27 settembre 2008

L'isola (Kim Ki-duk, 2000)

Vedendo questo film ho provato un dolore intenso. Ma la causa non è da imputare alla macelleria dei corpi, alle torture inflitte ai pesci o agli ami ingoiati, ai morti inabissati nel lago. La causa risiede nell’impossibilità di allineare la ricerca di un sostanziale consenso (di pubblico) con la necessità di consumare quel consenso attraverso la “fuga” da uno spazio geometrico e da un tempo scientifico (le coordinate della prospettiva). Intendo dire che il dolore è stato procurato dalla costruzione di uno spazio pittorico in cui lo sguardo si muove con difficoltà, obbligato a sopportare lacerazioni e ferite profonde. Per disconnettere il senso dal legame con una prosa ormai consumata (il racconto sempre identico a se stesso), Kim Ki-duk ha scelto di raccontare uno spazio astratto ossia svincolato dal banale obbligo di definire una lista di situazioni, ma comunque legato ai prodromi profondi di ogni storia: l’amore e la morte. Lo sviluppo narrativo (per altro molto labile) che mostra il rapporto tra Hee-jin e Hyun-Shik, non è una storia di amanti disperati, almeno non solo, ma è soprattutto un procedimento di formazione, un’esperienza mentale. Intendo affermare che le lacerazioni della carne (gli ami ingoiati), il sesso violento (il morso di Heen-jin sul labbro di Hyun-Shik e come corrispettivo i calci di Hyun-Shik sulla vagina di Heen Jin), le torture (il pesce mutilato, la gabbia nell’acqua, gli ami in gola e nella vagina), sono crudi colori presi da una tavolozza non ancora amalgamati e distesi sulla tela. Prima di scardinare le illusioni di un’immagine ingannevole (in quanto scelta arbitraria di chi la propone) bisogna mostrare i pezzi dolorosi di questa immagine, mostrare come questa immagine viene costruita. Dietro una storia romantica c’è sempre una materia (un corpo) che prova dolore. Pertanto il risultato (il film) è la somma di tanti corpi straziati, la giustapposizione di tanti pezzi sanguinanti. Poi, se vedremo anche la superficie confortante, riprodotta contro gli interessi di un rapporto reciproco (spettatore-regista), se la significanza risulterà o meno un rapporto duro, inevitabile, un incontro-scontro tra due anime dannate, questi effetti non rientrano (per mancanza di spazio) nel punto di vista assunto. In particolare ciò che mi interessa sono due aspetti del film: la pittura come sostanza, materia, costruzione delle linee semantiche del plot, la durezza come icona imprescindibile della durata. L’isola è un quadro. La vista d’insieme in campo lungo delle casette galleggianti, “sfumate” dalla bruma che esala dalle acque mattutine, potrebbe essere la sosta, la penetrazione dello sguardo in un dipinto appeso alla parete. Queste pennellate kimmiane iniziano con i colori nitidi, definiti, iniziano con immagini che a guardare bene non sono, nonostante il bellissimo paesaggio equoreo, naturalistiche. L’impatto duro col mondo si trascina attraverso la costruzione delle azioni, dei movimenti, degli eventi visti sempre attraverso una deformazione: campi lunghi o riprese effettuate “dall’acqua”, punti di vista di un altrove situato al di là della lente (vetro, acqua). C’è insomma nel film una sorta di magia oscura, inquietante, che va al di là del perturbante freudiano (1). L’Unheimlich (il Perturbante), per Freud è ciò che porta angoscia, una cosa che si avvicina al nostro ambiente quotidiano (quindi confortante) ma che in realtà nasconde in sé il mistero, l’enigma, la paura dello straniero. L’arte possiede la capacità di rompere l’illusione di una realtà manipolata (dal potere, dalla paura, dal bisogno di non sentirsi soli), di infrangere l’illusione del familiare, al fine di mostrarci almeno la deformazione impalpabile e crudele del reale. L’arte, attraverso l’Unheimlich mette in scena i mostri dell’oggi. Ma nell’Isola il familiare è spezzato sin dall’incipit. Non si tratta più di rompere le catene di un’apparente familiarità delle cose, perché la macchina da presa non mostra il mondo, bensì la pittura. Siamo in una fase ulteriore in cui dobbiamo fare i conti con l’incubo stesso; non l’incubo del mostro materializzatosi davanti ai nostri occhi, ma l’incubo del procedimento che mostra il lato astratto delle cose. L’incubo mostra ad esempio l’invasione della “strega del lago” (2), la “guardiana” delle casette galleggianti e allo stesso tempo la barista che porta caffè e tè ai pescatori; mostra la prostituta che dona il corpo a pagamento, la “sirena” che nuota sottacqua per colpire chi l’ha umiliata e per guardare, sbirciando da sotto la botola dei bisogni corporei, Hyun-Shik intento a fare l’amore con una ragazza. L’incubo mostra la silente Heen Jin che estrae gli ami conficcati nella gola di Hyun-Shik , salvandolo; infine mostra sempre Hyn-Shik mentre s’infila gli ami nella vagina e tira la lenza strappandosi le carni, mostra la “strega” salvata da Hyun-Shik ritornato nella “loro” casetta per togliere gli ami dalla sua vagina. La sofferenza dei corpi non è più la lesione narrativa della carne (causa effetto) anch’essa, nonostante l’orrore, riconducibile al familiare, ma è la durata stessa che s’incarna nella durezza “consustanziale” del mondo. In altri termini il tempo è un prodotto illusorio della speranza, un rimandare la disperazione a una futura consolatoria riparazione. Nell’Isola il tempo ha lacerato le carni, fossilizzandosi nella morte dello sguardo. È come una pennellata più grassa che definisce l’impossibilità di un ritorno. Hyun-Shik rimarrà nel quadro, camminando nella palude, addentrandosi in un canneto, che poi risulterà essere, dopo un reverse-zoom, il pube del corpo nudo di Hee-jin , distesa sotto una coltre d’acqua che ha allagato la sua barca semiaffondata. La donna adesso riposa supina nel suo sarcofago (barca) allo stesso modo dell’Ofelia di Millais distesa dal pittore preraffaellita in una coltre avvolgente di piante acquatiche (3).

