27 aprile 2008

L’Aleph e l’occhio - il cinema di Peter Greenaway (2/3)

Enciclopedia

”Vi farò un elenco di cose raffinate: Uova d’anatra. Scaglie di ghiaccio in una coppa d’argento"
Ora non pensiamo più in modo lineare, seguiamo l’immaginazione. L’era dei computer e dell' informazione ha portato a non vedere la novella come unico modello di pensiero per la costruzione delle opere. Quotidiani ed enciclopedie sono altri modelli.

Fantascienza

Quando realizzi un film storico, ti cimenti in un artificio come in “I misteri del giardino di Compton House”. Sono sicuro che anche il regista di “Cleopatra” con Elizabeth Taylor abbia avuto i miei stessi problemi.
Stavo ricostruendo in modo molto irreale. E per rendere palese questa falsità mi ero interessato ai costumi inglesi del 1690 che erano già eccentrici di per sè: larghe gonne per le donne, parrucche enormi e complicate per gli uomini. Così abbiamo spinto queste stravaganze oltre ciò che ogni prova testuale o visiva di quel periodo ci dicesse. In un certo senso, quando visitiamo il passato, facciamo la stessa cosa di quando visitiamo il futuro. Facciamo considerazioni ipotetiche e soggettive su un luogo che non potremo mai vedere di persona. È impossibile.
In “I misteri del giardino di Compton house” consideravo gli stessi sentimenti di chi faceva un’odissea spaziale, di chi sperava di visitare Proxymus o Toreye o di arrivare ai confini dell’universo con degli omini verdi.
Era una fiction che non avevo modo di provare.

Gioco

‘Con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono maggior valore’ J.Huizingo
Horror

‘ I barbari posseggono due caratteri ben precisi: un gusto esuberante che tende a disporre confusamente gli ornati o a distribuirli primordialmente con un senso di orrore del vuoto; un gusto per la decorazione lineare, in superficie’ M. Salmi

Immagine

Non c’è una coscienza o un’istruzione per la produzione di immagini. Non basta avere gli occhi per essere capaci di vedere.
Nonostante viviamo in un mondo molto influenzato dalle immagini, credo ci sia ancora un enorme analfabetismo visivo.
Nel linguaggio dell’immagine non c’è la stessa complessità che troviamo nel linguaggio testuale.
Per questo abbiamo il cinema che abbiamo. Non abbiamo visto il vero cinema, ma solo 105 anni di testo illustrato.
Suppongo che la mia missione estetica e sociologica, il mio approccio, sia suggerire che ogni operatore dovrebbe passare almeno 3 anni a dipingere o a studiare i dipinti , prima di toccare una macchina da presa. Sarebbe l’unico modo per esercitare l’occhio a osservare e guardare con cognizione di causa.

Libri

‘ In un certo scaffale di un certo esagono deve esistere un libro che sia la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri: un bibliotecario l’ha letto ed è simile a un Dio’ J.L. Borges

Luce

Siamo in Piazza Maggiore, al centro di Bologna. E come tutte le piazze italiane è circondata da edifici significativi.
C’è la cattedrale, molto importante nella vita italiana perché rappresenta le questioni ecclesiastiche.
Dall’altra parte, c’è un porticato con dei negozi, un elegante edificio del tardo XVIII secolo che rappresenta il commercio.
Su questo lato dei tavolini del bar, c’è una bellissima arcata che fronteggia un antico palazzo, che rappresenta l’oligarchia e le arti.
Da questa parte c’è il comune, luogo di politica e burocrazia.
Sui 4 lati della piazza ci sono: politica, burocrazia, arti,commercio e chiesa.
Stiamo usando questi 4 lati della piazza per proiettare immagini.
Al centro c’è una grande torre bianca con delle iscrizioni.
Una, anzi due delle cose che mi affascinano di più a Bologna è il fatto che ha 45 Km di arcate e che nei secoli XI, XII e XIII aveva più di cento torri.
Molte torri sono crollate, ma ce ne sono un paio molto importanti che rappresentano Bologna, come la torre Eiffel rappresenta Parigi.
Sono una specie di immagine archeologica, architettonica.
Cosi anche noi abbiamo costruito una torre e l’abbiamo decorata con la scrittura.
Molte persone hanno scritto i testi. Studenti, letterati, tutor non facevano altro che scrivere.
E li abbiamo usati come nostra metafora.
Usiamo la tecnologia più avanzata in 3 campi distinti: prima di tutto la proiezione di diapositive che hanno una tecnologia molto sofisticata, diventano come un film animato.
Poi la tecnologia dei video, si vedrà un video molto grande, proiettato su tutti e 4 i lati della piazza.
Infine, l’illuminazione cinematografica e teatrale. Uniamo queste cose con la tecnologia subordinandole alla colonna sonora.
Non si sta fermi in un posto, si può girare e sentire suoni quadrofonici estremamente complessi.
Muovendosi avanti e indietro cambia la prospettiva del suono.
Naturalmente si può stare in qualsiasi posizione: vicino, a media distanza o lontano per apprezzare l’interazione tra edifici, architettura e immagini.

“...Cloda Benito venne tenuto prigioniero nella torre rotonda per 15 anni, quando fu rilasciato non riuscì ad abituarsi a camminare sul suolo e vagò per le strade in uno stato di panico causato da una paura opposta alla vertigine per la quale non esiste nome..., 1922 Mussolini si impadronisce di Roma, 1933 Hitler si impadronisce della Germania, 1939 Seconda Guerra Mondiale, 1945 strage nazista a Marzabotto...”

24 aprile 2008

L’Aleph e l’occhio - il cinema di Peter Greenaway (1/3)

Quella che segue è la trascrizione dell'intervista-documentario su Greenaway curata da Massimo Galimberti

"Molti di quelli che vanno al cinema, dopo 105 anni di produzione cinematografica, si aspettano che venga loro raccontata una storia. Non credo che il cinema sia un mezzo adatto alla narrazione. Se vuoi raccontare una storia, è meglio che tu faccia il romanziere. Il fatto che il cinema migliore non sia narrativo porta a paradossi e contraddizioni di cui mi sono occupato negli ultimi 15 anni. Ma c’è un problema: se si cerca di minimizzare o eliminare la narrazione, va trovato un altro modo di organizzare il materiale, altrimenti ci si trova nell’incoerenza e nel caos. Ho iniziato come pittore, mi interessavano molto i metodi e le classificazioni. Per questo ho usato spesso sistemi diversi dalla narrazione per organizzare il materiale cinematografico. Utilizzo le classificazioni numeriche, il simbolismo e la codificazione dei colori, e sicuramente anche i sistemi alfabetici"

