31 maggio 2008

Il tempo in Proust secondo il punto di vista di Deleuze

Le acutissime osservazioni di Gilles Deleuze (famoso ai cinefili per i suoi due magistrali volumi sul cinema “L’immagine-movimento” e “L’immagine-tempo”) sul romanzo di Proust, “Alla ricerca del tempo perduto”, inducono a riflettere sulla percezione del “tempo” non solo nel romanzo del celebre scrittore francese, ma anche sulla percezione del tempo “cinematografico”.
Il senso della Recherche, non «[…] si basa sull’esposizione della memoria, ma sull’apprendimento dei segni»(1). C’è dell’emozione nel ricordo, e la sua espressività sta tutta nella ricerca di questa emozione, nella sua conquista. Riguardo al “problema” del ricordo e della deformazione che comporta (ma una deformazione che non è mai la stessa, perché si ri-forma e si ri-deforma ogni volta che il ricordo si tras-forma), è interessante l’analisi che fa Deleuze della Recherche di Proust. Per Deleuze appunto la Recherce si basa sull’apprendimento dei segni. I segni sono dei codici, delle regole che valgono in un contesto, ma possono non aver nessun valore in un altro. Questi segni non sono tutti dello stesso genere e non hanno un identico rapporto con il loro senso, afferma Deleuze. Vi sono segni della mondanità, segni dell’amore, segni delle impressioni o qualità sensibili, infine segni dell’arte. Si tratta di trovare il senso del segno, come il geloso vuole decifrare, interpretare, capire dai piccoli gesti della persona amata quegli impercettibili segni che possono tradirlo, segni involontari e non segni dell’intelligenza. Il geloso cerca la verità, vuole decifrare, capire, spiegare. La trasformazione in questo caso porta verso l’annientamento, «[…] i segni dell’amore anticipano […] la loro alterazione e il loro annientamento; in essi è implicito il tempo perduto allo stato puro»(2). Anche i segni sensibili possono essere segni di alterazione e di scomparsa, in cui non troviamo il tempo, ma il segno di un tempo perduto per sempre (ad esempio il ritrovamento di un oggetto appartenuto ad una cara persona morta, ricordo straziante che ci porta il sentimento della morte), ma in generale le impressioni spesso fanno ritrovare il tempo (un profumo, un sapore, un’immagine dell’infanzia) restituendocelo in seno al tempo perduto. «I segni dell’arte ci danno un tempo originale assoluto che comprende tutti gli altri»(3). L’apprendimento dei segni passa attraverso gli oggetti, ma non è l’intelligenza che interviene, perché «[…] l’intelligenza è portata all’oggettività, come la percezione è portata all’oggetto»(4). L’intelligenza è ragionamento, è una filosofia, la si può paragonare all’amicizia più ciarliera. L’amore invece è paragonabile all’arte(5). I segni sensibili tentano di restituirci il significato esplicito dell’oggetto che li emette: il ragionamento cerca tramite questi segni di restituirci il senso del tempo, ma è solo una deludente illusione. Non a caso Proust non ama la letteratura cosiddetta realistica che interpreta i segni riferendoli ad oggetti designabili, ma soprattutto una letteratura che confonde «[…] il senso con significati intelligibili, espliciti e formulabili»(6). La delusione di questo fallimento porta al tentativo di sostituire l’interpretazione oggettiva con l’interpretazione soggettiva, tramite associazioni d’idee. Il sapore delle «madeleine» può essere considerato una di queste associazioni, dandoci l’illusione di restituirci il tempo, ma il sapore delle «madeleine» è qualcosa di più di un’associazione. Il rapporto tra oggetto e soggetto non è sufficiente a rendere conto dell’apprendimento. Per Proust la vera unità del segno e del senso è l’essenza che «[…] costituisce il segno, in quanto irriducibile all’oggetto che lo emette; […] costituisce il senso, in quanto irriducibile al soggetto che l’afferra»(7). L’essenza è una differenza, non differenza tra due esseri o due oggetti, ma una differenza assoluta, e la differenza è il punto di vista che esprime ogni essere, ogni soggetto; e non è il soggetto a esplicare l’essenza, ma è l’essenza che costituisce la soggettività. L’essenza è un mondo inviluppato che costituisce l’individuo. L’essenza s’incarna nell’opera d’arte attraverso la materia, come scrive Deleuze «Il vero tema di un’opera non è […] il soggetto trattato in essa, soggetto cosciente e voluto che si confonde con ciò che designano le parole, ma i temi incoscienti, gli archetipi involontari da cui non solo le parole, ma anche i colori e i suoni prendono senso e vita. L’arte è una vera trasformazione della materia»(8). Infine l’essenza accosta due oggetti completamente differenti, è la stessa qualità comune di due oggetti differenti; il saldamento di questi due oggetti avverrà tramite lo stile, ossia per Proust, tramite la metafora, ossia tramite la metamorfosi. Lo stile è quindi la trasformazione continua, metamorfosi di oggetti che esprimono nella loro continua trasformazione, la differenza sempre identica ripetuta eppure sempre diversa. È la memoria involontaria che può avvicinare all’arte. Nella vita interviene attraverso i segni sensibili, qualità sensibili, sensazioni, sapori, profumi, immagini. Proust chiama i segni della memoria involontaria reminiscenze: sono metafore della vita come le metafore sono le reminiscenze dell’arte. Il meccanismo delle reminiscenze è «[…] un meccanismo associativo: da un lato, rassomiglianza tra una sensazione presente e una sensazione passata; da un altro, contiguità della sensazione passata in un insieme da noi vissuto un tempo, che risuscita sotto l’effetto della sensazione presente»(9). La sensazione di un sapore (le «madeleine») è simile allo stesso sapore che abbiamo gustato nell’infanzia (a Combray) e questo stesso sapore fa rivivere Combray. Non è questa un’associazione di idee, perché la “realtà” che il sapore fa rivivere non è quella che veramente abbiamo vissuto in quel tempo in cui conoscemmo quel sapore. Questa sensazione produce una gioia del tempo ritrovato, che la memoria volontaria, (il ricordo voluto, cercato) non può ricreare, perché questa memoria non afferra veramente il passato, ma lo ricompone tramite i presenti, ricostruisce insomma il presente che è stato e lo rapporta al presente attuale: è un rapporto di presenti. La memoria volontaria è simile ad una mostra fotografica(10), come afferma Deleuze alla memoria volontaria sfugge l’essere in sé del passato.
Al livello della memoria l’idea di Proust coincide con quella di Bergson, in quanto il passato quale è in sé coesiste col presente che è stato, non gli succede, in quanto se il momento non coesistesse in sé come presente e passato, non potrebbe mai passare e non potrebbe mai essere rimpiazzato da un nuovo presente. La peculiarità della memoria involontaria, a differenza di quella volontaria, è la differenza interiorizzata, una differenza immanente, perché la Combray affiorata alla mente tramite il sapore delle «madeleine» si è ormai interiorizzata nella situazione presente, situazione che non è più possibile separare da «[…] questo rapporto con l’oggetto differente […] Combray appare in un passato puro, che coesiste con i due presenti, ma al di là della loro portata, dove né la memoria volontaria attuale, né la trascorsa percezione cosciente possono raggiungerlo»(11). Anche qui come nell’arte, ma ad un livello più basso, vi è l’essenza che s’incarna nel ricordo involontario. Mentre nell’arte l’essenza ci rivela un tempo originale, che oltrepassa le proprie serie e le proprie dimensioni, l’essenza che s’incarna nel ricordo involontario ci fa ritrovare lo stesso tempo perduto. Concluderei questa lunga parentesi su Proust riportando ciò che afferma Deleuze a proposito della gerarchia di importanza tra ricordo e sogno:

I segni sensibili che […] corrispondono [alla memoria involontaria] sono perfino superiori ai segni mondani e ai segni dell’amore. Ma restano inferiori ad altri segni non meno sensibili, segni del desiderio, dell’immaginazione o del sogno (questi ultimi hanno già materie più spirituali, e rimandano ad associazioni più profonde, che non dipendono più da contiguità vissute). A maggior ragione, i segni sensibili della memoria involontaria, avendo perduto la perfetta identità del segno e dell’essenza, sono inferiori a quelli dell’arte. Rappresentano solo lo sforzo della vita per prepararci all’arte, e alla rivelazione finale dell’arte (12).