(1) Cfr. Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino, 1980.
(2) La definizione “strega del lago”, riferita a Heen Jin, è ripresa da: Andra Bellavista, Kim Ki-duk, Il Castoro, Milano, 2006, p.72.
(3) John Everett Millais nel suo dipinto (Ofelia, 1852) [fig. in basso a destra] riprende dall’Amleto di Shakespeare la tragedia di Ofelia annegata nel fiume. Ma è attraverso le parole della Regina Gertrude che veniamo a sapere dell’annegamento, pertanto la tragedia si consuma come assenza:
Amleto (IV,7)
LA REGINA GERTRUDE
… Le vesti
le si gonfiarono intorno, e come una sirena
la sorressero un poco, che cantava
brani di laudi antiche, come una che non sa
quale rischio la tenga, o come una creatura
nata e formata per quell'elemento.
Ma non poté durare molto: le vesti
pesanti ora dal bere
trassero l'infelice dalle sue melodie
a una morte fangosa.

21 settembre 2008

Soffio (Kim Ki-duk, 2007)

Soffio è la dimostrazione che il cinema di Kim Ki-duk si dipana lungo un percorso di conoscenza essenziale. Ma ciò che conta non è la ricerca di un traguardo (ma esiste nel “mondo” un traguardo?) bensì lo sviluppo stesso del percorso (la mappa), la sua consistenza e materia (di cosa è fatto, è una strada di molliche? è un lungo interminabile cantiere che non rispetterà mai i termini del capitolato?) e soprattutto chi lo percorre (pregiudizi? scansioni di altre storie da cercare proprio qui, in questo cantiere? affabulazioni evanescenti?). Guardando i suoi film è possibile temere una certa “maniera” (1) che affiora sulle ultime pellicole kimmiane. Ma la maniera, intesa come ripetizione di un discorso già affrontato, di un certo standard dell’iconico già assimilato e già registrato, non ha senso lungo un percorso che si deforma passo dopo passo. Caso mai la maniera si attesta in altri fortilizi, in altre strutture, in luoghi dove non conta la conoscenza, ma la media statistica del consenso. Secondo me, cercando di abitare dentro i film kimmiani, si percepisce che per un grande autore, un artista, non si tratta di maniera o cliché ma di idioletto(2). Per Eco l’idioletto è un “sistema di relazioni omologo”(3).