Acqua

L’acqua si presenta in forme diverse: come nuvole o ghiaccio, acqua stagnante, acqua di mare, come condensa... è responsabile del clima, fondamentale per la meteorologia. Influenza il modo in cui gestiamo la nostra vita quotidiana ed è legata alla nostra origine: siamo tutti nati dall’acqua, dal liquido amniotico. I nostri corpi sono di acqua all’80%, la superficie terrestre lo è per 3/5. D’altro canto l’acqua in occidente ha sempre simboleggiato la pulizia e la detersione. Nel senso metaforico: la purificazione. Entrando in chiesa, ci si fa il segno della croce con l’acqua santa. E’ la continuazione dell’idea pagana della purificazione per accadere a un luogo sacro. Quando si parte per un viaggio, si lava il proprio corpo per prepararsi...C’è un impianto a Milano che si chiama “Wash and Travel” per questo motivo. In terzo luogo, l’acqua è un elemento estremamente fotogenico. E’ affascinante da riprendere. Si riflette, brilla, contiene luce...Acqua profonda, acqua bassa, cascate, goccioline, lacrime...Le immagini diventano astratte ed emozionanti. Non ti delude mai, è sempre interessante da riprendere. Per questi 3 motivi è un elemento molto utile, una metafora straordinaria è una fonte di energia molto fotogenica. L’acqua crea anche la situazione che mi permette di esaminare il corpo umano. In fondo tutti si spogliano per lavarsi. Molte scene dei miei film si svolgono nei bagni, spazi in cui la pulizia è al primo posto.


Architettura


“...quando s’aprono le pagine di questo libro, facciate prospettive balzano fuori a tutto tondo. Vi sono modellini di vari edifici costantemente oscurati all’ombra di nuvole passeggere. Brillano le luci di notturne vedute urbane e s’ode musica dall’interno di saloni e torri....”


Sono affascinato e interessato in modo del tutto profano all’architettura di ogni epoca, soprattutto contemporanea. Forse perché penso all’antica affermazione di Vitruvio che la migliore istruzione era quella da architetto. Disse anche che costruire edifici forse era una pessima educazione perché rivelava troppo riguardo al mondo e, in certi casi, si veniva a creare una tale perplessità che faceva pensare che nessuno sarebbe mai riuscito a produrre architettura.

Artificio


Sono un regista molto razionale con una forte coscienza di sé e non mi interessano particolarmente le illusioni. Può sembrare una contraddizione perché il cinema... è per definizione un mezzo di evasione, dovrebbe dare un’illusione che permetta di fuggire dalla propria posizione geografica. Ma per me il cinema, come la pittura, è un’arte profondamente artificiale. La vita sarà sempre più interessante, più divertente più pericolosa e più emozionante di come possa apparire al cinema. Per questo credo che la cosa migliore che tutta l’arte drammatica degli ultimi 2000 anni abbia fatto, sia stato avvicinarsi alla realtà attraverso l’artificio. Prima di tutto, è più onesto. Se non puoi filmare la realtà, perché provarci? Fallirai sempre. La cosa migliore è mostrare il proprio vocabolario in anticipo. Così le immagini e il cinema che realizzo sono sempre coscientemente organizzati in modo da rendere evidente che ciò che guardi è un film. E’ un artificio, è completamente artificiale. Ha le sembianze di un mondo riconoscibile, ma è solo un costrutto artificiale. Quindi ho sviluppato un vocabolario di meccanismi che lo dimostra sempre.


Bambini

‘ i bambini giuocano/nuovissimi giuochi, noiose astruse propaggini/ del giuoco dell’Oca ‘


Corpo



“Un pò di oro, un pò di carbone. Un pò di ossa, un pò di cera.”

Forse il mio interesse nasce dal fatto che nella pittura si pone sempre il corpo al centro del quadro. Sono interessato alla corporalità, alla fisicità. In qualche modo il corpo umano nudo è senza tempo, non è interessato dagli aneddoti dei cosmetici e degli abiti nel senso che non è dettagliato. E’ una dimostrazione di sensualità, ma anche di vulnerabilità.

Cibo


“...non è il mio Albert, è Mike il mio amante avevi giurato che l’avresti ammazzato e lo hai fatto, avevi giurato che te lo saresti mangiato e adesso te lo mangi, cosa ti prende Albert? Forchetta e coltello ce l’hai e sai anche usarli bene! O tutte quelle buone maniere te le sei dimenticate...”


‘Il nostro piacere per il cibo è innestato nell’immensa attrattiva che riveste il pensiero in prospettiva di mangiare noi stessi. J.G. Ballard’

Calligrafia


Circa 4 anni fa ho realizzato “I Racconti del Cuscino” che trattava delle mie ansie su testi e immagini. Ho già detto che non abbiamo ancora visto niente del cinema, ma solo 105 anni di testo illustrato. La domanda è quale dei due venga prima: testo o immagine. Dobbiamo pensare ad un cinema basato sulle immagini, questi sono i temi che tratto sempre nei miei film. Oggi lavoriamo tutti sui computer, quindi abbiamo interrotto il rapporto speciale che c’era tra corpo, immaginazione, spalla, mano, penna e carta. Il corpo è sempre stato basilare per creare il testo e i simboli attraverso cui comunichiamo la storia e la cultura del mondo. Sicuramente c’è un prezzo da pagare per questa frattura. Ogni “R” che batti sulla tastiera sull’iMac è sempre la stessa “R”. In calligrafia, lo scrivere può rendere una “R” pigra, forte, debole, povera, evidente o meno, confusa nella nebbia o nella neve. La manifattura di una lettera “R” può essere stabilita in modo che contribuisca alla comunicazione.


Colori


“... perchè non hai portato la vernice rossa? – no, Sissì, oggi è martedì il colore del martedì è il giallo non il rosso...”


‘La luce mi sospinge ma il colore m’attenua predicando l’impotenza del corpo, bello ma ancor troppo terrestre. A. Merini’

Documentario


Ho iniziato la mia carriera facendo soprattutto documentari. Ma mi sono subito reso conto che non solo quelli in cui ero coinvolto, ma in tutto il corso della loro storia, i documentari sono convenzioni, invenzioni e in molti casi artifici tanto quanto la produzione dei lungometraggi. Ma c’è sempre la sensazione che i documentari debbano raccontare la verità, che non debbano imbrogliare, né essere ricostruzioni. Lavoravo per un’agenzia che faceva documentari e a fine anni 60 ne stavano girando uno su chi inala la colla. Ragazzi giovani che, nei negozi di ferramenta, compravano la colla con un alto quoziente di evaporazione. Sniffavano questi vapori per sballarsi. Il produttore si stava spazientendo,non otteneva buone inquadrature. Così diede a un ragazzo dei soldi per fargli comprare la colla e fabbricare le prove. Per me era troppo. Non ho più voluto trovarmi in una situazione eticamente problematica come l’industria della ricostruzione di documentari. Mi sembra vergognoso pensare di chiudere la realtà nel cinema. La mia risposta a questi problemi è dire volutamente delle bugie. Sono un regista che inventa. Il mio è un cinema artificiale che cerca la verità attraverso la menzogna. Ciò che obietto ai documentari della tradizione inglese è che vogliono far credere di dire la verità.