La memoria involontaria è quindi soltanto una tappa del cammino verso l’arte, è un tirocinio. Invece desiderio, immaginazione e sogno sono tappe che ravvicinano sempre più all’arte, tappe di un viaggio che porta dai segni del quotidiano a quelli del ricordo dell’immaginazione e del sogno ai segni dell’arte. E il desiderio (o il sogno) di ritrovare il tempo allo stato puro, un istante di eternità che inglobi e comprenda tutti gli altri tempi, perché come dice Deleuze nel suo saggio su Proust, «[…] solo in esso ogni linea di tempo trova la sua verità, il suo posto e il suo risultato dal punto di vista della verità»,(13) non può che essere la conclusione dell’avventura. La fusione nell’eternità di un cielo divinizzato, azzurro, dove il tempo allo stato puro unisce la morte, l’amore, la vita mondana ecc., cioè i segni di questi universi frammentari, non può che essere l’epilogo (o l’inizio), il punto d’incontro di tutti i segni del percorso, un punto che li contenga, senza farli uguali, ma rimarcandone la differenze, la frammentarietà, la trasversale di tutti i tempi, di tutti gli oggetti. Allora riemerge chiaro il senso della poesia di Rimbaud (14), in cui tempo e cose andate danno il senso dell’eternità, ma (cerco di cogliere lo spirito del saggio di Deleuze su Proust) in cui il tempo ci dà il senso di pezzi frammentari che non sono capaci di riunirsi in un tutto sia nello spazio che, per successione, nel tempo. «Il tempo è precisamente la trasversale di tutti gli spazi possibili, compresi gli spazi di tempo»(15).




Foto in alto a sinistra: Gilles Deleuze; foto a destra: Marcel Proust.
(1) G.Deleuze, Marcel Proust e i segni (1964), Torino, PBE 1986, p.6.
(2) G. Deleuze, op. cit., p. 19. Deleuze vede il tempo della Recherce diviso in quattro strutture, ognuna delle quali ha la sua verità: il tempo che passa altera l’essere, annientando ciò che fu; il tempo perso, il tempo cioè che perdiamo ad essere mondani, ad innamorarsi, invece che a fare opera d’arte; il tempo ritrovato come tempo ritrovato in seno al tempo perduto e infine il tempo ritrovato come eternità che si afferma nell’arte (p. 18).
(3) Ivi, pp.24-25.
(4) Ivi, p.29.
(5)«Vale più un amore mediocre di una grande amicizia: perché l’amore è ricco di segni e si nutre d’interpretazione silenziosa. Vale più un’opera d’arte di un’opera filosofica; perché ciò che è implicato nel segno è più profondo di tutti i significati espliciti»: Ivi, p.30.
(6) Ivi, p. 32.
(7) Ivi, p. 37.
(8)Ivi, pp.45-46.
(9)Ivi, p. 53.
(10)La memoria volontaria per Proust fa somigliare, ad esempio, i ricordi di una città ad una mostra fotografica, una lunga noiosa serie di istantanee. Cfr. nota pag. 55 del saggio di Deleuze, Proust e i Segni, cit.
(11)Ivi, pp.57-58.
(12)Ivi, p. 61.
(13)G.Deleuze, op. cit., p.82.
(14) “Elle est retouvée! / Quoi? L’éternité. / C’est la mer mêlée / Au soleil. […]” (Rimbaud, L'éternité in Une saison en Enfer).
(15) G. Deleuze, op. cit., p. 120.

27 maggio 2008

Gomorra (Matteo Garrone, 2008)

Nell’impossibilità di soffermarsi a guardare le tracce diegetiche degli eventi, già peraltro trasmesse attraverso le conoscenze comuni (anche se superficiali) della cronaca, se non addirittura dell’esperienza, lo smarrimento che si prova davanti a un simile dramma ci percuote e annichilisce attraverso un sapore nuovo che restituisce le sensazioni del nulla(1). Purtroppo questo retrogusto nuovo, restituito da immagini straordinarie, assume una forza tale da circoscrivere ogni altro sapore. Ma non è un effetto negativo. Tutt’altro: riempire una stanza vuota con oggetti, personaggi, immagini, significa detrarre spazio. Non c’è spazio in una stanza piena, pertanto più si sale di livello più la discarica scompare. Lo spazio muore là dove cresce l’inventario degli "attanti". In Gomorra questo non succede. Nonostante gli episodi che ci restituiscono esperienze tragiche di sofferenza e morte, di abusi e abiezione, nonostante la percepita “densità” del reale e l’ingente disperazione di fondo che evolve di sequenza in sequenza, il film libera spazio. La stanza è sempre incredibilmente vuota, le sequenze sono sempre incredibilmente rarefatte, eteree, fuggono via come in un sogno, scivolano lungo i racconti, scorrono nel flusso incoerente e incontenibile delle cose che accadono; e accadono perché devono accadere. Garrone ha mirabilmente scelto di morire come regista, ha scelto di morire come ha descritto bene Barthes in un suo saggio (2), rinunciando a raccontare ma lasciando che le immagini si mostrino da sole. La macchina da presa volteggia sui primi piani, scivolando leggera nelle location, rinunciando a descrivere gli ambienti quasi sempre ignorati o cancellati attraverso il “fuori fuoco” o abbandonando la dinamica delle azioni in un fuori campo che poi sarà recuperato in seguito per mostrare il risultato dell'invisibile. Questa rinuncia a descrivere è una scelta coraggiosa e rischiosa, perché lascia una grande libertà allo spettatore, nella consapevolezza che ognuno di noi abbia sentito almeno parlare della camorra e degli scissionisti. L’immaginario collettivo, nel ricostruire il male causato dalla malavita, non poteva rimanere intrappolato nella minuziosa nomenclatura degli eventi, nella particolareggiata resa classica o anche documentaristica degli avvenimenti. In tal modo ognuno avrebbe espresso il proprio sdegno o il proprio rancore, rinunciando a sensazioni forti e inusuali quali la disperazione. Mentre scorrevano le sequenze su quel maledetto telone bianco la disperazione ingigantiva, in quanto ricomporre le “assenze”, ricucire i fatti, era un "mio" compito e Gomorra mi era entrato nel sangue come una dose di eroina. Io sono Gomorra: questo l’epilogo del film. Ognuno a modo suo può trovare il coraggio di criticare od uccidere il "cattivo" nell’immaginazione, perché il Male ha percorso il sistema linfatico del reale alimentando il Bene. Ma Garrone non poteva trascrivere il romanzo di Roberto Saviano attraverso la resa narrativa degli scontri e/o l’espressione di sentimenti come odio e amore, vendetta e paura. Gli sguardi dei personaggi non potevano trasmettere niente, perché ogni confine, ogni limite è stato annullato. Questo tanto nominato spazio claustrofobico (sensazione da me condivisa in pieno anche in quanto asmatico) non fa da contraltare ad uno spazio aperto, l’aria viziata non confina con l’aria fresca del mondo libero. Gomorra non è una città occupata e Garrone ha ricostruito questi spazi nella consapevolezza che appartengono alla nostra “cultura”. Sfuggendo al profilmico, decidendo di mostrare una morte quasi "casuale", un’aggressione vista attraverso la reazione (paura, rabbia, fuga) degli spettatori-personaggi e non direttamente, ha scelto una strada difficile, ma anche stimolante e originale. La meravigliosa poesia di questo film (perché dico con Pasolini che questo è un film di poesia), non scaturisce dalla consapevolezza dell’ineluttabile tragedia, ma dalla ricerca infinitesimale di un senso misterioso che sembra sfuggire a tutti quanti: spettatori, attori, personaggi, camorristi. Forse gli unici due personaggi (anzi l’unico attante) che sembrano condividere il sogno del poeta (la libertà) sono proprio i più folli-stupidi, quelli che chiudono la storia trasformati in cadaveri portati via dalla ruspa. I due sognano di essere liberi e di non avere padroni, sognano la libertà di uccidere il loro creatore (l’autore) sperando di dominare e sviluppare una loro personalissima storia (ricomporre e interpretare). Gli spari nel nulla sullo specchio d’acqua evidenziano le grandi capacità (per me incredibile constatarlo) di un regista che non mi aspettavo tanto maturo. Forse il film sarebbe stato notevole anche senza quella scena, ma quella scena (anzi l’intera sequenza) mostra con semplicità quanto Gomorra non sia solo negli effetti e nei risultati ma soprattutto nel mentre, nel durante, nella trasmissione del messaggio. Gli spari per me sono un messaggio, rappresentano l’anelito di libertà. Nessun destinatario, nessun referente, nessun contatto, nessun codice, solo gli spari che squarciano l’aria e riecheggiano nell'equoreo paesaggio. Solo il messaggio. Per Jakobson l'accento posto sul messaggio per se stesso costituisce la funzione poetica del linguaggio. Il messaggio interagisce con se stesso, si fa ambiguo, si mostra fuori dal contesto solo per il suo aspetto formale, in altri termini si ha funzione poetica quando il significante prende il sopravvento (scelta paradigmatica, fonica, sintagmatica) relegando la denotazione in secondo piano e assumendo in pieno i valori della connotazione (3). Questa sequenza è poesia.
P.S. Quando un film merita per me il massimo "cinemasema" diventa per un giorno "cinemarema" (4). Non fateci caso: una "metamorfosi" maniacale, lo so.
(1) Il termine è complesso e discutibile. Secondo la tradizione metafisica non è possibile pensare il nulla; per il buddismo zen il nulla è Mu, impossibile da descrivere perché indicibile; per la moderna fisica l’universo si espande nel nulla che non è il vuoto. Mi scusino gli esperti per le mie imprecisioni e per lo scarso impegno ad approfondire, ma in realtà qui non è mio interesse approfondire il concetto di “nulla” anche perché non ne sarei all’altezza.