“Cosa significa l’affermazione estetica dell’unità di contenuto e forma in un’opera riuscita, se non che lo stesso diagramma strutturale presiede ai vari livelli di organizzazione? Si stabilisce come un rete di forme omologhe che costituisce come il codice particolare di quell’opera, e che ci appare come misura calibratissima delle operazioni che procedono a distruggere il codice preesistente per rendere ambigui i livelli di messaggio”(4).

Caso mai è l’idioletto (regola e codice dell’opera) che potrebbe generare “imitazione, maniera, consuetudine stilistica”. L’idioletto è la legge che governa l’opera, “[…] il diagramma strutturale che presiede a tutte le sue parti” (5). Soffio definisce un punto importante del diagramma. L’idioletto di Kim ki-duk, attraverso le sue opere, attinge forme diverse da identici enunciati. In altre parole l’icona scivola via leggera, si incolla alle pareti trasportando ogni volta le stesse stagioni, l’icona viene strappata e mangiata o trasferita dalla foto al muro della cella, ma non può essere contenuta in una forma perché differisce, ossia rimanda sempre ad altre forme, rinvia la sua entità (6). Questo film è costellato di situazioni limite e contiene innumerevoli riferimenti ai film precedenti. È l’affermazione dell’enunciato, la presentazione ufficiale dell’idioletto, questo diagramma strutturale che per Eco fa sì che un’opera, anche mancante di molti suoi pezzi perduti (esempio un affresco), possa essere assemblata poiché si tratta di “[…] dedurre, dalle parti di messaggio esistenti, quelle che vanno ricostituite” (7). In effetti Soffio contiene citazioni di precedenti film di Kim Ki-duk, ma contiene anche la possibilità per lo spettatore di ricomporre i pezzi mancanti attraverso il riconoscimento di uno stile emergente. Ad esempio in Soffio le stagioni ritornano sotto forma di parodia degenerata. I manifesti incollati al muro da Yeon con tanta precisione danno vita, in quanto scenografie che mostrano la natura, alla rappresentazione teatrale che si enuclea soprattutto attraverso le canzoni da lei interpretate; e mentre gli spettatori “interni” (la guardia e il prigioniero Jang Ji) interagiscono come in un happening, la regia muove le sue macchine da presa (le telecamere di sorveglianza) lasciando scorrere la rappresentazione fino al momento desiderato. Il regista-sorvegliante (lo stesso Kim Ki-duk visibile solo attraverso il riflesso del monitor) monta le sue sequenze interrompendole nel momento più alto dello Spannung proprio come nei serial tv. Queste stagioni di un musical a puntate, attaccate ai muri di un parlatorio (sotto forma di manifesti che mostrano paesaggi bucolici e silvani) sono posticce e false ma non meno di quelle diegetiche “attaccate” sulla celluloide. In altri termini la palese falsificazione del tempo ridotto a rappresentazione teatrale è solo una convenzione valida quanto e forse più delle convenzioni che accettiamo nel momento in cui ci adagiamo su una poltroncina della sesta, settima fila, preferibilmente centrale. Pertanto i brevi musical di Yeon sono sintesi e analisi di un vissuto (ad esempio lo psicodramma di Yeon che rivive il momento in cui da bimba stava per annegare), ma anche “canzoni” composte da stanze(8) sempre uguali e sempre diverse (la struttura della stanza con le sue regole identiche come ritorno di settenari ed endecasillabi e alternanza di rime, ma anche la differenza, nell’ambito dello stesso componimento, con cui ogni volta queste stesse stanze vengono “addobbate”). Il silenzio è un altro stilema tipico di questo cinema, ma stavolta è un silenzio indeducibile, irrinunciabile, che non si interseca e non si esprime attraverso un contatto oserei dire telepatico fra personaggi (Ferro3) ma è un silenzio che diventa cifra stilistica di un linguaggio, in altri termini è un silenzio “rumoroso”, e in parte gestuale (solo Jang Ji e il suo compagno di cella non parlano, mentre Yeon si esprime sia attraverso il silenzio, sia con la parola e il canto). Il silenzio comincia, lungo il suo percorso, a trovare degli ostacoli, a inciampare negli oggetti (il compagno di Jang Ji urla terrorizzato alla vista del sangue che esce dalla gola di Jang Ji). Questi ostacoli rappresentano una delle numerose variazioni nel linguaggio kimmiano. Il suo idioletto, il suo linguaggio personale e singolare, si deforma per adattarsi alla conformità geologica dello spazio e all’entropia temporale. Tutto fluisce. Ad esempio (e sarebbe interessante analizzare il film o la filmografia di Kim Ki-duk da un punto di vista tematico) anche il concetto kimmiano di acqua (9) subisce una deformazione. Nei suoi film (e soprattutto in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera) l’acqua ricopre un ruolo importante, fonte di vita spirituale e passione (Primavera estate...), “bara di freschezza” in cui si immerge il già accaduto (Bad Guy), qui è come un gelido cristallo, un’acqua invernale (il ghiaccio e la neve) che definisce e blocca nel mondo ogni possibilità di riforma (ricomporre un matrimonio, alleviare gli ultimi giorni di vita di un condannato a morte), ma che nel soffio caldo di un fiato che si condensa sul vetro divisorio di un parlatorio diventa un supporto sul quale sigillare una speranza.