(le frasi tra virgolette e in corsivo, se non riportano autori specifici, si riferiscono a frasi tratte da alcuni dei film di P. Greenaway)

22 aprile 2008

Riprendimi (Anna Negri, 2008)

Quanto se ne è parlato (o scritto) e quanti film sono stati girati sulla crisi di coppia. Coppie sposate con lavoro sicuro, famiglie numerose (nel passato) o soprattutto oggi coppie di “precari”, nel lavoro come nella vita. In fondo (permettetemi questa frase banale) la vita stessa è precaria. Certo, siamo nell’era liquida (Bauman insegna) e l’amore non può fare eccezione, ma siamo anche davanti a un film, Riprendimi, che finalmente emerge (o almeno ci prova) dall’anonimo panorama dell’attuale cinema italiano. Non che sia complicato (emergere) e talvolta anche un film con qualche "difettuccio" può affacciarsi alla ribalta. Magari senza smanie di successo; per quello basta rimarcare i soliti spenti stilemi avulsi da tutto: vita, realtà, arte… cinema. Ma con la possibilità almeno di non far scomparire troppo il nostro paese, ormai, pare, alla frutta in tutti i campi. “Ogni nazione ha il cinema che si merita”, dice Greenaway. E probabilmente non ci meritiamo questo film perché è finalmente un film e perché in effetti è stato (come al solito) distribuito malissimo. Ci sono sempre davanti i soliti incubi folli e disperati (non fatemeli nominare), film che ingrossano questo interminabile tour delle insulsità quotidiane di tv, politica, cultura: concetti che una volta avevano un valore e che adesso sono biglietti della lotteria. E così tanto cinema nostrano. Non è il caso di Riprendimi che mi ha (quasi) piacevolmente sorpreso, pur nell’ostentazione dei propri limiti. Il film riesce a galleggiare grazie a un modo non originale ma curato di riprendere la vita di una coppia di “precari”nel momento in cui vivono la loro crisi. La precarietà si trasferisce così dal lavoro alla vita, ma anche dall'imago al corpus. Quando Eros e Giorgio, per indagare sul precariato giovanile, decidono di riprendere la vita in comune di Lucia e Giovanni e si ritrovano poi a dover testimoniare la “classica” crisi di coppia, innestano i loro punti di vista di documentaristi precari nello sguardo “istituzionale” del cinema (anche se indipendente e/o comunque non dilettantesco e prodotto da Francesca Neri e Claudio Amendola). Le riprese “a mano” dei due cameraman-registi, che seguono i due differenti percorsi quotidiani di Lucia e Giovanni, s’intersecano con quelle professionali e “rassicuranti” di Anna Negri. Anzi la precarietà delle riprese di Eros e Giorgio (i documentaristi fermano la mdp o finiscono il nastro) riesce a formare una stabilità “ondeggiante”, una sorta di navigazione fluida delle immagini. Quindi riprendere Lucia mentre piange per l’abbandono o mentre scaccia le “classiche” amiche (naturalmente anche loro precarie nei sentimenti e nel lavoro) o mentre tenta invano di darsi al primo che incontra in un bar, equivale a interferire nel mondo ordinato e rassicurante di uno sguardo classico (ma poi non tanto). Le immagini del cinema cercano di convincere lo sguardo del narratario (il "lettore" a cui si rivolge l'autore) coinvolgendolo attraverso certezze (riprese rassicuranti, ferme, rispettose; una fotografia pulita e una messa in scena curata; movimenti dei personaggi mai fine a se stessi), perché in fondo si tratta di mostrare un litigio, un tradimento, altre coppie che si formano, e si tratta di rappresentare il plot introducendo anche due documentaristi dilettanti desiderosi di successo. Se c’è un momento oscuro, nel quale si combinano cliché e freschezza, banalità e sano logorio dell’Immutabile, fragile possanza e debolezza inattaccabile, è da cercare in quegli attimi in cui la regia indugia nel passaggio dalla visione “documentaristico-precaria” a quella istituzionale. Lungo queste biforcazioni le storie dei nostri attanti prendono il volo, la poesia riesce a scalfire il guscio solido dalla banalità restituendoci immagini emozionanti. Allora persino la insipida e poco attraente Lucia diventa l'affascinante Rorhwacher, una donna che mostra la sua forza interiore attraverso un nuovo montaggio personale e perciò valido (proprio perché non assoggettato al luogo comune del “se non ti ama dovete lasciarvi”). Lucia (montatrice TV) ha costruito con i suoi “pezzettini” di realtà (il filmino tutto rosa e fiori dell’incipit) la sua vita presente e futura, il mondo come lo vorrebbe (ma nel sogno opera lo stesso montaggio sostituendo se stessa come attrice principale, mamma-moglie, e affidando la parte ad un’altra attrice, la nuova amante di Giovanni). Lucia entra nell’assenza di senso del reale (lo ripetono spesso i documentaristi che non capiscono più il loro progetto iniziale) solo rinunciando al montaggio preconfezionato, abolendo la sua performance immaginaria. Ma il nuovo ruolo di montatrice-amante (nel doppio senso "sceneggiato" di giuntatrice e osceno di macchina del sesso), non le si addice, perché lo scarto tra sequenza appagante e caos delle forme immonde del mondo impedisce qualsiasi allineamento. Il film riesce a mostrare benissimo questo passaggio dall’idea in vitro (1) all’epifania di uno smarrimento. La scoperta dell’assenza del senso significa dover “rimontare”, senza soste e in ogni momento della vita, un film già girato (Lucia lo fa nel sogno, i documentaristi lo fanno durante le pause in un’auto con ganasce trasformata in "pizza da asporto" e dormitorio di fortuna). Accettare l’incertezza del montaggio fluidificando e rinviando l’epilogo. Anna Negri ha tentato di ricostruire una crisi di coppia non attraverso lo sguardo del sociologo che analizza e sperimenta equazioni, ma tramite il punto di vista “perso” e “smarrito” di chi al cinema vede sempre lo stesso bellissimo film, ma in casa vede sempre lo stesso immateriale modus vivendi, inserendo nel contesto un segnale di disturbo capace di filtrare questa contrapposizione tramite un altro pdv non oggettivo. Peccato per le molte parti deboli, per quei momenti in cui si lascia trascinare al facile entusiasmo di un coup de foudre (Lucia che diventa macchina del sesso con l’ex marito cornificando l’amante) o con la confusionaria traslazione da un piano all’altro della visione fluida di Eros. Eros (che se ne era stato magnificamente in disparte assumendo un atteggiamento sufficientemente neutrale) cerca di forzare la narrazione, invadendo un campo non suo, trascinando la storia fuori dal flusso delle immagini astratte e avvicinandola verso un esito ridondante e troppo costruito. Un epilogo purtroppo non riuscito. Ce n’è ancora di strada da fare per il cinema italiano (nel suo complesso), ma intanto godiamoci questo film sufficientemente gradevole.

(1) Idea nel senso di idea preconfezionata o idea che ci siamo fatti di una narrazione edulcorata. Ad esempio quanta fiction ci dice ogni giorno che tutto va bene celando con un taglio il mostro alieno che potrebbe deturpare il paesino pseudo-dimesso da cartolina.