(2) Riporto un periodo di un mio precedente post. Roland Barthes in un suo famoso saggio descrive bene questa “evaporazione del senso” ("La morte dell’Autore" del 1967, in Il brusio della lingua, Einaudi 1988, p. 55 – e anche se qui si tratta di scrittura, la citazione può essere riferita all’immagine): “Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di “decifrare” un testo diventa del tutto inutile. […] Nella scrittura molteplice […] tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; […] la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una sorta di “esonero” del senso.”

(3) Jakobson, Saggi di linguistica generale,p.189.

(4). Il "rema" è l'elemento nuovo, la parte sconosciuta dell'enuciato. Per Pasolini il “rema" è un'inquadratura che deve obbedire alle regole della successività. Nel rema si "contempla la compresenza del tratto fisio-psicologico analogo a quello della realtà (sema), del tratto audiovisivo (cinèma), e del tratto spazio-temporale (ritmèma)". Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 2000(3), p.292.

24 maggio 2008

A teatro con Billy Boy e i Drughi.

La sequenza n. 3 è caratterizzata da un movimento paragonabile all’incipit: dall’affresco sul frontone del teatro, ripreso in primo piano, uno zoom indietro ci mostra un teatro abbandonato ripreso in campo totale. Questa distanza dagli eventi mostrati rimarrà tale per i tre minuti della sequenza. L’effetto teatrale è palese. I movimenti dei personaggi e in particolare il “balletto” della banda di Billy Boy, con la vittima che viene denudata prima di un probabile stupro, sono innaturali, attenti soprattutto a seguire un ritmo che sia consono all’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini. Invece di riprendere la violenza nella sua fredda veste naturalistica (magari senza pathos) Kubrick sceglie di mostrare la falsità delle immagini trasformando i movimenti tragici dell’atto in sé, in una danza precisa, coordinata, artificiale, dove niente è abbandonato al caso e dove ogni minimo movimento allontana e respinge lo sguardo al di là dell’evento. Qui siamo di fronte alla pantomima della violenza, perché le possibilità del senso non conducono ad una interpretazione del dolore e della disperazione (lo sguardo muore davanti all’atto definitivo del Male), bensì alla fuga verso il mondo. In questo momento Billy Boy e la sua gang danzano con la vittima per dimostrare l’imponderabile efficacia del Falso, là dove la presupposta conservazione degli atti naturalistici (se pure rappresentata con la dovuta attenzione ai particolari effetti realistici) non è che la rinuncia a esplorare territori vergini. In altri termini, le prime tre sequenze (Incipit, sequenza del barbone irlandese, sequenza del teatro abbandonato) introducono la storia limitandosi a gettarla via, buttarla nel mondo, ammettendo l’impossibilità di contaminarla con l’effetto di reale. Per questo la riduzione a effetto teatrale, la trasposizione dei movimenti e delle musiche in una piéce da operetta (l’ouverture del Guglielmo Tell contribuisce a sottolineare l’aspetto falsificante degli eventi) ci trasferiscono immediatamente nel film. Lo sguardo distante che assiste impavido all’evento non è mai nell’azione (almeno in questa sequenza) intrappolato da una luce intensa e chiara, ma anche assurda e falsa che disegna sul fondale del teatro le grandi ombre dalla banda di Billy Boy. Rappresentazione autoreferenziale, enunciato ridotto a pantomima, luogo ove si svolgono rappresentazioni che manipolano comunque il reale, ma anche messa in abisso dell’evento in quanto il “luogo deputato” a mettere in scena un’opera (e dove il pubblico rimane seduto dall’altra parte del palco) viene fagocitato dalla rappresentazione stessa trasformandosi in “avvenimento”: questi i sintagmi formali e semantici che sarebbe interessante approfondire. La platea diventa sito di scontro tra i Drughi e la banda di Billy Boy: là dove si assiste, si fa ultraviolenza. La violenza aleggia anche da quest’altra parte. Il diaframma che divide pubblico e attori è caduto e gli spettatori (i Drughi) hanno cominciato a recitare. Lo sguardo distante rimane tale anche quando i Drughi vengono inquadrati dal lato opposto al palcoscenico. Alex e i suoi hanno assistito seduti accanto a noi al tragico balletto, ma adesso, entrando in campo nonostante la distanza eccessiva, somigliano a degli attori che hanno appena fatto ingresso sulla scena. Ma poiché Alex, Georgie, Pete e Dim sono realmente Malcom Mc Dowell, James Marcus, Michael Tarn e Warren Clark, ossia degli attori che hanno fatto ingresso sul palco, la sequenza acquista una sua logica di "verità" poiché le circostanze del vero (gli attori che recitano) mostrano la forza destabilizzante del falso (la rappresentazione dell'ultraviolenza). Stare nel Fuori significa anche appropriarsi della distanza, ossia di uno spazio centrifugo che allontana lo sguardo sino a relegarlo nella platea teatrale, mentre gli attori, seduti accanto a noi, osservano le loro proiezioni sullo "schermo". Lo spettacolo dello spazio teatrale presuppone un pubblico-attore, in grado di seguire la rappresentazione come rimanere coinvolto dai vari eventi della piéce. Kubrick ci mostra la messa in scena, ossia la falsità della rappresentazione all'interno dello spazio filmico, mentre nelle sequenze seguenti recupererà anche il reportage (macchina a mano) utilizzato per condurre il voyeur nel punto più interno dell’azione, in pratica il punto di vista parziale e limitante dei personaggi. Per Kubrick lo sguardo deve smascherare la messa in scena (1).


(1) S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche Editrice, 1990, p. 81

20 maggio 2008

Iron Man (Jon Favreau, 2008)

Il plot interessante e un po’ capzioso, divertente ma anche ambiguo, mi ha divertito, coinvolto, appagato. D’altronde non poteva che essere così, in quanto conoscevo Iron Man (il fumetto) e sono andato in sala già predisposto al divertimento. Le mie aspettative erano orientate verso il segno positivo e solo una grave discrasia attanziale avrebbe potuto deludermi. Insomma sapevo in partenza che mi sarebbe piaciuto. Il pubblico in sala mi sembrava soddisfatto e la rivelazione dell’epilogo (quella prima dei titoli di coda, non quella dopo i titoli che quasi nessuno ha visto) ha esaltato la sala: io sono Iron Man. Stupore, scroscio di applausi e… uscendo dalla sala già l’entusiasmo stava diminuendo e col trascorrere delle ore è sceso del tutto, annullato dal logorio mentale che mi prende quando devo “allineare” le sinapsi per sciogliere i luoghi comuni e gli sguardi preconfezionati, annichilire i miei applausi mentali per tutto quello che rientra nella Sci-fi, fumetti compresi. Iron Man è un mero agglomerato di immagini giustapposte, un procedere allineato di situazioni concatenate, un luogo ove si spiega, si celebra, si convince, si evince. Nonostante somigli a una finale olimpica dei cento metri (con lo starter che spara il via, la corsa, l’arrivo e il photo finish) non emoziona neppure quanto una vera finale olimpica. La lunga introduzione che illustra le cause della nascita di Iron Man, le immagini che mostrano gli sviluppi della costruzione dell’ “armatura” tecnologica, gli scontri in Afghanistan per difendere i più deboli e l’epilogo con la battaglia tra Iron Man e il più gigantesco contendente di ferro, è una sequela ininterrotta, lineare, geometrica, di immagini esplicative, dimostrative; è una frase classica costruita per chiacchierare, raccontare, evidenziare. Invece di mostrare, spiega; invece di catturare, prova a convincere; invece di emozionare, ammicca. L’incipit sembra un incipit ex abrupto, perché è una semplice, breve prolessi, un’anticipazione che giustifica un lungo flash-back (ma che non è da considerare un vero flash-back). Anzi l’incipit è un flash-forward che si ricollega all’oggi (dopo lo pseudo flash back che ci riporta di trentasei ore indietro). Così la storia non inizia ex abrupto, ma è pianificata perché a Favreau interessa l’organizzazione, la nascita e lo sviluppo del meccanismo; interessa la sorte immobile del monoscopio che osteggia i repentini salti, le forme diluite, la contaminazione, la stereoscopia del mostrato, lo sguardo che si perde nei meandri della follia o negli sguardi persi degli innocenti. Il punto di vista di Iron Man è il punto di vista del regista, lo sguardo dell’autore che non riesce a scrollarsi di dosso il proprio narcisismo, sguardo di colui che organizza schemi incasellati seguendo un ordine predisposto (di data o alfabetico, numerico, ecc.). I punti deboli sono molti ma mi soffermo in particolare su due aspetti: la pelle e la placenta.

