissimo piano la pelle del suo volto ormai annientato dalle macchie e dalle rughe profonde che il tempo ha impietosamente disegnato. Ma in questo volto devastato, su questa pelle da tartaruga, splendono due magnifici occhi che ci sorridono gridando l’amore per una vita non certo eccelsa. Questa donna che conduce una grama esistenza in una Roma finalmente viva, (una Roma che noi tutti vediamo e conosciamo e che non troviamo mai in molti film e in tanta pessima tv) ci prende per mano conducendoci lungo una strada difficile ma necessaria: una ricerca costante e interminabile di conoscenza. Impariamo a conoscere il mondo di questa donna, la sua miseria, e la necessità di ospitare per danaro altre anziane signore, il rapporto anche conflittuale (guarda caso per un vecchio televisore), ma soprattutto un rapporto che presuppone un confronto costante. La macchina da presa si muove nell’appartamento come uno sguardo indiscreto, ma ravvicinato, perché qui dobbiamo avvicinarci per respirare sulla pelle della vecchiaia non essendo più abituati a guardare in faccia la senescenza del corpo. Costretti a subire un’immagine imposta come rappresentazione di vitalità (bellezza = gioventù = erotismo = corpo immortale che non invecchia) abbiamo perso il contatto con il nostro futuro dimenticando una metamorfosi in atto: saremo tutti tartarughe. Questa realtà, che è anche una speranza, viene spesso negata, relegata, ridotta a canone da archiviare. Quando un volto vecchio appare in un’immagine è spesso il volto di un altro ossia di un personaggio minore (padre, nonno, amico) costruito spesso per definire e integrare la psicologia di un giovane e bel personaggio principale. Ma qui il primo piano è anche l’avvento di un nuovo modo di guardare. Queste simpatiche vecchiette, che imparano a conoscersi e (nonostante tutto) a divertirsi a modo loro, sono una speranza per il cinema nostrano (ma questa speranza sarà coltivata?) ma anche un invito a riflettere sull’importanza di imparare a guardare meglio (anche dentro le pieghe profonde della pelle) per scoprire che il cinema nasconde molte altre cose spesso occultate allo sguardo.

4 ottobre 2008

Machan (Uberto Pasolini, 2008)

Machan viene presentato come la storia vera di una falsa squadra di pallamano ma potrebbe essere una storia falsa di una vera squadra di pallamano. In effetti quando a Manoj e Stanley viene in mente, leggendo un depliant su cui è pubblicizzato un torneo che sarà disputato in Germania, di costituire una squadra singalese di pallamano allo scopo di poter eludere i controlli del governo per raggiungere l’agognata Europa, dove “tutte le cose sono più belle” (1), non fanno altro che incidere sullo stato “abituale” del loro mondo mettendo in discussione una norma. Per una serie di circostanze “casuali” (nel rispetto dei meccanismi che regolano il comico) il numero dei candidati-giocatori (e pertanto dei futuri clandestini) aumenta di sequenza in sequenza. In questa prima parte del film la mdp mostra gli slum di Colombo e la grama vita che vi si conduce, ma mostra anche un albergo di lusso frequentato da turisti tedeschi e per contrasto mostra la dignità dei poveri abitanti che non rinunciano alla loro umanità affrontando a testa alta le avversità quotidiane. Non è semplice ambientare una commedia in un contesto di miseria forse più adatto a una trasposizione melodrammatica, perché “ridere” sulla disperazione presuppone allineare l’empatia dello spettatore alle condizioni sociali e psichiche dei personaggi. Intendo affermare che per ottenere un risultato che non trascini il plot narrativo nel grottesco Pasolini ha creato un equilibrio tra i caratteri di questi personaggi (sempre simpatici e divertenti tanto quanto li vorrebbe ad esempio un turista) e i loro tentativi “illegali” per ottenere l’oggetto del desiderio (l’espatrio nella ricca e bella Europa). Non deve essere stato semplice anche se il risultato a volte potrebbe ricordare gli slogan di una qualsiasi agenzia di viaggio. Anche se condizionati dalle esigenze del découpage gli “allegri” abitanti degli slum rischiano di somigliare troppo ai desiderata di qualsiasi occidentale in procinto di partire per Ceylon, ma il limite della commedia coordina un’incognita che dovrebbe rappresentare il risultato matematico del genere comico. Eppure nonostante alcuni difetti intrinseci al genere (e questi tipi di film non aiutano certo a far decollare il comico senza cadere nel grottesco o nel patetico) Machan presenta alcuni aspetti interessati legati soprattutto al senso in più (2) che riesce a trasmettere. Innanzitutto la Bugia che qui non è coerente e congruente come nella commedia degli equivoci, ma mostra comunque la sua importanza in un contesto in cui ogni mezzo è lecito per aggirare le “assurde” regole della significanza burocratica. Per burocrazia intendo una chiusura a tutto ciò che non rientra nei canoni classici della sicurezza, una chiusura alla trasgressione, alla prova stessa, che porta al peccato incurabile, alla perdita del connotato di “indigeno attendibile”. Altro aspetto è la stessa Trasgressione, il voler aggirare le regole senza peraltro trasgredirle veramente, trasgressione inattendibile proprio perché costretta nelle forme canoniche di una comicità a tratti troppo leggera: Manoj, Stanley e i loro amici giocano soltanto ma in fondo accettano il substrato profondo di quelle stesse regole mostrando così di omologare con il loro assenso la forma più retriva del potere: la burocrazia.
Trovo molto più interessante la progressione costante del Falso che non trascina nel gorgo della punizione prima e della redenzione poi, ma conduce all’acquisizione di una libertà (terzo aspetto) che è sempre stata nella mente dei singalesi (e nostra). La libertà non è il fine, il punto di arrivo (Europa), anzi il film si conclude proprio ai margini del vero dramma (e non poteva essere altrimenti per una commedia) innestandosi in aspettative melodrammatiche dovute allo status di clandestini. L’impossibilità (o le difficoltà) di rendere l’aspetto comico (e solamente quello) della disperazione obbliga Pasolini a fermarsi prima del confine. Questo perché la storia è solo una premessa, rappresenta l’antecedente dell’arrivo, e in questa storia la comicità è possibile (ma come abbiamo visto entro certi limiti molto rigidi) soltanto al di qua della raya; mentre il dopo, l’al di là, rientra nella nostra convinzione (una sorta di sostanza magmatica che può e deve essere accesa). Pertanto il Falso come anelito di libertà (almeno quella mentale dei protagonisti), gli oggetti come forme del falso (timbri contraffatti, carta intestata ricostruita al computer, ecc.) oppure come cause efficienti del bene e del male (il tetto di lamiera che viene venduto e l’asciugamani automatico che causa il licenziamento di un inserviente dell’Hotel), ma soprattutto il Vero come ombra costante di una promessa/premessa (la squadra falsa ma in fondo vera). La vera storia di una falsa squadra.
(1) Questa frase viene spesso citata nel film. Cito a memoria perché, avendolo visto una sola volta al cinema, non ricordo i termini precisi.
(2) Edoardo Bruno, Il senso in più, Bulzoni