20 aprile 2008

Sci-Fi anni venti in 7 film: 5. La donna sulla Luna (Fritz Lang, 1929)

Per La donna sulla Luna Lang volle al suo fianco due famosi scienziati in qualità di collaboratori per le sequenze relative al lancio del missile diretto verso il satellite naturale della Terra. Il primo era Whernher Von Braun, ideatore e “inventore”, attraverso i suoi esperimenti nella base di Peenemunde sul Baltico, dei famigerati missili V1 e V2 (lanciati su Londra durante la Seconda Guerra Mondiale), nonché progettista nel 1958 del missile Jupiter (mise in orbita il primo satellite made in USA) e in seguito del gigantesco razzo Saturno che il 20 luglio 1969 condusse il primo uomo sulla Luna. L’altro, meno conosciuto ma più prestigioso, era Hermann Oberth, il vero teorico di tutte le ricerche missilistiche relative ai progetti V1 e V2, nonché collaboratore per il progetto missilistico del 1958. Per questi motivi La donna sulla Luna divenne un caso di spionaggio in quanto alla fine degli anni trenta i nazisti sequestrarono e distrussero i negativi e le copie del film, mentre i servizi americani e inglesi cercavano una copia per studiare il potente razzo a due stadi che si vede nelle sequenze centrali della pellicola. Pertanto il film, pur superando le due ore di durata, è rimasto mutilato di molte sequenze, mentre il montatore che dovette “ricostruire” le parti mancanti agì probabilmente sulle didascalie, cambiandole: questo per “ridare” un senso alle scene rimaste e malamente giustapposte. Soprattutto le sequenze iniziali risultano compromesse dai tagli e “ricostruite” arbitrariamente dal montatore allo scopo di dare un senso compiuto. Purtroppo l’incipit risulta incoerente e di difficile comprensione e certe “scelte” si ripercuotono lungo tutto lo svolgimento del film. L’incipit perde in intelligibilità e coerenza, ma soprattutto questa prima parte non è quella ideata e montata secondo le direttive di Lang. Un grande danno per un film come questo che mi ha dato l’impressione di “essere stato” un capolavoro. La lunga sequenza centrale che mostra i preparativi per il lancio del missile (questa parte non è stata rovinata dai tagli) assume uno stile documentaristico risultando la parte più bella e geniale dell’opera. In questa fase il film, oltre a raggiungere notevoli livelli di qualità, diventa premonitore di quello che accadrà in futuro durante le fasi preliminari del lancio. Riporto le parole di P. Jensen :

“[...] il razzo viene invaso da giornalisti e da cineoperatori che lo visitano e lo riprendono in ogni minimo particolare; una enorme folla si raduna su grandi tribune situate a una distanza di sicurezza […]; un annunciatore eccitato commenta ogni fase dei preparativi per tutte le radio del mondo collegate in diretta; il razzo gigantesco viene trascinato lentamente da enormi gru fuori del suo hangar fino ad essere piazzato sulla rampa di lancio […] poi le didascalie prendono quasi il sopravvento sulle immagini e divengono parte integrante della narrazione. Scandite in modo ritmico appaiono le seguenti parole: ‘Ora/il/razzo/ha/raggiunto/la/base/di/lancio’. Vediamo infatti l’astronave che viene calata dentro il bacino pieno d’acqua e dopo appare una nuova didascalia: ‘Dal momento del decollo in poi l’equipaggio dovrà sopportare per otto minuti la fase critica dell’accelerazione, assai pericolosa per qualsiasi organismo vivente quando si viaggia a una velocità che supera i 40 metri al secondo’. Quindi vengono scanditi altri titoli che rendono superflua qualsiasi altra immagine: ‘5 secondi al lancio…4 secondi… 3 secondi… 2 secondi…1…via!’ (1).

Lang ha inventato il countdown, il missile a due stadi, l’assenza di gravità all’interno della nave servendosi di veri scienziati così come farà Kubrick per il suo 2001 (per me film numero uno della Sci-fi ma non solo). Questa parte centrale, quella documentaristica, è la migliore e da sola vale la visione dell’intero film. Ma dico di più: senza i tagli della prima parte e le sequenze eccessivamente romantiche volute dalla moglie di Lang, la sceneggiatrice Thea von Harbou, il film sarebbe stato insuperabile, per me migliore di Metropolis, ma non solo, migliore di tantissimi film che saranno girati negli anni cinquanta e sessanta e che gli saranno debitori per averne recuperato molte idee. La realtà stessa cercherà il film per distruggerlo o salvarlo perché La donna sulla Luna non è solo un lungometraggio, ma è una limpida sfera di cristallo dov’è segnato il futuro del cinema e il futuro dell’umanità. Bravissimi gli attori anche se a prima vista sembrano interpretare (soprattutto il Prof Manfeldt e Hans Windegger) parti incongruenti, ma probabilmente l’incoerenza è dovuta ai tagli e allo stile di recitazione espressionista (il film è ovviamente tedesco e segue uno stile che esteriorizza gli sconvolgimenti interiori dell’anima). Bellissima e melanconica Gerda Maurus che interpreta Friede, la donna che dà il titolo al film, il centro nevralgico che sembra dirigere il regime degli sguardi degli altri personaggi, muovendosi con un’apparente algida immobilità (e in questo contraddicendo in parte lo stile recitativo degli altri attori); per me un personaggio moderno che porta il cinema in un’altra epoca. Se la trama è debole (l’eccessiva, pedante voglia di romanticismo della Harbou) ricordiamoci che alla regia c’è sempre Lang, regista capace di rendere comunque gradevole il film. Le sequenze scorrono fino all’epilogo trascinando lo spettatore nell’ansia e nella suspense. Lang è abile maestro capace di darci momenti di suspense hitchcockiani; insuperabile genio. La fotografia è curata minuziosamente, atta a mostrare ogni particolare inquadrato anche nel primo piano (es.: orologi, manoscritti, giornali, lettere, ecc.), ma soprattutto costruita nel rispetto di equilibri e simmetrie interne, sia nella suddivisione del quadro che nell’equilibrio dell’ornato. Il momento migliore si trova nelle immagini del razzo ripreso durante l’immersione in acqua. In questa sequenza la fotografia prende il sopravvento, emerge sulla retina creando l’dea del meccanismo che regola gli equilibri tecnico-sociali, correlandosi con le meravigliose scoperte dell’umanità. È un meccanismo che si mostra attraverso rotazioni e rapporti: esempio l’ immagine dell’anello che scorre lungo l’apice del razzo ormai quasi del tutto immerso nell’acqua mentre il ponte levatoio si abbassa aprendosi; e in un’altra immagine la folla che assiepa la tribuna, ordinata seguendo un senso orizzontale; e ancora la struttura che sosteneva il razzo ripresa mentre scorre sulle rotaie verso il punto di fuga dell’immagine. Equilibri precisi e coerenti sia nelle immagini che nei sintagmi. Naturalmente questa banale descrizione non può rappresentare le sequenze della partenza che consiglio vivamente di guardare e approfondire, perché qui è stato incorporato il senso di un film, ma soprattutto il senso del cinema. Lo sguardo impavido di un’istanza indefinita (la folla, un narratore extradiegetico?) controlla e testimonia l’evento “naturale”, fondamentale per l’intera umanità: il razzo lunare, anticipatore del Discovery (2) , delle V1, V2 e del LEM lunare, visto nel 1929 si rapportava a uno sguardo meravigliato e affascinato, pronto a costruire un futuro semplice; adesso è divenuto uno sguardo meravigliato e affascinato da ciò che è stato (guerra, Luna), ma pronto soltanto a fermarsi in un futuro un po’ meno semplice e un po’ più anteriore.