Pelle. Iron Man è un esoscheletro, ossia la gemmazione di uno scheletro esterno come metafora di quello interno a noi che non ci protegge affatto. Tony Stark è rimasto ferito per una bomba e adesso vive grazie a un cuore tecnologico, lo stesso che dà energia all’esoscheletro con cui forma un tutt’uno, un Iron Man, una simbiosi di tecnologia e carne, un meccanismo perfetto che resiste, reagisce, condiziona, protegge. L’esoscheletro è il riflesso del desiderio di rientrare nel grembo materno. Proteggersi con la placenta galleggiando nel liquido amniotico. In questo senso tutto è lineare, corretto, predisposto, concludente. Il progetto del Chiuso si sprigiona nelle certezze, nelle affermazioni coerenti, nel tentativo di imbrigliare e controllare il reale, curvandolo sotto lo sguardo aereo, distante di Iron Man. E’ il sogno del bambino che vuole correggere il Mondo attraverso i suoi stessi difetti (quelli del bambino). Per dar queste certezze bisogna che l’istanza astratta o sguardo distanziato si allinei sulle bisettrici tracciate lungo le immagini, quali ad esempio, i voli in entrata e in uscita, le piroette controllate, i proiettili che partono e arrivano sempre, le voci che lo sguardo riesce sempre a controllare, registrare, codificare. Quando il prototipo di Iron Man esce dalla grotta, distruggendo e colpendo i ribelli afgani, non c’è il pathos dell’imprevisto. Sappiamo che Iron Man è un esoscheletro indistruttibile, e ne conosciamo in anticipo la direzione. C’è l’assenza della pelle, la cara debole fragile pelle che avvolge e non protegge, elastica e profumata o screpolata e nauseabonda. Manca la sensazione che quella pelle di acciaio, titanio, oro (insomma fatta di quel materiale magnifico che rende Iron Man invincibile) sia addosso al tuo sguardo, soffochi la tua mente, ti bruci addosso o ti geli, ti trasmetta il dolore o il prurito. Per fare questo le linee rette avrebbero dovuto lasciar spazio alle curve imprevedibili, le spiegazioni al mistero, la certezza al terrore, la sicurezza alla speranza. Nessuna bisettrice sulle immagini ma solo l’immagine, unicamente ciò che la vista vede o crede di vedere, la triste desolazione del male fatto per il quale la speranza di salvezza risiede nel tentativo di aiutare (e non si sa contro chi o per chi) sapendo che si fa perché non resta altro da fare. Queste emozioni di un’intollerabile distanza dal mondo, queste sensazioni dell’inutilità dello sguardo (e della sua assurda presenza pur nell’assenza) avrebbe potuto ricondurci non al punto di vista del regista, ma al punto di vista di un’istanza astratta, incoerente e incapace di correggere l’accaduto.

La placenta. Rientrare nel grembo significa mostrare l’Interno attraverso l’Aperto, ossia mostrare l’interno del guscio per vedere dal Dentro l’esterno, e far sentire il dolore e il piacere come se non fosse l’eroe a sfrecciare lungo la vita ma la vita ad attraversare l’eroe. In altri termini: rientrare nel liquido e soffocare per scoprire che la nascita (la lunga sequenza in Afghanistan dell’incipit) è un atto doloroso, è un emergere nel mistero, è un abbandonare non un ritrovare. Iron Man è sempre esistito e Tony Stark l’ha trovato tra le rocce aride dell’Asia, negli sguardi smarriti delle vittime, nelle morti assurde e nell’ipocrisia buonista di chi “controlla” (i jet americani) per abitudine. Chiudersi nella placenta è un chiedersi perché farlo, un esporsi e un esprimere, un capire per carpire. Insomma un conto è dire “stasera sono triste” ma tutt’altro è dire (citando Ungaretti): “Balaustrata di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia”. In un caso domina la certezza del Bello, del Bene e del Vero, dall’altro l’angoscia di sapere che il Bene gioca a scacchi con il Male, che il Bello diventerà Brutto, e il Vero è l’altra faccia del Falso. Iron Man è un bellissimo film di ringhiere ma avrei preferito un modesto film di balaustrate.

17 maggio 2008

Van Gogh e il colore come soggetto

Il colore, in cinema come in pittura, secondo me, può e deve uscire dal contorno, esaltarsi al di là della trama per mostrarsi come simbolo di un valore (o di un senso ulteriore) che durante la visione si afferma come espressione autonoma di un certo modo di sentire, di esprimere, di amare. All’Aja, nel 1882, Vincent Van Gogh incontra la prostituta Clasina Maria Hoornik, detta Sien, una donna alcolizzata. Decide di prenderla in casa con sé e di farne la sua modella. La donna è incinta, con il volto devastato dal vaiolo. Ha la sifilide. Ma Van Gogh vede sul suo volto, sul suo corpo, i segni del dolore e delle avversità che le ha lasciato la vita, e per questo vede la bellezza di questa donna sfiorita e ne decide pertanto di farne la sua modella. Ma decide anche di sposarla. I familiari non accettano la scelta e vorrebbero far interdire Van Gogh. L’artista infine, nel 1883, lascia Sien avendo perdute le speranze di redimerla. L’amore per Van Gogh è sofferenza, ossessione. Rifiutato più volte dalle donne, frequenta prostitute, desidera donne che non lo ricambiano. Quando si innamora di Kee, e lei da Etten fugge ad Amsterdam, Vincent la raggiunge, ma i familiari gli impediscono di incontrarla. Van Gogh allora mette le dita sulla fiamma di una lampada e chiede di vederla per lo stesso tempo che riuscirà a tenere la mano sul fuoco. Dipinge il corpo avvizzito di Sien (Sorrow) come dipingerà nel 1885 la deformazione dei Mangiatori di patate. Il realismo in Van Gogh è già “espressione” della deformazione:

Il mio grande desiderio è imparare a fare delle deformazioni, o inesattezze o mutamenti del vero; il mio desiderio è che vengano fuori, se si vuole, anche delle bugie, ma bugie che siano più vere della verità letterale. (1)

A Parigi arriverà soltanto nel 1886 dove conoscerà gli Impressionisti che in parte influenzeranno la sua pittura. Ma il realismo degli Impressionisti è al declino. Il momento d’influenza infatti sarà breve. Del resto Van Gogh è per un'arte che deve esprimere la profondità delle cose, la sostanza e non l’apparenza della realtà. L’amore quindi come espressione, come deformazione, come sostanza che scava nel profondo. Quando comincia ad usare il colore e i suoi quadri perdono i toni grigi e seppia dei primi tempi, non riprende il colore naturalistico degli impressionisti, ma un colore che si fa metafora di sofferenza, di follia, poiché deve esprimere le passioni terribili degli uomini. Nella sua ricerca continua sull’espressività del colore, la pennellata si allunga, si fa più densa, quasi come se il colore tentasse di farsi forma, di essere soggetto del quadro di per sé. La discesa all’inferno di Van Gogh, per certi aspetti è simile a quella di Rimbaud. «Come Van Gogh, Rimbaud aveva visto distruggere ciò in cui credeva. Anch’egli aveva avuto un sogno di redenzione […]»(2). Si tratta di dimostrare che la redenzione passa attraverso l’espressione più intima dei propri mezzi, attraverso la sperimentazione delle proprie passioni. Gettarsi nell’inferno della solitudine, della disperazione, dei “paradisi artificiali” per trovare il paradiso della conoscenza. «Al posto di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo dei colori arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte» dice Van Gogh. Vincent costruisce sui suoi sentimenti, tra cui l’amore, l’espressione della propria follia, della follia del mondo, che è folle proprio perché incomprensibile. Per questo la follia passa anche attraverso la categoria dei colori, che per Vincent è il giallo ( «[…] è pur vero che per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate, è stata pur necessaria un po’ di esaltazione »). Gialli (ma anche rossi) sono i candelotti di dinamite che ad esempio Ferdinand si arrotola sul volto in Pierrot le fou. Quasi il colore esce dalla forma, facendosi esso stesso forma, portatore di un senso, della follia che fuoriesce dall’urlo di Pierrot. Nel Vaso con dodici girasoli la tonalità gialla che domina, metafora del divino e del sole, della luce stessa, prende una sua consistenza; la pennellata è densa, corposa, applicata con una tecnica a cellette tipo mosaico, dando l’impressione di voler dominare la forma del vaso con i girasoli, di essere essa stessa il soggetto del quadro. La «[…] grana grossa del colore contrasta con la forma, con la struttura dell’opera; fa emergere in primo piano la materia della pittura, rispetto ai concetti e alle forme »(3). Quindi l’amore, la follia, la disperazione sono il colore stesso. Il colore si fa soggetto e può anche farsi sentimento. Il sentimento che si fa corpo, l’atto dell’amare che s’incarna nell’attimo, qui è il corpo che si fa sentimento, che esprime la follia di un mondo incomprensibile e inverosimile. «Ho cercato di esprimere col rosso e col verde le terribili passioni degli uomini » dice Van Gogh. Il colore ha per lui una capacità di persuasione autonoma: «Nel mio quadro Caffè di notte, ho cercato di esprimere come il caffè sia un luogo dove ci si può rovinare, diventare folli, commettere un delitto. Infine io ho cercato con dei contrasti di rosa tenero, di rosso sangue e feccia di vino, di dolci verdi Luigi XV e Veronese, contrastanti coi verdi-gialli e i duri verdi-blu, e tutto ciò in un’atmosfera di fornace infernale, di pallido zolfo, di esprimere qualcosa come la potenza delle tenebre di uno scannatoio».