(1) Riprendo da De Mauro il senso che intendo per maniera: “Arte, pratica artistica che si fonda sull’imitazione cristallizzata e sulla ripetizione di formule e modi ormai scontati denunciando carenza di ispirazione, di naturalezza, di invenzione”.
(2) Dal Glossario di retorica, metrica e narratologia di Claudia Bussolino (Alpha Test 2006): “È lo stile individuale che caratterizza la scrittura di un autore come voce singolare e personale, l’insieme dei mezzi linguistici di un particolare parlante. È un repertorio linguistico considerato individualmente e non collettivamente”.
(3) Umberto Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 2002, p. 67
(4) Ivi, p.67.
(5) p.68.
(6) Intesa nel senso di insieme delle qualità costitutive dell’ente (cfr. Scolastica)
(7) La struttura assente, p.68.
(7) Mi riferisco in particolare alla stanza come gruppo di strofe e parte fondamentale di un canzone. In questo senso mi riferisco soprattutto alla canzone petrarchesca. Ma mi riferisco anche alla “stanza vuota” ogni volta addobbata in modo diverso.
(9) L’acqua per un ricercatore è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno e questa è la sua realtà, la sua obiettività che però lo sguardo non percepisce notando solo la sua manifestazione sensibile. A sua volta la mente assimila questa esperienza visiva (ma non solo) in base alla proprie esperienza e/o aspettative. L’acqua assume la sua valenza solo attraverso una mediazione mentale, una ricostruzione. In poesia l’acqua è invece non solo il significante di un liquido ma anche una connotazione simbolica, un segnale che scuote l’animo e rinforza il corpo. È più vera l’acqua del chimico o l’acqua del poeta?

16 settembre 2008

L'arco (Kim Ki-duk, 2005)