(1) Ho ripreso la frase da “L. Cozzi “Gli anni d’oro del cinema di fantascienza” p. 238 che a sua volta riporta il racconto del critico Paul M. Jensen nel libro “The Cinema of Fritz Lang”. Le didascalie della citazione non corrispondono del tutto con quelle del film da me visto, ma forse dipende dalla traduzione.

(2) 2001 Odissea nello spazio.

18 aprile 2008

I piaceri della vita

I cari amici Lorenzo e Martin mi hanno nominato nell’ambito del gioco sui sei piaceri della vita. Ho provato a rispondere. Per me una faticaccia. Mi sono sforzato non poco per trovare 6 cose che mi piacciono e dopo una lunga riflessione forse sono riuscito a ridurre la lunga lista alle sei richieste dal gioco. Ho provato a guardarmi dentro per trovare la parte migliore di me cercando di evitare il “lato oscuro”, perché ci sono tante cose che non mi piacciono e che forse possono rendermi “odioso”. Dico questo perché dall’elenco di seguito riportato potrei dare un’impressione sbagliata (credetemi: sono pieno di difetti).



1) MONDO. Mi piacciono le sfumature grigio bluastre tendenti al violaceo dei cieli nuvolosi, soprattutto quelli invernali e il profumo del bosco in un giorno di pioggia.
2) ARTE. Mi piace viaggiare all’interno delle opere d’arte, sia pittura che letteratura o… ehm cinema (naturalmente nei film preferisco abitarci, nelle foto scoprire le ombre lasciate dagli oggetti esterni).
3) PERCEZIONE. Mi piacerebbe ascoltare il silenzio, ma purtroppo è solo un sogno perché da anni soffro di acufeni. Pertanto sono costretto a vivere nel rumore per non “ascoltare” il fastidioso “rombo elettrico”. Comunque ci sono dei vantaggi: posso ascoltare musica all’infinito.
4) POESIA. Anche il sottoscritto (come molti per fortuna) scrive poesie (con risultati poco lusinghieri). La poesia è un orizzonte verso cui dovrebbe proiettarsi ogni forma d’arte. Forse irraggiungibile ma è comunque una linea a cui tendere.
5) CIBO. Mi piace il cibo e soprattutto assaggiare pietanze che non conosco. Se non fosse che i ristoranti sono carissimi forse ci vivrei dentro. Anche la Cucina può proiettarsi verso quell’orizzonte di cui sopra.
6) AZZURRO. Mi piace l’azzurro del mare e del cielo fusi insieme (vedere Pierrot le fou), gli azzurri e i blu dei quadri di Chagall, l’azzurro profondo e immenso dei meravigliosi occhi di mia moglie.

Arrossisco. E adesso l’imbarazzo delle nomine


Roberto Fusco, Iggy, Conte Nebbia , Christian ,Edo , Amosgitai

Cambio una regola: non vado sul blog ad avvertire gli interessati, così potranno, se lo vorranno, esimersi dal proseguire la catena (Pardon)

P.S. In questi giorni sono poco presente sul web per problemi sulla connessione adsl (ahimé).

15 aprile 2008

L’impossibilità di essere normale (Richard Rush, 1970)


Titolo originale: Getting Straight

La pellicola si colloca perfettamente in quel periodo in cui il cinema americano era influenzato dal fenomeno della controcultura statunitense.
Tutto il film gira intorno al concetto di normalità e cioè a quella condizione riconducibile alla consuetudine alla quale il protagonista tenta di ricondursi disperatamente. Harry Bailey ci appare, fin dall’inizio del film, come uno spavaldo ex leader della contestazione universitaria, ostentando le sue nuove convinzioni ad amici e conoscenti, intraprende quella strada fatta di scelte comuni che lo collocano immediatamente sulla scia di un percorso già delineato. Harry insegue la vita “normale” e si identifica nel mestiere dell’insegnante e questo tema viene sviluppato per tutto il film. Potrebbe annoiarci fino alla fine, ma la personalità di Harry mi risulta davvero molto più complessa, la lettura diegetica del personaggio rivela una diversità ancora più estrema. La sua ribellione è totale, Harry si contrappone al movimento di contestazione, non riuscendo ad identificarsi nemmeno all’interno del proprio gruppo, in un contesto storico in cui le spinte pacifiste andavano esaurendo con il conflitto vietnamita e il movimento stesso era alla ricerca di nuove tematiche che gli dessero ragione di esistere. Il protagonista si ribella ad un certo tipo di conformismo stupido, quello che ti rende incapace di ragionare e ti lascia in balia di una forza che ti trascina inconsapevolmente alla deriva. Harry comincia a pensare e ad elaborare, gli slogan ripetuti a memoria e i motivetti in rima non hanno più alcun significato. Harry si ribella a tutto questo, tenta di percorrere altre strade, l’alternativa sta nel perseguire l’obiettivo comune, intraprende l’apprendistato e segue attentamente le regole del gioco. E poi il risveglio della coscienza, Harry si ribella ancora una volta per proiettarsi chissà dove alla ricerca della sua dimensione. Forse prevedibile e banale la conclusione, tuttavia trovo qualcosa di eccezionale in questa anacronistica storiella, forse dovremmo tornare a svegliare le coscienze e metterci di nuovo alla ricerca di alternative, non per il “movimento” o per il senso del “buongusto” ma quanto meno per noi stessi.

12 aprile 2008

"Tutti insieme appassionatamente"

Scusandomi per il ritardo mi unisco agli amici Contenebbia, Parachimy, Ale55andra e Cinedrome (e mi scuso per gli altri che non ho citato) per proporre questo video ripreso da youtube (ringrazio Ale55andra per l’idea) in cui si nota come la “realtà” possa essere facilmente manipolata e strumentalizzata dai media sempre ad esclusivo vantaggio di chi detiene il potere (quello vero, quello dei media). Pensiamo bene a ciò che stiamo per fare.