(1) Riprendo questa e le seguenti citazioni di Van Gogh da: M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento (1986), Milano, UEF Feltrinelli 1997(30), p.32. Comunque l’epistolario di Van Gogh è stato pubblicato in Italia dalla Silvana Editoriale d’Arte, Tutte le lettere di Van Gogh, Milano 1959.

(2) M. De Micheli, op. cit., p.33

(3) S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p.46

14 maggio 2008

La zona (Rodrigo Plà, 2007)

“Io penso che l’uomo si erga necessariamente contro se stesso e che egli non possa riconoscersi, non possa amarsi fino in fondo, se non è oggetto di una condanna” (Georges Bataille, La letteratura e il male, SE p. 37).


La sequenza più forte, ove la tensione drammatica raggiunge il suo apice, attesa sin dall’incipit, è arrivata puntuale, prevista. Sotto questo aspetto niente di interessante, film ineccepibile, ma prevedibile almeno nella scelta del risultato. L’epilogo, l’ultima sequenza, ripensandoci, ha attenuato il senso di prevedibilità che avevo intravisto. Infatti il doloroso pugno nello stomaco non è stato sferrato dalla rabbia insulsa di quei “bravi” cittadini della middle class messicana, ma al contrario dalla vita rassegnata degli infimi abitanti degli slum o delle fatiscenti case popolari, una vita senza futuro, relegata ai margini della storia dal film di Rodrigo Plà. La zona è un limbo di “perfezione” che non afferra il contesto culturale dello sguardo sul mondo, non collabora con la ricerca del dolore che riposa nello sguardo di un ragazzino di sedici anni, colpevole solo di avere oltrepassato un confine. L’epilogo che ci riporta all’incipit sancisce l’inestinguibile potenza del bisogno di male che neppure il Cinema può estirpare. Secondo Bataille il Male può essere colto solo attraverso la rarefazione del Bene. Ossia la meraviglia e il piacere inesprimibile della felicità è tale proprio perché la felicità è cosa rara. Se fosse una qualità standardizzata della vita, sarebbe un giocattolo ignorato. La zona non è un luogo idilliaco proprio perché la rarefazione del Bene e della giustizia scivola lungo le mura ripiegandosi e inclinandosi verso le squallide baracche dei diseredati. La zona è un bubbone imploso da tempo nelle menti dei suoi abitanti. Per questo è la storia di una disperazione riflessa, è l’allarme suonato la notte dal fischietto di un bambino o l’alt intimato all’auto per fare attraversare una scolaresca se il fischietto è suonato di giorno.

Il problema mi sembra più che altro da ricercare nella diegesi. Voglio dire che quel blocco di “bellezza classica” che segue i canoni innati dell’immaginario non è pertinente. La bellezza è un concetto troppo evanescente e appartiene a tutte le culture e a tutte le epoche e pertanto non può essere inquadrata, coordinata, strutturata. Non è la prospettiva, non è l’armonia delle forme o delle sequenze assemblate seguendo un certo ritmo o una certa “logica” dell’autore. O per lo meno non è solo questo ma anche altro. Il quartiere dei benestanti è uno sguardo immoto di coerenze logiche imposte. E lo dimostra il fatto che per destrutturare questa nave in bottiglia è stato sufficiente un cartellone caduto sul muro, in modo da aprire un varco. La bellezza secondo me sta nel varco aperto, nel passaggio, nel movimento in fieri dei disperati che “invadono” o penetrano nella sequenza sbagliata, nel tentativo di destrutturare il concetto mentale, difficile da corrodere, di Bellezza. La zona è un film sbagliato (non il film di Plà ma il quartiere perbenista e infestante) che purtroppo reagisce all’azione “destrutturante” del taglio, al dolore provocato dal tentativo di montare un altro film. La mente cerca invano di capacitarsi, di resistere all’azione corrosiva del materiale ridondante che si accumula nelle immagini, che penetra negli interstizi squassando le comode consapevolezze, abilitando il germe infestante dello sguardo allungato sul multiverso. Non un universo quindi, ma un agglomerato casuale di universi. Il cinema può solo assemblare, coagulare, mostrare la sua stessa incapacità di formare la differenza, evidenziare l’innocenza di un’immagine ripresa da una telecamera di sorveglianza, una innocenza che però trova la sua eterna dannazione nella rielaborazione ecfrastica del Condominio. L’odio per la differenza porta a idealizzare un’armonia anomala di forme precostituite che il filmico non può sostenere (certo cinema purtroppo sì), porta ad avere paura e la paura è la strada maestra che trascina nel gorgo atrofizzante della superficie. In questo caso sarebbe stato possibile allentare e scolorire la funzione mimetica dell’ékhprasis (il racconto, le descrizioni delle immagini?) per lasciare andare alla deriva il medium visivo (il quartiere dei benestanti, i loro volti, i loro sguardi, come altre possibili scelte iconiche?) Il tentativo c’è stato eccome (lo facessero molti registi italiani!), ma non è stato dirompente o almeno non abbastanza penetrante, perché, a parte molte sequenze ormai scontate (l’effrazione, il conformismo, il poliziotto corrotto e altre che non sto a citare), l’eversione forse non era da ricercare nella manutenzione dell’ordinario (le case pulite e lussuose, le siepi, le strade vuote…) ma in una maggiore capacità di elargire immagini di fuga, di libera circolazione mentale. In altri termini l’immagine in cui si vede Alejandro fuori dalla zona intento a mangiare davanti a un chiosco, pur essendo illuminate ed emozionante, non mi ha abbagliato o accecato come avrebbe dovuto. Forse perché ha solo abbozzato un anelito alla libertà o ha elargito una misera consolazione o speranza. Ma nel mondo la speranza esiste. È invece nella zona che non è mai esistita mentre la fuga delle immagini (come la Bellezza in fieri) forse poteva continuare all’interno della Zona. Ossia nessuna informazione (ad esempio la luce) può uscire dall’orizzonte degli eventi (superficie di un buco nero): questa è la nostra intima dannazione. Un film bellissimo, peccato perché poteva essere un capolavoro, o quasi.

9 maggio 2008

Il treno per il Darjeeling (Wes Anderson, 2007)