Fuori dal tempo e dal mondo, vivendo in un peschereccio ancorato al largo un vecchio e una ragazza conducono la loro vita permettendo a saltuari pescatori di lanciare a pagamento la propria esca in mare aperto. Un estremo avamposto del tempo, un luogo circondato dal mare, dove lo scorrere dei giorni viene mostrato non tanto dalle brevi sequenze notturne (vista del barcone in campo lungo e nuvole oscure con o senza soli che tramontano, sguardi notturni distanti su un rapporto che solo il cinema può strappare alla sfera della pedofilia), ma soprattutto dai giorni di un calendario che il vecchio sbarra con una croce: mancano pochi mesi al giorno del matrimonio in cui potrà avere la ragazza tutta per sé. Ma quando il tempo si dimentica e lo spazio implode (l’immenso spazio del mare annullato dall’angusto spazio del barcone) si può anche bluffare ingannando Kronos con un atto di scrittura, anzi di contro-scrittura, ossia con lo strappo urgente e disperato dei pochi mesi rimasti sul calendario per arrivare al giorno desiderato. Qui (a parte simbolismi vari, allegorie, immagini religiose, sessuali, ecc.) prende campo, destruttura il silenzio, combatte col nostro bisogno di colmare la noia (come se la noia fosse una lacuna da riempire), l’arco multifunzionale, il feticcio universale che in questa assenza temporale mi ricorda l’aleph borgesiano (ossia il Tutto, il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega) senza esserlo. L’arco è solo la metamorfosi continua di un oggetto che cambia destinazione d’uso in base al sentimento del vecchio (e in parte della ragazza): l’arco che scocca le frecce per proteggere la “promessa” sposa importunata dai pescatori; l’arco che diventa strumento musicale per corteggiare l’amore e il desiderio, rallegrare la vita rarefatta della bambina adottata che non ha ancora conosciuto il mondo; infine l’arco che legge il futuro scoccando le sue frecce contro il Buddha dipinto sulla murata della barca, badando di non colpire l’adolescente intenta a dondolarsi sull’altalena davanti all’immagine di Siddharta. In questo estremo eremo, in questa “isola” galleggiante, si consuma il rapporto nel silenzio ininterrotto dei due personaggi principali (anche qui come in Ferro3 udiamo solo le voci del ragazzo e dei pescatori). In un luogo dove ogni cosa non è quella che crediamo anche la musica ci inganna, mentre le voci dei due protagonisti si annullano diventando una sinestesia (i due sussurrano nelle orecchie). L’inganno dell’arco (oltre a non colpire le presunte vittime e a non colpire la bambina sull’altalena) si definisce quando diventa strumento musicale nell’emettere una musica che sembra diegetica (il vecchio che suona l’arco) ma che poi potrebbe diventare extradiegetica (vediamo che il vecchio ha smesso di suonare) sennonché, quando il vecchio strappa le cuffie del walkman poco prima donato dal ragazzo alla graziosa Yeo-reum Han (1), la musica cessa. Allora si trattava di una musica diegetica? Noi spettatori non avremmo potuto udirla perché relegata nel canale sonoro, tutto privato, della ragazza. Cosa ha ascoltato la ragazza? Appena notiamo che le cuffie non erano collegate al walkman scopriamo con sgomento (o con iperestesia) che la ragazza stava ascoltando una musica extradiegetica, la stessa emessa dall’arco non più suonato dal vecchio. Il mondo qui non ha ancora fatto breccia e il ragazzo venuto da Seoul (il mondo che prima o poi arriva per riappropriarsi del tempo) non ha ancora potuto “mostrare” la sua falsa musica. E in questo set imploso solo l’arco può costruire un intreccio doloroso quanto simbolico, colpire, predire, corteggiare ma anche deflorare. Non sono i personaggi a raccontare (sono muti), né gli eventi a dipanarsi (non accade nulla) ma le forme a catturare e irretire il nostro bisogno di narrazione.

(1) L’attrice che interpreta la ragazza.

11 settembre 2008

Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (Kim Ki-duk, 2003)