Sci-Fi anni venti in 7 film: 4. Aelita (Yakov Protazanov, 1924)

Considerato con troppa sufficienza un prodotto del vecchio cinema russo Aelita è tendenzialmente un film enfatico e propagandistico. Anche se la propaganda non manca, come non manca una certa esaltazione acritica di una idilliaca purezza e giustizia popolare, accostandosi alla visione senza aspettative storico-politiche (è ovvio che Protazanov non poteva girare un film “critico” nei confronti della nuova classe dirigente), e tenendo conto che le sequenze “fantascientifiche” sono minoritarie rispetto alle sequenze girate a Mosca, non possiamo che meravigliarci della forza evocatrice delle immagini cittadine. Le sequenze, che descrivono una Mosca durante gli anni difficili del comunismo di guerra e della politica della NEP, si soffermano a mostrare nei particolari la misera vita dei cittadini, mentre il cibo è razionato e nelle case la coabitazione è una regola. Queste immagini sono anche un documento storico, ma soprattutto restituiscono la sofferenza e la dura vita quotidiana con i suoi problemi. Così ad esempio il soldato Gusev rappresenta lo spirito rivoluzionario non ancora sopito di chi crede e si impegna nella ricostruzione e non vuole ridursi a condurre una banale vita, preferendo sempre il centro dell’azione; mentre il rapporto tra Loss e la moglie Natasha esalta più l’aspetto melodrammatico del film. Inoltre non manca il funzionario di partito corrotto che fa la corte a Natasha, suscitando le gelosie di Loss, come non mancano i nostalgici dei vecchi tempi che si recano a una festa malamente vestiti celando, sotto miseri stracci da popolani, abiti lussuosi, calzature da boutique e gioielli. Le sequenze ambientate su Marte sono inserite nella parte iniziale del film e soprattutto nell’epilogo, quando finalmente (dopo una lunga parte centrale che si sofferma sulla vita quotidiana di una Mosca anni ’20 e sul dramma della gelosia) Loss, in compagnia del soldato Gusev e dell’aspirante detective Kravkov, atterra su Marte riuscendo ad incontrare (e a baciare) la regina Aelita. Il desiderio di Loss di evadere dallo squallore della vita quotidiana (resa insopportabile dalla situazione economica, politica, ma soprattutto sentimentale) lo porta a “sognare” un’evasione nell’Altrove o meglio in un mondo lontano che, una volta raggiunto, non si dimostra idilliaco come sperato. Anzi, l’amore che nasce tra Loss e Aelita (e Protazanov è abile a farci credere nelle aspettative e nelle possibilità di questi due cuori sofferenti che vivono così immensamente distanti) una volta messo alla prova dalle condizioni socio-culturali non dura poi tanto. Aelita è pur sempre una regina e il suo “tradimento” rappresenta il corrispettivo fantastico del tradimento terrestre e “verosimile” di Natasha. Se giudicassi il film dal “messaggio” potrei anche "comprendere" quella propaganda spicciola che incita a non essere nostalgici, che consiglia di accettare la dura realtà per “migliorarla" senza nascondersi dietro sogni impossibili e pericolosi. Ma Aelita è molto più di un film di propaganda o di un modo “vecchio” di fare cinema , Aelita è un quadro che restituisce allo sguardo l’entrata nell’Altrove, luogo ove la mente deve confrontarsi con l’assenza di senso del mondo. Dov’è il senso profondo di una Mosca anni venti, in piena ricostruzione, invasa dai nemici, dove dominano corruzione, miseria e disperazione? Il dramma della gelosia s’innesta in questi segnali. Quando Ehrlich (funzionario corrotto e personaggio “negativo” della vicenda) offre alcuni cioccolatini a Natasha per corteggiarla, Loss si accorge dell’espediente ma soprattutto rimane sconvolto per la gioia mostrata dalla moglie nell’accettare quel cibo miracoloso (ma anche dannato). In questo senso non siamo nell’enfasi post-rivoluzionaria e nella propaganda politica, ma abbiamo già in parte oltrepassato quell’Altrove che Protazanov non ha potuto mostrare fino in fondo (forse a causa della censura?). Il cioccolatino oltre a essere uno dei tanti “segnali” decifrati da Loss (pericolo, tradimento) è anche (o aspira ad essere secondo intenti propagandistici) simbolo di dissoluzione e disprezzo della povertà. Ritengo invece che la grandezza del regista russo emerga (in questo caso) nel mostrare un semplice cioccolatino come oggetto del desiderio di una donna (una bellissima Vera Kuindzhi) desiderosa di essere corteggiata anche assaporando un gusto diverso. Non essendo possibile oltrepassare questa soglia, Protazanov ha inserito segnali che poi si risolvono e si “concretizzano” nelle sequenze marziane e soprattutto nella magnifica resa scenografica del palazzo di Aelita e dei vestiti cubisti. Arrivare su Marte non significa realizzare un sogno ma entrare in una galleria d’arte moderna, luogo ove Loss comprende e decifra l’amore non per la regina di Marte bensì per la bellissima moglie Natasha (stupenda la scena in cui Aelita assume le sembianze di Natasha). Aelita è un film complesso ove realismo, melodramma, comicità, fantascienza, sono alternati con maestria senza appesantire il flusso delle immagini. Ogni scena è curata sin nei minimi particolari, mentre le sequenze marziane sono un manuale di arte contemporanea e un laboratorio per la futura fantascienza: la superficie di Marte, opera degli scenografi Isaak Rabinowitsch, Serger Koslowski e Viktor Simow, è in uno stile futurista e cubista, gli abiti sono di Aleksandra Ekster realizzati dagli allievi del Kamemy Theatre. Forse, riferendomi al cinema di quegli anni, il film è quello più esteticamente strutturato e narrativamente organizzato, naturalmente dopo Metropolis.Una bellissima recensione del film si trova su Recensioni libere.

7 aprile 2008

Juno (Jason Reitman, 2007)