Da Wes Anderson non c’era da aspettarsi altro, nient’altro che questo ossia il nient’altro. Togliendo dal cast attori principali che finiscono col perdere il treno, togliendo la storia dell’Hotel Chevalier (uscito dal film e tras-formatosi in corto), togliendo una madre che fugge dal cinema per cercare il mondo, non rimane nient’altro che un treno come set (parziale), una donna indiana come apparato linguistico e metafora del sesso, tre bambini che scivolano nelle rapide di un canale (alter ego dei nostri e metafora del “fanciullino” assopito nel nostro cuore), una tigre mangia uomini solo nominata (ma citata nel “sogno ferroviario”) e il ricordo di un funerale smarrito dai tre fratelli per spingere una Porsche che non vuole partire. Nient’altro, cioè quello che rimane del film: uno splendido respiro di sguardi e silenzi, di immagini e colori, profumi citati e sigarette fumate, telefonate e un po’ di sesso nel bagno del treno. Quindi ogni cosa. Spandendo immagini di perdite, o timore della perdita, nello svolgersi del percorso insignificante del treno, Anderson intraprende una sua ricerca encomiabile, trattandosi di mostrare l’Esserci (1) attraverso la decurtazione degli oggetti. Per arrivare al culmine del montaggio, superare gli ostacoli e i pericoli di un film che poteva essere il solito cliché, ha scelto la difficile strada dell’evanescenza. Niente consiste nel film, ma tutto insiste. Consistenza ossia sopravvalutata aberrazione del récit, confusa ricerca del messaggio sublimato attraverso un percorso e un arrivo o un suo fallimento, oggetti come icone mediatiche e/o religiose, la donna come frutto e sintesi di curve e aspartame, la morte come perdita drammatica e spesso risolutrice, la religione come ascesi a cui aspirare ed espi(r)are, l’amore fraterno attraversato dal ricordo trasmesso attraverso il flash-back o il “profumo” storico degli oggetti (le valige, la cintura?). Un film con questa consistenza avrebbe potuto trasferire il flusso emozionale su un piano conforme, dissimulato, già atteso e inconcludente. Forse proprio per questo Anderson preferisce correre il rischio di perdere il flusso della comunicazione togliendo tutto quello che definisce una storia. Insistenza ossia reiterazione continua della rottura e della fuga, dell’abbandono e della assenza di una ricerca. Tentativo riuscito di rendere fragile l’evento attraverso la sua mise en abyme ossia attraverso la sua rappresentazione linguistica. Intendo dire che Anderson restituisce una storia non assoggettandola ai canoni classici di un naturalismo ormai logoro e obsoleto, ma filtrandola attraverso la sua rappresentazione linguistica proprio perché per il linguaggio non è possibile raggiungere i fondamenti del reale in quanto ogni linguaggio si riferisce sempre ad un altro linguaggio (Decostruzionismo) e così all’infinito (Effetto Droste). Nell’impossibilità di “definire” linguisticamente gli eventi i tre fratelli scelgono la via “ascetica” seguendo un percorso non geometrico (anche l’ascesi classica crea problemi) ove si mescolano religione (i riti con le piume) e superfluo (l’acquisto di un serpente velenoso), sofferenza (il villaggio indiano che piange un suo figlio morto) e sesso (Jack e Rita nel bagno del treno), dono (la cintura) e furto (gli occhiali e il rasoio del padre). Ma la loro ricerca (ammesso si tratti di una ricerca) non sortirà alcun effetto. In fondo l’attante apparentemente causa del loro percorso, Patricia, abbandonerà il monastero (e il monastero non sarà quindi un porto dove far riposare anima e corpo, ma solo una tappa impalpabile). La madre che fugge è in fondo un rimandare all’infinito il “mito” della fuga dal reale (dell’impossibilità di aderire al reale) dei fratelli “fuggiti” dal funerale del padre, dal funerale del piccolo indiano, dal treno per il Darjeeling (facendosi buttare fuori), dalle rispettive mogli. Riassumendo, come il linguaggio rimanda sempre a se stesso, nell’impossibilità di definire la realtà o perlomeno di sussumerla e/o assorbirla, così Il treno per il Darjeeling non è il tentativo di descrivere una storia e un continente, ma la presa di coscienza che le immagini e le inquadrature non possono che restituirci la loro stessa presenza, o meglio, il loro stesso peso fisico. Questa fisicità concreta, pesante, ingombrante, non essendo presentabile (proprio perché non vi è nessuna tesi da sostenere, nessuna immagine da omologare, nessuna storia da raccontare) viene continuamente rimandata, rinviata, non processata. In fondo abbiamo perso tutti quel treno immaginario insieme a Bill Murray e se avessimo dovuto prenderlo non sarebbe servito a niente perché poi comunque anche un treno può perdersi (il treno non arriverà mai alla stazione di La Ciotat) e una madre ritrovata può nuovamente “essere smarrita”. Gli stessi volti dei tre fratelli sono in fondo pezzi persi e rimontati per garantire almeno la “presenza” di tre personaggi; infatti mentre il volto di Francis è palesemente incollato come una sequenza filmica con le sue fasce e i suoi cerotti, creando una maschera che però assume nel corso del tempo (filmico) una sua identità (e quindi purtroppo anche il "posticcio" viene normalizzato), il volto di Peter, apparentemente più regolarizzato, è celato da un paio di occhiali appartenuti al padre e ancorati a questo volto ideale (sono occhiali da vista che impediscono di vedere bene) che non ha bisogno di adottare alcun sguardo. Infine il volto di Jack (sua maschera naturale), appartiene all’unico personaggio che apparentemente ha avuto il coraggio di non nascondersi anche se i baffi gli sono cresciuti dall’ Hotel Chevalier in poi. Film che segna l’annullamento del referente, proprio perché il mondo non si dà nella sua immediatezza ma solo attraverso la mediazione della lingua, e che mostra l’esegesi di questa impasse. Voglio dire che il film mi è piaciuto perché è come se il cast non dovesse mai comporsi, come se gli attori preferissero rimanere chiusi nei camerini per non mostrarsi, come se l’India che scorre ai lati del treno (il treno è fermo ed è il paesaggio che scivola via ai lati) stesse sempre sul punto di essere scelta (scelta degli esterni in cui girare) senza mai essere assemblata nelle sequenze.

(1) Per Heidegger l’uomo possiede una sua idea del mondo precostituita, quindi se la scienza è in crisi lo è perché l’uomo non è più capace di riflettere sulla base della scienza stessa. Pertanto l’uomo per comprendere il mondo deve riflettere, interrogarsi sul concetto di “essere umano” che è presupposto di ogni ricerca scientifica (primato ontologico). Ma per comprendere l’essere ogni "esistente umano" deve prima comprendere l’essere in sé (primato ontico). Heidegger, Essere e tempo.

7 maggio 2008

In amore niente regole (George Clooney, 2008)

In amore niente regole mi sembra un omaggio alla screwball comedy (sottogenere della sophisticated comedy) che fiorì soprattutto negli anni trenta inaugurata da Accadde una notte, indimenticabile film di Frank Capra con Clark Gable e Claudette Colbert. Il genere (o sottogenere) ebbe vita lunga esaurendosi solo (almeno per quanto riguarda questo primo periodo) all’inizio degli anni quaranta, in piena seconda guerra mondiale. Naturalmente le situazioni tipiche della screwball comedy si ritrovano anche in epoche posteriori e in film divenuti veri e propri cult come ad esempio A qualcuno piace caldo di Billy Wilder. La trama di queste commedie riprende gli stilemi tipici della commedia sofisticata inserendo situazioni bizzarre e incredibili ove spesso un uomo e una donna si incontrano/scontrano prima di innamorarsi e sposarsi. Spesso i due personaggi principali vivono una situazione conflittuale e devono intraprendere un percorso di redenzione e formazione incontrando avversità di ogni tipo, anche drammatiche, ma comunque sempre “divertenti”. I dialoghi conflittuali della coppia sono raffinati e colti e producono una sorta di comicità della parola mai volgare. I diverbi, lo scambio di frasi brevi e pungenti, si trasformano in uno “scontro” col fioretto in cui i due protagonisti/antagonisti cercano di colpire l’altro per fare del male mentre finiscono per innamorarsi del “contendente”. Anzi, nella screwball comedy, l’uomo e la donna sono innamorati sin dal primo momento. Il raggiungimento del loro sogno (come compenso per il coronamento delle loro peripezie) si concretizza con la proposta di matrimonio da parte dell’uomo e nel convolare a giuste nozze in un finale frizzante e caleidoscopico in cui succede di tutto e di niente. Ogni aspetto semantico di questo genere di film è finalizzato all’happy end e al bacio risolutore. Anche i personaggi secondari (vere e proprie macchiette) contribuiscono con le loro bizzarrie, e/o acrobazie ai limiti dello slapstick, a riempire i vuoti del film. Insomma screwball comedy significa raffinatezza, rapidità, eccentricità, amore, “superficialità” apparente dei personaggi, e secondo me anche ciclicità degli eventi. Formalmente la screwball comedy supera la perfetta classicità di “superficie” della commedia sofisticata iniziando una lenta ed inesorabile erosione del regime degli sguardi tipico di commedie quali Pranzo alle otto di George Cukor, mantenendo gag e location della slapstick comedy (poco rispetto leggi fisiche e riprese in esterni o interni camuffati da esterni). Con questa lunga digressione ho inteso affermare che In amore niente regole è un gradito e gradevole omaggio a questo tipo di cinema, in parte anche riuscito, perché in effetti Clooney ha saputo trasportarci nell’ambientazione e nel clima tipico della screwball. In altri termini il film non è un “ritorno nostalgico” ai tempi passati (nascita del football professionistico, prime donne che tengono testa agli uomini, arrivo delle regole, fine dell’era dei pionieri e nascita dell’era dei burocrati) ma è uno sguardo divertito e nostalgico intorno a un certo grande cinema che segnò un’epoca e influenzò tutto il cinema a venire. Da questo punto di vista niente da eccepire: film riuscito, location ricostruite minuziosamente (vedi l’ufficio del giornale o lo stadio di Chigago), dialoghi precisi, interpreti perfettamente in grado di “mimare” lo slapstick dei grandi attori degli anni trenta e capaci di innestare la guerra tra i sessi tipica di queste commedie. Purtroppo l’operazione mi sembra riuscita sola a metà per almeno tre motivi.

Insolvenza del tempo (e delle tendine). Il tempo è come plastificato, coagulato nel suo stesso presentarsi allo sguardo. Mi rendo conto (vedi la tonalità seppia della fotografia) che Clooney abbia voluto ri-costruire più il cinema del mondo rappresentato, ma ad ogni modo il mondo prevale (il cinema invece pur nella sua ossessiva presenza non mostra i propri deittici) e prevale un mondo-cartolina trovato in una bancarella di antiquariato. Neppure le foto in bianco e nero che stigmatizzano l’eccesso del colore (nella memoria storica dell’epoca soccombe al bianco e nero) riescono a sollevare lo sguardo (nel senso di creare sollievo) proprio perché l’immagine patinata assorbe i profumi dell’epoca (e del cinema d’epoca). Forse con un po’ di coraggio in più (ma nel ’27 non c’era ancora l’ottimismo del New Deal e forse si respirava già la pesantezza minacciosa della grande crisi?) ossia ampliando le sequenze della sofferenza (la trincea, la miniera, il campo da arare qui ridotti a semplici inserti) a discapito di altre (le lunghe partite di football, il giornalista assenteista, l’eccessiva lunghezza della fuga dal bar clandestino, la "scazzottata"), avrebbe reso meglio il caos dell’epoca (dove poter innestare la bizzarria della screwball). Le tende dello scompartimento della cabina letto sono siparietti consumati che vengono aperti da Dodge e da Lexie spesso inutilmente senza risolversi almeno in una dissolvenza. In Accadde una notte (non voglio paragonare i film ma solo fare esempi) la coperta sulla fune tesa che divide i letti di Peter ed Ellie diventa "le mura di Gerico" ossia una tenda simbolica che divide come un muro l’onorabilità della donna. Ma le mura di Gerico crolleranno trasformandosi in metafora dell’amplesso (il Codice Hays non l’avrebbe permesso) fungendo anche da strabiliante dissolvenza. Qui non crolla niente e anche se non si vede il sesso esplicito (per rispettare la metafora dei tempi) è anche vero che il Codice Hays non esiste più, ma nel film sembra mancare questa “presenza”. In altri termini l’arrivo delle regole nel football non sottolinea a sufficienza le regole già ferree dei rapporti interpersonali e sessuali tra maschio e femmina: il sesso nei film d’epoca della screwball comedy era ovunque, lo si respirava in ogni scena anche se contenuto dal codice. L’arrivo delle regole è sulla superficie della trama mentre Clooney avrebbe potuto inserirle sullo sfondo come un affanno o un respiro pesante che cerca di coprire ciò che non potrà mai, ossia l’amore e il desiderio di amare. All’epoca il bisogno aguzzò l’ingegno, qui il non-bisogno persiste nell’immagine senza trasformarsi in bisogno mentre l’ingegno rimane bloccato sulla superficie di tanta bellezza patinata. La debolezza del film è riassunta nel percorso del sidecar guidato da lui mentre lei lo stringe da dietro. Non c’è la metafora del bisogno e neppure una citazione precisa e forte che ci avverta che dietro quella collina faranno l’amore.