Questo è un film che non si fa afferrare tanti sono i simbolismi religiosi e no, riferiti al buddismo o a improvvise trovate che non possono ricondurre immediatamente a significati o metafore legate alla religione. Certamente la religione nel film è importante (ambientato in un tempio buddista galleggiante su un laghetto incastonato tra i monti). La ricerca dell’equilibrio interiore, il ciclo della vita che si ripete, l’insegnamento dell’autodisciplina, ecc. Certamente. Le letture sono infinite, come le emozioni suscitate dal film. Il film che ho visto io non è solo un “contenitore” di significanza (fondamentale, importante, liberatoria, positiva) o di immagini estetizzanti (formali, equilibrate, contemplative, implementabili), ma è anche una struttura che si devolve, si offre alla percezione di un ritmo che non trascina ma macina (abbandonato ai margini, vacuo, saturabile, espositivo), è una miscela instabile di immagini-sutura (pittoriche, squilibrate, distratte, non collegabili). Sulla riva le ante di una porta che non unisce, come apertura o soglia, nessuna muraglia, nessuna barriera, si aprono, come un sipario, mostrando cinque atti di una pièce teatrale. Una rappresentazione teatrale con scenografia costituita da un tempio e una quinta dove sono disegnati i monti. Il palco è il lago della platea che osserva immobile gli eventi appena sussurrati, che accoglie i corpi e le anime di personaggi colti nell’atto di entrare e uscire attraversando la sala fino alla riva. Questo mondo appare in un perfetto equilibrio dove il senso delle cose non è riposto nella volontà umana o in un disegno divino che ha previsto questa assenza di mondo, ma è soprattutto il tentativo di costituire un fragile ritmo (tra l’altro occultabile) allo stesso modo di una poesia che deve “violentare una norma” (1). Questi equilibri instabili, questo ritmo sempre sul punto di collassare, trascinano l’animo attraverso la sorte di un bambino educato da un maestro nella solitudine di una vallata immersa nella natura, attraverso un percorso di purificazione che non approda in nessuna soluzione consolatoria. “Considerando che la frammentazione propria del montaggio […] è interruzione del flusso visivo da una parte (lo stacco) e designazione dall’altra (l’inquadratura), bisogna ricollocare queste qualità nell’ottica di una «poetica» del cinema allo stato puro, vale a dire una creazione di forme che fa sentire al tempo stesso il mondo e la sua distanza. Si impongono allora due termini: ritmo e rime” (2). Il ritmo impone la sua presenza soprattutto attraverso la partizione in cinque atti del film (le quattro stagioni più una), un’ellissi scandita dai battenti del portone che si apre sul lago mostrando l’isola-tempio galleggiante sulle acque. E ogni atto, ogni stagione, non è solo un salto temporale da un evento all’altro (o meglio, visivamente, da una stagione all’altra) ma soprattutto un salto nel vuoto che “mostra” l’accaduto (il tempo trascorso) attraverso indizi (oggetti o personaggi o animali) che rimandano a un passato occluso, incastrato nel battito-apertura della porta. Per citare un esempio il monaco, quando in autunno vede sul giornale la foto del suo ex-allievo e legge della sua fuga dal carcere dov’era stato rinchiuso per omicidio, viene a conoscenza di un passato scandito in un altrove sconosciuto, affiorato nel tempo “presente” tramite un frammento, un pezzo di giornale. Il tempo è il soggetto del film. Un tempo che si sposta e si mostra anche tramite brevi sequenze, lievi dissolvenze che servono a monitorare l’evento principale dell’attesa inestinguibile. Quando l’allievo omicida incide sul legname della zattera-tempio le frasi scritte dal suo maestro e i due poliziotti passano i colori con dei pennelli sulle incisioni, il tempo restituisce il senso della mortalità e dell’impossibilità di evitare una nuova alba. Il passato e le sue conseguenze proiettate nell’adesso (e gli echi del male che giungono sotto forma di “indizi”) sono macigni pesanti, un fardello che bisogna portarsi appresso al fine di espiare errori passati, presenti e futuri. Quelle che Amiel definisce rime, ossia “ripetizioni sporadiche, similitudini approssimative, sensazioni che aprono alla memoria uno spazio differente e proiettano in altri luoghi sentimenti che tornano a palpitare […]” (3), si innestano nel tessuto filmico come immagini o suoni dirompenti, capaci di “deformare” il senso delle informazioni senza soluzione di continuità. Così, ad esempio, la serpe che ritorna durante le stagioni o il tocco del corpo della donna da parte del giovane allievo durante l’estate e da parte del neo-maestro durante il gelido inverno, o ancora il sasso che il bambino lega in primavera al corpo di un pesce, di una rana e di una serpe così come il sasso che l’altro bambino mette in bocca nei menzionati animali durante la seconda primavera, (oppure anche la donna, morta nell’ellissi, che ritorna – ma è la stessa? – con un fazzoletto sul volto e muore scivolando nel buco del ghiaccio scavato dal monaco per lavarsi le mani), ebbene questi “ritorni” sono rime che restituiscono alla pellicola una struttura armonica (naturalmente le rime in questo film sono moltissime e tutte quante notevoli). Pertanto il tempo come soggetto, il ritmo come scansione del tempo stesso e le rime come “sfogliatura” delle immagini, inducono a leggere Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera come si legge una poesia. In questo modo il senso di questo splendido film, il senso profondo che entra nell’animo e scuote, che violenta la “norma”(4), è la disperazione per un male irrimediabilmente costituitosi (più o meno volontariamente, più o meno casualmente) e per un tempo che trascina gli echi di questo ciclico, ineffabile continuo ritorno (degli eventi che ricompongono errori incolmabili). La preghiera come purezza e (consentitemi questo brutto termine) “ripulitura” dalle scorie velenose, ma anche la natura che assorbe ogni cosa (compreso il male e compresa la preghiera) non aiutano a salvare l’anima. Questo compito spetta alla poesia. Forse non proprio una salvazione, né una redenzione, piuttosto una fioritura di sensazioni, sapori, profumi, ritegni, un percorso di conoscenza che non può e non deve essere abbandonato, ma seguito nelle sue più difficoltose biforcazioni allo scopo di scegliere non tra un gesto o l’altro tra una credenza o l’altra, tra un dolore o l’altro, bensì allo scopo di porre in evidenza l’atto stesso della scelta. In fondo il film è una poesia di scelte e di conseguenze che determinano altre scelte e altre conseguenze.