Juno è uno di quei film su cui gli addetti ai lavori (psicologi, sociologi, politici) potrebbero scrivere interi libri, ma che lascia senza “parole” chi non vuole soltanto orientare il messaggio verso il contesto. Ossia, la funzione referenziale (1) di Juno è interessante (aborto sì o no?) fa riflettere (che fare se una sedicenne rimane incinta?) e costringe a prendere di petto la “vita” (lottare, subire il contesto e il suo giudizio). “Leggendo” il film in questo senso non scopriamo niente di nuovo: problematiche relative alla gravidanza e alla procreazione (o interruzione) in età adolescenziale con relativi aiutanti (Mac e Bren, Paulie, il proprio coraggio,ecc.) od oppositori (la mentalità ristretta e claustrofobica del quartiere e di Mac e Bren o di Paulie, ecc.) sono state affrontate dal cinema innumerevoli volte. Il fatto è che la questione del volere o non volere i figli scatena polemiche da sempre. Invece l’orientamento verso il messaggio è degno di attenzione, perché Juno è un bel film non per l’argomento in sé, ma per il modo in cui lo mostra. È la sua funzione poetica che lo rende film particolare e interessante, in quanto Diablo Cody e Jason Reitman sono riusciti a focalizzare l’attenzione sul mittente prima e sul messaggio poi. Se questa operazione sia riuscita o meno non è semplice da capire, almeno in questo momento in cui il film è ancora nelle sale; lo sapremo forse fra qualche anno. Il mittente, ossia Juno, ci “racconta” la storia in prima persona, e anche se le immagini si “allontanano” spesso dalla ragazzina, seguendo un andamento naturalistico (ma poi non tanto secondo me), ci sono segnali evidenti che la mdp cerca di stare “attaccata” al narratore autodiegetico. Insomma il mittente è fondamentale; siamo di fronte allo sguardo di Juno che ci sta portando nel suo mondo per mostrare la sua “versione” dei fatti. Se poi il contesto sia o no quello illustrato non ha molta importanza, perché contano le emozioni e il punto di vista di una adolescente americana di oggi che deve affrontare situazioni più grandi di lei. Ci vengono mostrate le sue emozioni, il suo modo di vedere le cose, non le cose come sono accadute. Con questo non voglio avallare (riferendomi alla trama) l’inverosimiglianza degli eventi, ma sostenere che le incongruenze narrative o le furbizie della sceneggiatura non hanno importanza, in quanto dovremmo immaginarci il mondo che circonda Juno come proiezione emotiva della stessa Juno, perché la bellezza del film è tutta nella capacità di trascinarci nella mente “ingenua” ma meravigliosa di questa ragazza. Se poi il mondo sia crudele (la distanza dei compagni di scuola ad esclusione di Leah e Paulie, l’ambulatorio o il feedback di Vanessa e Mark), o se siano tutte rose e fiori (l’amore dichiarato di Leah, le mentine all’arancio, i genitori, sempre il feedback di Vanessa e Mark) non è poi tanto importante. Sulla funzione referenziale potremmo discutere, ma sarebbero discorsi etici e/o politici, mentre sono interessato a un ragionamento estetico. In altri termini la funzione emotiva è importante, ossia il mondo visto attraverso gli occhi di Juno e le esperienze vissute attraverso le emozioni provate da Juno. Juno è come un prisma che rifrange la luce bianca del sole restituendoci i colori dell’iride; con lei, davanti a lei, il mondo si colora e sono azzeccate le immagini fumettistiche dell’incipit, come le scritte che scandiscono le stagioni e gli inserti visivi che accompagno le descrizioni della voce over di Juno. Gli ambienti sono coloratissimi, come pure le stanze delle ragazze e i vestiti del gruppo degli atleti che corrono di stagione in stagione, metafora del tempo che scorre serenamente (forse è il tempo dell’adolescenza?). La stessa neve, che in inverno copre le campagne e i tetti delle case, riesce a mostrarsi gradevole e visivamente attraente (forse è la neve che piace soprattutto ai bambini mentre crea solo disagi ai grandi?). Ad ogni modo, uscito dal cinema, mi sono reso conto di avere assunto l’ottica di una ragazza “deformata” dalla gravidanza, che ha la capacità di “giocare” col mondo e le sue disgrazie, trasformando il feto in un fagiolo, il sesso in alito profumato all’arancio e la maternità in parto e soprattutto in affetto. In quanto cittadino italiano, che vive in una realtà distante, posso ritenere che uno spettatore americano potrebbe comprendere anche gli aspetti più attinenti al “codice” (in pratica da noi non è possibile cercare i genitori del proprio figlio sui giornali) riuscendo a penetrare la scorza dura della funzione metalinguistica. Su questo non mi sento in grado di esprimere opinioni. Piuttosto mi interessa ritornare alla funzione poetica, ossia al modo in cui le cose sono dette nel film. La poesia non è dominate, altrimenti potremmo tutti gridare al capolavoro, ma ci sono indizi della sua presenza, attimi in cui la trama diventa forma del comune sentire che attraversa tutte le distanze (popoli, età) e unisce le differenze senza omologazione, ma nell’ostentazione della loro ricchezza. Voglio terminare citando alcune di queste “sensazioni di poesia”: Juno sulla poltrona con la pipa in bocca che attende davanti alla casa del suo ragazzo (di solito le poltrone stanno nel Dentro non nel Fuori); le due chitarre suonate dai due amanti che “sostituiscono” la dichiarazione d’amore (Potrebbe essere una metafora visiva? Che ne dite?); Leah che gioca con Juno sulla carrozzella dentro l’ospedale prima che venga portata in sala parto.

(1) Scrivendo sulle varie funzioni mi sono servito del famoso libro di Roman Jakobson, Saggi di linguistica generale.

4 aprile 2008

La banda (Eran Kolirin, 2007)

La banda mi ha lasciato un sapore amaro, con un lieve retrogusto dolciastro, difficile da esprimere, semplice da sentire, forse la stessa sensazione provata da tanti altri spettatori. Una storia interessante su cui potremmo discutere a fondo: arabi che fanno amicizia con israeliani, storie semplici che ci avvicinano incredibilmente a quel mondo, storie che ci rendono consapevoli dell’universalità dei sentimenti umani. Eppure non è questo aspetto (pur essendo importante) che mi interessa. Quanti film dalle tematiche simili sono miseramente falliti restituendoci “messaggi” ridondanti e retorici? È un vecchio vizio di un certo cinema che conosciamo bene, perché il confine tra il cliché e l’immagine dinamica (nel senso che riesce a scorrerti nelle vene) a volte può essere molto labile. E può essere anche questione di fotogrammi e dialoghi, fotografia e movimenti del corpo. Kolirin ci sa fare. Riduce al minimo i dialoghi sempre puntuali e imbevuti di “significanza”, mentre le immagini dense e costruite mi sembrano anche calcolate, mostrate come fossero nate da una ingente mole di fotografie colte nell’attimo del proprio abbrivo. Gli attori si muovono con una pacata naturalezza allo scopo di convogliare il senso quotidiano delle piccole beghe familiari e delle prime esperienze amorose nell’assoluta e irreversibile caverna (1). Allora la mano di un ragazzo che si posa sul ginocchio di una ragazza in lacrime, oltre a trasportare l’aspetto comico sulla superficie del fotogramma (il ragazzo israeliano esegue la lezione impartita dal giovane suonatore della Banda egiziana), produce un’inversione, trascinando “nostre” esperienze simili (vissute in prima persona o tramite altri racconti) dentro gli sguardi dei tre personaggi seduti ai bordi di una misera sala da ballo di Bet Hatikva. Per ottenere questo c’è bisogno di una capacità nella cura dei particolari, di una conoscenza e di uno studio degli aspetti più “fotografici” del cinema. Il profilmico si allontana lasciando emergere dal quadro la fotografia. È per un attimo, mi rendo conto (altrimenti saremmo davanti a qualcosa di incredibilmente insuperabile, tipo Il miliziano che cade di Robert Capa) perché le esigenze filmiche devono riprendere il sopravvento. Secondo il mio gusto eccessivo (anche troppo) per la fotografia, adoro quando la posa, la plasticità dei corpi e degli oggetti prende il sopravvento a discapito dello story board. La foto in sé che “scavalca” il fumetto. Ma non fateci caso: è una mia mania. Gli “equilibri” e le simmetrie all’interno delle immagini si ripercuotono anche nel sintagma; pertanto oltre a una cura dell’immagine (atta a sottolineare sentimenti dei personaggi, espressioni mimiche, scambio di informazioni ed esperienze), Kolirin non si dimentica di essere un regista di cinema e chiarisce la sua poetica con una cura dei rapporti tra scena e scena “riportando” sempre elementi dinamici di una immagine nell’immagine che segue, ma non come espressione del classico campo/controcampo, bensì come marcatura classica che si ripercuote ugualmente “differente” nell’inquadratura che segue. Esempio: 1) la scena dell’arrivo all’aeroporto della Banda musicale: i componenti della banda ripresi in campo lungo mentre una ragazza in campo medio attraversa l’immagine da destra verso sinistra spingendo un carrello; 2) la scena della fotografia: mentre i musicisti sono allineati davanti all’obbiettivo di un turista per una foto, un inserviente che spinge un carrello delle pulizie passa loro davanti da sinistra verso destra. Potremmo divertirci a scovare tutte queste simmetrie “sintagmatiche” (ce ne sono diverse nel film). Kolirin tiene molto anche ai movimenti degli attori sul set, sempre precisi e mai “casuali”, quasi come se i personaggi eseguissero una lenta e inesorabile danza, immobilizzandosi spesso in pose teatrali come per colmare la “carenza” dei dialoghi e rimarcare l’idea che l’uomo in fondo si sta muovendo in un acquario caotico e inosservabile (2). Bravissima Ronit Elkabetz che riesce a caratterizzare un personaggio con minimi movimenti del corpo, una sorta di dondolio isterico, riuscendo a far trasparire la noia e l’angoscia della sua vita, nonché il desiderio di mondo, attraverso una pacata lussuria resa tramite vibrazioni impercettibili fluttuanti sul suo corpo e sul suo volto. Magnifica! Questi risultati ritengo siano stati ottenuti attraverso uno studio approfondito del corpo e dei suoi movimenti in uno spazio non prospettico, ma inteso come luogo che frena lo slancio naturale delle vibrazioni corporee, causando un attrito tanto necessario quanto deprimente.