Sguardo dirottato dal contesto. Nei film screwball, anche se il centro dell’attenzione era rivolto ai due interpreti principali, si sentiva l’alito della folla dietro ogni immagine. Qui invece lo sguardo viene continuamente deviato, allontanato, rimandato, rinviato alla sequenza seguente perché la sequenza che precede si chiude con moine o smorfie preconfezionate che non restituiscono il sapore dei film d’epoca. Ad esempio la strada è troppo poco curata. Sulla strada viveva un popolo con i suoi problemi e i suoi desideri. Nel film si vedono solo stradine di campagna e le folle non percorrono niente. Gente che si sposta in cerca di fortuna. Ma all’epoca non andavano tutti a Hollywood? Forse mi sbaglio? Accadde una notte ad esempio è on the road mentre In amore niente regole è tutt’al più open field (con fango).

Distanza dal significante. Tra una gamba e un pollice verso l’alto cosa serve per fare l’autostop? In accadde una notte Ellie mostra una gamba e l’automobile si ferma. Peter con il classico gesto del pollice non riesce nell’intento. Parti del corpo che bloccano il movimento meccanico mentre altre non lo fanno. Dov’è la magia? Nella mente di chi aziona il meccanismo, nella mente dello spettatore che aumenta l’attenzione quando vede una parte di corpo più intima, quando le forme si avvolgono e si sviluppano intorno alla parola data, all’evento desiderato. Il cliché del pollice invece non interessa, troppo abusato, troppo utilizzato. Non mi fermerò mai pensa l’autista-spettatore di Accadde una notte. Invece In Amore niente regole il fluido magico non scorre tra i corpi se non forse nella bellissima scena del ballo nel bar clandestino dove per un attimo la sensualità e i profumi prendono il sopravvento.


5 maggio 2008

Gone baby gone (Ben Affleck, 2007)

Un film che funziona, perché quando si ha il coraggio di affrontare i propri mostri che vivono nei sintagmi mentali, quando il regista riesce a carpire la puzza che accompagna i profumi, allora il film non può che crescere giorno dopo giorno, svilupparsi e attecchire. Gone baby gone, opera prima di Ben Affleck, funziona. Le immagini scivolano sulla retina in un crescendo imponderabile, le sequenze avvolgono e scombinano le aspettative. Insomma le mie aspettative diegetiche sono state tradite sequenza dopo sequenza, immagine dopo immagine. Colpi di scena in un continuo crescendo e rivelazioni repentine inserite nel mezzo di un magma di immagini statiche sono mostrati per farci assorbire lentamente la salsa piccante dell’epilogo. Tanta precisione e cura dei particolari svanite nei momenti di massima drammaticità. Lo Spannung evapora in un attimo, nella parvenza di una visione che Affleck stesso pare non avere avuto il coraggio di mostrarci del tutto, ma che in realtà penetra in noi con una forza superiore ad un “mostrato” eccessivo. In altri termini, la capacità di questo “esordiente” consiste nel tessere il dramma con lentezza e parsimonia fino al momento della massima tensione (Spannung), fino al momento in cui non è più possibile mostrare l’evento, pubblicare l’immagine, perché troppo intollerabile. Qui sta la differenza tra calligrafismo e forza interiore dell’intollerabile. Soffermarsi a mostrare l’oscenità di un corpo spento (sia esso sguardo del carnefice o ghigno violato della vittima) avrebbe cambiato il livello espressivo del film trasformando il plot e decostruito l’ordito tessuto con tanta fatica. Al contrario la capacità di scivolare velocemente sulle immagini dell’angoscia, quasi gettandole via con ribrezzo, ha formato la forza indelebile dell’intollerabile, di ciò che nascondiamo in noi stessi e che ci rifiutiamo di evocare. Insomma, lo Spannung è stato preso e gettato via come burro rancido, rifiutato, annullato. Per questo il film mi ha sconvolto dal dentro, scardinando le mie aspettative. Stesso discorso per l’atipico epilogo, una chiusura sul vuoto e sulle possibilità del testo. In effetti l’epilogo non è una soluzione, non garantisce certezze, né elargisce premi o esegue punizioni, non indica strade da seguire. L’epilogo è la debolezza assurda e inspiegabile del motivo per cui siamo costretti a badare i nostri timori. Non voglio fare spoiler, ma l’epilogo mi ha ricordato ciò che non voglio ricordare mai, ossia il motivo per cui devo fare un favore a chi non gliene frega niente se gli faccio un favore. Ma il mio piccolo sacrificio si colloca nell’adesso dell’epilogo oppure verrà reiterato per gli anni a venire finché la speranza sarà realizzata? (Qui dovrei essere più esplicito ma chi ha visto il film capirà sicuramente cosa voglio dire). Affleck non ce lo dice, non per mancanza di risposte (e a dire il vero non ho interesse per la sua visione del mondo), e se le avesse sarebbero le sue, non le mie, né quelle di altri. Affleck non ce lo dice perché non vuole apparire, cercando al contrario di eclissarsi nelle pieghe delle immagini, senza spiegare (nel senso di allargare e svolgere le immagini per guardare in profondità), ma limitandosi a mostrare l’imponderabilità degli eventi e la mancanza di senso del mondo. Non c’è un’indagine psicologica, ma c’è la capacità di saper cogliere ed estrarre dal tessuto caotico del profilmico l’essenza delle cose. Ciò che mi emoziona non è il rapimento di una bambina (di per sé il rapimento è un evento che indigna e che dimentichiamo un secondo dopo aver buttato il giornale), ma è l’assurdità intollerabile di questo evento e l’inesplicabile assenza di un’equazione che assegni un valore all’incognita. Il fatto è che l’incognita rimane tale. Dall’inizio alla fine, e il sacrificio di Patrick Kenzie potrebbe anche essere parziale. I suoi propositi, il suo operato è stato ineccepibile? Patrick è il bene o invece è solo un rompiscatole che allinea comodamente il suo pensiero alla lunghezza d’onda di una giustizia prefabbricata e codificata (e quindi incapace di cogliere lo sguardo assente e disperato di chi ama e sa che non ha potere nei confronti del male)? Affleck sa benissimo che si parte dalla legge, si costruisce la trama e tutto il sistema dei personaggi, nonché il rapporto con l’interlocutore (lo spettatore ideale) facendo leva sullo status quo dell’ordine precostituito (il concetto di realizzazione di film e di prodotto finito come standard dell’immaginario collettivo). La legge (aleatoria ma non tanto) presuppone che il film sia fatto in un certo modo (equilibrio, etica, rispetto, regole del montaggio, ecc.), ma c’è anche qualcosa che può andare in parte o del tutto contro la legge e non è detto che sia il male, anzi, a volte il coraggio di infrangere almeno alcune regole (rischiando) può, anche se per poco, smuovere l’intero codice e forse (anche se non è il caso di Gone baby gone) far crollare l’intero sistema. Insomma ritrovarsi a fare il baby sitter non è narrativamente un’aspettativa incoraggiante (come non lo è essere lasciati da una donna bellissima come Angie Gennaro), ma è invece un prezzo da pagare perché applicare la legge del montaggio standard di una certa epoca cinematografica richiede almeno che chi ha avuto il coraggio di fare questa idiozia (cosa abituale per tanti registi specialmente italiani) abbia anche la capacità di regredire e nascondersi nell’anonimato di un lavoro umile. Con questi presupposti Affleck potrebbe davvero diventare un grande regista. Un film notevole.