(1) Jan Mukarovskj, La funzione,la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, 1971
(2) Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, Torino 2006, p.130.
(3) Ivi, p. 132-133.
(4) In questo caso intendo “norma” come standard precipuo e ormai etichettato: lacrime, risa e altri sentimenti già confezionati, presi da vari profilmici e incollati sul supporto.

6 settembre 2008

Bad Guy (Kim Ki-duk, 2001)

Il film è già scritto, segue il suo destino. Ogni volta che vediamo e rivediamo una sequenza ci illudiamo di vederla in un eterno adesso, di osservare eventi e personaggi come curiosi che si soffermano, distratti dai propri affari, per assistere a un litigio. Come finirà, cosa succederà? Ma un litigio (o altri eventi) incontrato lungo la strada non possiede un inizio e un epilogo perché è “solo” un flash insignificante fra tanti altri eventi “insensati” in cui ci caliamo contemporaneamente, eventi senza storia e senza morale perché sono “solo” eventi, sono “solo” la vita. Ma il cinema è il cinema e anche se ci illude della freschezza del suo mostrato o della purezza della sua luce è “solo” un testo. È già accaduto, o meglio, ha bisogno del nostro vissuto per accadere in fieri anche se è già tramontato nel suo passato. Così la storia di Han-ki e Sun-hwa e del loro casuale incontro, in realtà è già accaduta. La studentessa che attende il fidanzato su una panchina di una strada affollata, credendo di vivere un altro giorno qualsiasi, non dovrebbe sapere cosa sta per diventare a causa del protettore Han-ki appena sedutosi accanto a lei su quella stessa panchina. Il luogo comune della panchina come contenitore di amore (ossia ragazzo + ragazza + panchina = amore) diventa l’orrore della panchina come “vetrina” con il proprio contenuto di giovane carne esposta allo sguardo della libidine (ossia ragazza + panchina – amore = – ragazzo). Il senso apparente, estrapolato dal desiderio comune di un evento che sopravvive sulle scatole dei cioccolatini, diventa (scambiando i termini) l’orrore del tempo che non riesce a mostrare i suoi perché. E il cinema sta lì, davanti a noi, a indicarci che è sempre stato così, che Han-ki e Sun-hwa nella diegesi sono carnefice e vittima (o viceversa?), sfruttatore e studentessa costretta con l’inganno a prostituirsi, ma nell’iconico sono sempre stati, ancora prima che lo sguardo se ne renda conto, due corpi condannati ad essere amanti. E mentre nel plot Sun-hwa disprezza il suo carnefice, sputandogli in faccia, esigendo le scuse, non sa che nella fotografia (in un frammento di story board strappato e perduto in una spiaggia) è sempre stata al suo fianco come una arcaica rassegnata concubina. Il mondo però ci invia segnali apparentemente indecifrabili, che non siamo in grado di capire, e che il cinema tenta di rendere intelligibili attraverso la formazione di simboli. E spesso questi simboli sono oggetti qualsiasi (1) o riflessi vaghi ed evanescenti o certi momenti onirici che stanno lì non per essere decifrati ma per essere amati. Quando Han-ki si trova sulla spiaggia accanto a Sun-hwa vede una ragazza di spalle che cammina verso il mare immergendosi e scomparendo sotto la calma coltre equorea. Ma chi è quella ragazza? È la stessa che Sun-hwa incontra lungo la strada della sua fuga e che le mette una maglietta sulle spalle come per proteggerla dal gelido pianeta ostile? O è lei stessa, il fantasma di una “brava” ragazza che non esiste più? La foto strappata assemblata da Sun-hwa manca di una tessera e non può mostrare un volto. Sun-hwa non sa ancora di chi è quel volto, conosce il contorno (o crede di conoscerlo) ma se attacca quella foto ricostruita allo specchio della sua cameretta, dove ogni sera dona il proprio corpo, il posto della parte mancante sarà di volta in volta occupato da un riflesso: il suo stesso volto che si pone sul corpo della ragazza della fotografia, il volto di Han-ki? Il cinema scivola in un riflesso assumendo una forma incorniciato da un testo (o da quel che ne rimane) che non è mai stato (il testo) ciò che avrebbe “voluto” essere. Difficile muoversi in questo film, tanti sono gli spunti e i motivi per riflettere. Ad esempio, può un volantino in quanto arma fronteggiare un coltello? O un vetro, portato sottobraccio come lo farebbe un vetraio mentre si reca a sostituirlo, può colpire e ferire? Nel cinema si può. Eco tre aspetti che mi hanno incuriosito:

1. Origami come piega dell’extra spazio/tempo. In una sequenza Han-ki fronteggia un avversario piegando un volantino pubblicitario in modo da dargli una forma simile a un cono appuntito che poi infilerà nella gola del suo rivale. Un origami contro un coltello non ha possibilità nel reale, un foglio contro la lama d’acciaio, qualcosa che non sembra nato per essere oggetto del male contro qualcosa che spesso simboleggia (grazie anche a tanto cinema classico) l’evento principale della ballata di un guappo: il duello all’ultimo sangue con un coltello in mano e tanto romantico coraggio. Ma nel cinema l’origami è la piega che cela il senso o l’assunto che si camuffa in arma per rimandare (almeno fino all’epilogo) lo scioglimento catartico. In questa arma c’è un condensato di immagine e scrittura, c’è il bisogno di nascondere, velare, ripiegare il mistero per tagliare un altro fotogramma, per esorcizzare la morte senza guardarla in faccia (un po’ come lo scudo di Atena usato da Perseo per sconfiggere Medusa) (2). La carta del cinema può anche (tra le pieghe di un’ellissi o di una panoramica che mette fuori campo un personaggio, o di una zoomata che butta fuori dal quadro il contorno) sconfiggere un finto acciaio o il passato di un altro cinema che non c’è più. La carta (dove potrebbe trovarsi la sceneggiatura del film), tagliando il corpo, forma l’immagine come contenitore di una proiezione, come raccordo tra uno spazio-tempo che sta per lasciarci e un’attesa dell’imprevisto che sta per essere vista. Insomma il fuisse viene determinato dal futurum esse.
2. La trasparenza come arma (il vetro che ferisce). Un vetro sottobraccio, anche se appuntito, non è un modo per uccidere. Quasi impossibile muoversi nello spazio per sperare di colpire il nemico. L’arma è piuttosto il sogno di determinare una trasparenza filmica che lasci “parlare” gli oggetti e gli eventi, come se la pellicola non esistesse, il cast non esistesse. Quel vetro diventa una sorta di deissi che torna ogni volta ad annullare la sua stessa trasparenza (del vetro). Ossia un tal vetro come arma diventa di un’opacità inaudita, una trasparenza opaca.

3. La luce dentro lo specchio. Han-ki spia Sun-hwa da dietro lo specchio, soffrendo nel vederla prostituirsi, soffrendo nel vederla piangere ma anche nel vederla trasformarsi in una puttana desiderata da tutti. Vede non visto, ma il desiderio di fondersi col riflesso di lei adagiato sullo specchio trascina l’opacità speculare, che riflette l’immagine di Sun-hwa, a ridosso della trasparenza (dell’attraverso). Per creare una simile rappresentazione ci vuole una luce (in questo caso un accendino). Per trascinare il mondo riflesso dallo “specchio di Atena” (3) oltre lo specchio stesso ci vuole la luce che solo il cinema può ricostruire. La fusione può sembrare totale, ma ha un costo alto: la possibilità di rivelare il trucco e l’alienazione dell’ego nell’abisso di una credenza (appagamento?).



(1) Oggetti qualsiasi come un portafoglio (tra l’altro un oggetto fondamentale per la storia del film), ma anche accendini, parrucche colorate, vetri, coltelli, ma soprattutto il catalogo delle opere di Schiele , un pittore espressionista. I pittori espressionisti non considerano le leggi della prospettiva e né l'illusione del volume e della profondità. Le linee e il colore sono utilizzati per evidenziare la visione drammatica e pessimistica sul mondo e la società.
(2) Kracauer afferma (cito a memoria) che nel mito la decapitazione di Medusa non significa ancora la fine del suo regno. Infatti Atena fissò la terribile testa sul suo scudo per gettare il terrore tra i nemici. Perseo, che ne aveva vista l’immagine, non riuscì a distruggerne completamente lo spettro (Krakauer, Film: ritorno alla realtà fisica (1960) Milano, Il Saggiatore 1962)
(3) In realtà si tratta dello scudo di Atena e non dello specchio, ma lo scudo nel mito di Perseo e Medusa viene usato come uno specchio.