(1)Mi riferisco al Mito della caverna di Platone.
(2)Mi è piaciuto il primo piano di Tewfiq che telefona all’aeroporto di Tel Aviv con sfondo fuori fuoco. Ecco, mi sono obbligato a fissare la parte dell’immagine sfocata (che occupa uno spazio di poco superiore all’immagine in pp di Tewfiq ) e mi è parso di vedere un acquario ove si muovono faticosamente colorate parvenze ectoplasmatiche.

2 aprile 2008

Sci-Fi italiana anni venti: L'uomo meccanico (André Deed, 1921)

Questo film italiano del francese André Deed, in arte Cretinetti (Italia) e Boileau e Gribouille (Francia), è interessante non per la qualità imparagonabile ai film di Sci-Fi di quegli anni (senza considerare kolossal come Metropolis o Aelita), ma per essere un incrocio di tre generi apparentemente inconciliabili quali Sci-fi, farsa e film d’avventura. La trama non ha molta importanza soprattutto per due motivi. Il primo riguarda l’interprete principale, il famoso Cretinetti: e chi conosce i film girati da questo francese, che lavorò anche in Italia prima di ritornare in Francia finendo i suoi giorni come guardiano notturno agli studi Pathé, si può immaginare quanto la mdp si soffermi sulle sue performance “comiche”. Siamo dentro un genere, il comico, che è preponderante. Ci sono inseguimenti, travestimenti, scene surreali, tutte incentrate sul divo assoluto del film: il personaggio Modestino detto Saltarello (e se ne può immaginare il motivo). In effetti un film con Cretinetti quale interprete non poteva che soffermarsi sulle gag tipiche delle “comiche” dell'epoca (chi non ha visto almeno alcune gag di Larry Semon in arte Ridolini, Harry Landqon, Max Linder, Fatty, Harold Lloyd, i Fratelli Marx, Buster Keaton, Charles Chaplin, Laurel e Hardy?). Secondo motivo: la trama non è fondamentale perché è anche inintelligibile. In particolare l’incipit è difficoltoso causa troppi “buchi” ovvero pezzi di pellicola mancanti. Infatti il film, ritrovato nella "Cinemateca Brasileira" di San Paolo e restaurato grazie all’intervento della Cineteca di Bologna nel 1992, corrisponde a 740 metri di pellicola. Molte parti sono andate perdute e ricostruire gli eventi non è sufficiente; bisogna inventare più che cucire sequenze col filo delle ellissi. La bella e perfida Mado (Valentina Frascaroli moglie di André Deed) riesce a fuggire con uno stratagemma dal carcere in cui è stata rinchiusa per aver ucciso l’inventore dell’uomo meccanico. Quindi, rapita la nipote della vittima per farsi consegnare i piani di costruzione del Robot, semina terrore e caos tramite il "drone" appena assemblato. Mado comanda a distanza l’uomo meccanico tramite un "tele-visore". Il film termina con uno scontro tra due uomini meccanici (il secondo è stato costruito per fronteggiare quello controllato da Mado) durante un veglione all’Opera. Infine, dopo molte immagini di distruzione e scompiglio tra i presenti, il drone “malvagio” viene sconfitto grazie all’aiuto di Saltarello. Una trama così scomposta, piena di gag, inseguimenti che oggi fanno sorridere, performance tipiche dello stile di Cretinetti e per di più in un film lacunoso, non dovrebbe essere presa in considerazione se non fosse per il "personaggio" del Robot che potrebbe aver influenzato addirittura il famoso Ballo Meccanico futurista di Paladini e Pannaggi del 2 giugno 1922 tenutosi presso la Casa d'arte Bragaglia a Roma. Infatti il costume ideato da Pannaggi è molto simile all'Uomo meccanico di André Deed. Naturalmente anch’io sono dell’avviso che non vi siano prove per considerare L'uomo meccanico come precursore di questa estetica futurista che mette in risalto la meccanica: “[…] Bisogna superare le possibilità muscolari, e tendere nella danza a quell’ideale corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da molto tempo. Bisogna imitare con i gesti i movimenti delle macchine; fare una corte assidua ai volanti, alle ruote, agli stantuffi; preparare così la fusione dell’uomo con la macchina, giungere al metallismo della danza futurista[…]” (dal Manifesto della danza futurista, Filippo Tommaso Marinetti). Comunque è fuori da ogni dubbio che un cinema considerato di serie B, con il suo uomo meccanico e con i macchinari che lo controllano, abbia precorso e anticipato i più famosi meccanismi di film come Metropolis e l’Inhumaine (se non addirittura Aelita). Questo film, nonostante tutti i suoi limiti estetici e soprattutto “fisici”, è per me una perla autentica e con questo dimostrando che il coraggio e la consapevolezza dei propri mezzi possono in qualche modo lasciare il segno. Voglio terminare rammentando la bellissima Valentina Frascaroli, attrice e compagna di vita di André Deed che nel film interpreta la parte, molto fumettistica, di un’avventuriera senza scrupoli e pronta a tutto. Per rappresentare il suo personaggio si ispirò alle famose eroine dei serial francesi.