2 maggio 2008

L’Aleph e l’occhio - il cinema di Peter Greenaway (3/3)

Morte

La narrazione è una costruzione artificiale con inizio, centro e fine. Si basa su qualcosa che non esiste. Penso che l’unica chiusura delle vita sia la morte, ma sappiamo che la morte ricrea la vita. C’è un continuum in cui non si può interferire. Per questo il concetto di narrazione nella vita è artificiale. Molte opere di Shakespeare finiscono con la morte dell’eroe. Questo porta al concetto di chiusura di una serie di circostanze, tu devi solo provvedere all’apertura per la vita successiva. “Il ventre dell’architetto”, il mio film sull’architettura a Roma, ne è un ottimo esempio. Quando l’eroe, o l’anti-eroe, per suicidarsi si butta dal palazzo di Vittorio Emanuele a Roma, riesce quasi a vedere, è una cosa molto artificiale e melodrammatica, la nascita di suo figlio. Serve a indicare la continuità.

Numeri

“...Cominciate a contare per 3. 3, 6, 9... – Cosa fanno? – Contano...”
Molti anni fa, ho fatto un film in cui tutto era contenuto nel titolo. Il titolo era “Giochi nell’acqua” (“Drawning by numbers”). La situazione era...diciamo... La progressione narrativa era semplice, basata sul numero 3: 3 donne, 3 eventi, 3 avventure. Ma era circoscritto da un conto numerico che ti ricordava sempre che stavi solo guardando un film, che il tempo e gli eventi stavano passando, il film è costruito semplicemente. Ha un prologo, 3 atti e un epilogo. 3 storie in una, ognuna si sovrappone a quella precedente. Ha la forma di una lunga e lenta spirale le cui spire contengono le stesse sequenze di eventi: 3 annegamenti, 3 autopsie. “...Potrei tentare di rianimarlo anche adesso...Mi piace la morte naturale. La morte è mai naturale?..” 3 funerali. “...Molte cose muoiono di morte violenta, continuamente. Siamo tutte insieme qui, non c’è bisogno di segreti... Apprezzo le vostre attenzioni, ma dovreste pazientare un pò...” E 3 conti da pagare o piuttosto non pagati perchè a Madgett viene rifiutata la gratificazione sessuale. “...-Preferirei essere incoraggiato a prendermi qualche libertà ora. – A me proprio non va in questo momento...- Voi donne mi avete distrutto! – Non essere melodrammatico!...” E’ una favola ironica sull’impotenza maschile contrapposta alla solidarietà femminile. Quando si arriva al numero 50, si è in mezzo al film. Così la fine, la chiusura della narrazione e del conto numerico arrivano molto chiaramente. Ho sempre creduto che il cinema avesse bisogno di forte contenuto, forte struttura e forti metafore.

Omicidio
........


Pittura

Tutti i miei primi film erano basati sulle figure nel paesaggio, una cosa che deriva dalla tradizione pittorica, soprattutto italiana, ad esempio Claude Lorraine, Poussin erano i miei eroi quando ho girato “I misteri del giardino di Compton House”. Non ho mai tagliato una figura, mi sembrava di oltraggiarle. Per questo vedrete sempre figure intere come nella pittura tradizionale dei secoli XVII e XVIII. Quando guardi i miei film, sei consapevole di come sono costruiti. Gioco con la simmetria, come Bellini e altri pittori italiani: la “Sacra Conversazione” è basata su un punto che fa da perno attorno al quale gira tutto il resto. Parlando dei dipinti del Bellini, questo sacro punto centrale sarà il Bambin Gesù o la Vergine Maria e tutti i santi saranno volutamente disposti intorno. Io voglio usare gli strumenti della realizzazione di dipinti deliberatamente, per spiegarti che sei...per farti capire che guardi un artificio. Questo riguarda il montaggio, l’uso della musica e perfino gli stili di recitazione che devi comprendere. La più grande scoperta nella pittura dal 1850 a oggi è la pittura, non come finestra sul mondo, come quella qui dietro. Ma la pittura dello schermo come superficie. Credo che il grande successo della pittura del XX secolo inizi con il cubismo di Picasso e Braque. Si pone in relazione con lo schermo o con la superficie considerandoli proprio superfici.

Quadro

Come impostare il quadro, come comunicare idee complesse con significati allegorici hanno avuto almeno 2000 anni di evoluzione. Supponiamo che la pittura occidentale sia iniziata a Pompei con gli straordinari dipinti del 60 a.C. “...The apocryphal last words of Thomas Gainsborough: “We are all off to Heaven and Van Dyke is of the company”....”
Ci sono stati 2000 anni di pratica per arrivare alla raffinatezza nella creazione di immagini.

Religione

“...La chiesa deve vigilare contro i falsi prodigi e i falsi miracoli però non deve neanche perdere l’opportunità di fare del bene. Con quel bambino puoi risanare la reputazione della chiesa e le rovine della tua caduta...”
E’ vero che sono interessato alla classificazione perché credo che la civilizzazione funziona così. Cerchiamo di organizzarci sulla base di teorie e di ipotesi per cercare di capire il complesso e straordinario mondo intorno a noi. I nostri sistemi di organizzazione sono molteplici: la religione è un sistema organizzativo, la politica è un sistema organizzativo. La nostra vita accademica, il modo di usare testi e linguaggio sono tutti mezzi per cercare di capire l’universo apparentemente caotico che circonda e per scendere a patti con esso.

Sesso

“...Le condizioni dell’accordo Mr. Noise, i miei servigi di disegnatore per 12 giorni per l’esecuzione di 12 disegni della casa con giardini parchi ed edifici annessi della proprietà di Mr. Evert. Le vedute dei 12 disegni saranno scelte a mia discrezione, tenendo conto del parere della signora. – E in cambio, Thomas, sono disposta a pagare 8 sterline a disegno. A provvedere vitto e alloggio a Mr. Mevil ed il suo servo eh...- e signora! – A consentire di incontrare Mr. Mevil in privato e a soddisfare le sue richieste riguardo al suo piacere con me....”
Esistono solo due materie principali: il sesso e la morte. Credo che la fine del XX secolo sia un momento di rinegoziazione sulla procreazione, sulla nascita e sul sesso. La politica sessuale ci ha dato libertà più ampie, il concetto di contraccezione... L’approccio alla sessualità e alla castità ha aperto molte possibilità. E’ la morte a non rimanere non negoziabile. E’ l’ultima frontiera. Sicuramente non sorprende il fato che io parli di chiusura, perdita, morte e fine. Ritroviamo questi concetti anche nelle grandi tragedie. In tutti i miei film sono stato molto interessato all’interazione dei personaggi riguardo ai comportamenti sessuali e alla morte. Ricordate che parlo sempre di sesso e non di amore. Io sono un buon darwiniano e, dato che il pensiero comune sull’evoluzionismo e sulle teorie comportamentali, dico che siano come delle valige che servono a continuare il passaggio di geni.

Storia

Le prove che riguardano la storia sono soprattutto testuali, non abbiamo fotografie antecedenti l’invenzione della fotografia. Sono tutte basate su testi e i testi sono soggettivi.

Tempo

.....Summer...Autumn...Winter....Spring.....

Uomo

“......” “M” is for men”. “...un fenomeno unto con il sangue, fatti di parti ineguali, come una cantina di sale del Cellini”

Volo

Gioco con la fenomenologia dello studio degli uccelli e di tutti gli animali del mondo naturale che hanno superato i limiti imposti dalla forza di gravità. Gioco sempre con questo tema. Ho presentato mostre in tutto il mondo sul volo, su Icaro....e per me è un’emozione continua. Uno dei miei primi film, anzi il primo, era un cortometraggio di sei minuti intitolato “Windows”. Francois Truffaut osservò che ogni regista stabilisce il suo vocabolario quando realizza il primo film. Non posso contraddire Truffaut in questo perché “Windows”... anche se non è proprio il mio primo film, è il primo che ho fatto per il pubblico e ha tutte le caratteristiche ricorrenti nei miei 200 film. Continuando a parlare di “Windows”, è basato su una serie di eventi mostrati come statistiche. E’ un elenco. L’elencazione è uno dei modi che ho usato per strutturare i miei film. Ma il contenuto è estremamente melodrammatico. Parla di una serie di persone che volevano volare e sono saltate dalla finestra di un edificio. La maggior parte delle volte il tentativo finisce in tragedia sia per la delusione di non essere riusciti a volare, sia per la caduta. La causa della gravità, hanno trovato una morte tragica sul marciapiede attorno all’edificio. Ma c’è anche un grande senso di banalità e l’ironia dello sforzo umano. Così il film, pur avendo una struttura statica e un contenuto melodrammatico, contiene anche la bellissima metafora del desiderio dell’uomo di volare, presente storicamente e geograficamente in ogni società negli ultimi 5000 anni.

Zoo

“... Così Iddio fece le bestie selvagge della terra secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie e tutti i rettili della Terra secondo la loro specie” Genesi 1, 25. Voglio riuscire a usare il cinema come mezzo di discussione di idee, su tutto, ma soprattutto sulla rappresentazione, sull’estetica e su tutta l’industria cinematografica. Mi avvicinerei alle nozioni hitchcockiane del potere, ma penso che il cinema sia molto di più di questo e che abbia molte altre possibilità. Una volta ho pericolosamente affermato che il cinema è un mezzo troppo ricco per essere lasciato ai cantastorie.